08 marzo 2024

FRANCO LORENZONI SULLA DIGNITA' DELLE 'LINGUE MADRI'

 


La dignità delle lingue madri


Franco Lorenzoni
07 Marzo 2024

Nelle scuole maestre e maestri spesso suggeriscono ai genitori immigrati di parlare ai figli a casa in italiano commettendo inconsapevolmente un errore. Avere pieno possesso della lingua madre, spiega Franco Lorenzoni, è una importante premessa per apprendere la lingua del paese dove si vive. La lingua infatti non è solo strumento di comunicazione ma creazione di mondi. Di sicuro c’è ancora molto lavoro da fare perché tutte le lingue madri trovino un loro posto nella scuola e nella società: un lavoro delicato perché c’è sempre il pericolo dell’esotismo e del paternalismo, ma c’è anche il bisogno dei bambini di non rimarcare le differenze, anche linguistiche, fonti a volte discriminazioni

Festa delle Lingue madri al parco Sangalli di Roma con i bambini e le bambine dell’’IC Simonetta Salacone, l’IC Laparelli e diverse realtà di Torpignattara (Asinitas, Cemea del Mezzogiorno, l’Associazione genitori Pisacane 099, A Sud , Biblioteca Mameli, Bibliopoint Tarducci, CPIA1 e AltraMente per il progetto “Galassia Torpigna”)

Mi è capitato di recente di incontrare una responsabile di una grande organizzazione umanitaria che mi ha parlato di alcune difficoltà che ancora trova nell’esprimersi in italiano. Figlia di una polacca e di un italiano ha passato gran parte della sua infanzia soprattutto con sua madre, che si vergognava di parlarle in polacco. Riteneva la sua una lingua minore, che non avrebbe aiutato l’inserimento di sua figlia, così le ha sempre parlato solo in italiano, ma in un italiano approssimato, povero di parole, perché non era la sua lingua. Nonostante la figlia abbia una vita lavorativa ricca e soddisfacente, a decenni di distanza sente ancora il peso di quella ferita linguistica originaria, di quella mancanza di parole. Torno a questo ricordo perché il 21 febbraio, è stata la “giornata internazionale della lingua madre”, proclamata dall’Unesco nel 2000 allo scopo di “promuovere le diversità linguistiche e culturali e il poliglottismo”.

Nelle scuole primarie sovente noi maestre e maestri suggeriamo alle mamme immigrate di parlare ai loro figli a casa in italiano commettendo, spesso inconsapevolmente, un grave errore. Avere pieno possesso della propria lingua madre, infatti, è una importante premessa per apprendere la lingua del paese dove si vive.

La lingua madre è una lingua humus e costituisce un terreno fertile indispensabile per dare linfa alle lingue della formazione e dell’incontro. Così sostiene Graziella Favaro, instancabile ricercatrice e attivista nel campo dell’intercultura, citando Tullio De Mauro:

“Una lingua, voglio dire la lingua materna in cui siamo nati e abbiamo imparato a orientarci nel mondo, non è un guanto, uno strumento usa e getta. Essa innerva dalle prime ore la nostra vita psichica, i nostri ricordi, associazioni, schemi mentali… È dunque la trama visibile e forte dell’identità”.

Nei miei anni di insegnamento ho collezionato alcune prove di quanto un rapporto intenso con la propria lingua materna aiuti figlie e figli di famiglie immigrate, ma anche le compagne e compagni loro che hanno occasione di accorgersi che il mondo è grande e la sua bellezza sta nell’infinita varietà delle espressioni umane che lo popolano.

Per diverse stagioni, ad esempio, ci siamo interrogati su dove si nascondesse la matematica e Nisrin, di origine marocchina, un giorno ha detto: “La matematica è un omino che va in bicicletta dentro la testa. Se si ferma, cade, se corre risolve tutti i problemi”. L’immagine era così bella che l’abbiamo scritta in grande sul muro in classe. La trovavo particolarmente efficace perché ogni volta che osservavo un bambino in difficoltà di fronte a un problema, pensavo a quel disequilibrio e a quella caduta così ben descritta da Nisrin, che nasceva da una sua difficoltà reale, sofferta. Un giorno, parlando con suo padre, gli ho raccontato della frase di sua figlia e lui mi ha detto che in arabo matematica si dice alriyadiaat, parola che ha la stessa radice di sport e di esercizio fisico, aggiungendo che evoca anche l’idea di acrobazia. Scopriamo così che l’origine della metafora di Nisrin stava nella sua lingua madre, in cui a volte pensa e forse sogna.

Sono sempre stato attratto dalle parole intraducibili e talvolta abbiamo giocato in classe a collezionarne alcune presenti in diverse lingue. Sono parole che evocano l’unicità e la lontananza di una lingua e di una cultura e, insieme, invitano a bussare a quella porta chiusa. La parola spagnola ensimismarse, ad esempio, utilizzata in “Cent’anni di solitudine” da Gabriel Garcia Marquez per descrivere il carattere di alcuni membri della famiglia Buendia, azzarda la possibilità di rendere transitiva la più riflessiva e immobile delle azioni, che è l’entrare in noi stessi.

Per anni la nostra classe è stata gemellata con una classe di Ayuub, un paese del sud della Somalia sorto per accogliere orfani e vedove scampate alla guerra civile. Mana Sultan, la straordinaria donna che lo ha fondato, in visita alla nostra scuola ci ha raccontato un giorno che il somalo è una delle lingue africane che da meno tempo conosce la scrittura. Osservando un testo scritto in somalo abbiamo scoperto che nella trascrizione dall’orale i linguisti incaricati di dare segni scritti a quella lingua avevano scelto di arricchire molte parole di doppie vocali per renderle aderenti alle sonorità del parlato. Mana ci ha spiegato che loro vivono prevalentemente in campagna, sempre all’aperto, e dunque si chiamano e parlano a distanza. Se non ci fosse questo prolungamento dei suoni non ci si potrebbe ascoltare. Ecco che, in quel caso, la lingua ci parla anche del paesaggio, di dove sono nati quei suoni.

Il problema è che anche le lingue subiscono ingiustizie e sono sottoposte a rigide gerarchie, che a volte sconfinano in forme di esclusione o vero e proprio razzismo linguistico, come accadde ai nostri dialetti nei decenni contrassegnati dalle grandi migrazioni interne, prima della diffusione della televisione che, insieme alla scuola di massa, forgiò la lingua nazionale. La nascita del tempo pieno negli anni Settanta, oltre ad andare incontro ai nuovi bisogni lavorativi delle famiglie, si diffuse soprattutto nelle scuole del nord per la necessità pedagogica di poter disporre di un tempo scuola capace di affrontare positivamente le difficoltà date dalla presenza di grandi differenze linguistiche portate dalle bambine e bambini immigrati dal mezzogiorno.

Sono oltre l’11% le studentesse e studenti di famiglie immigrate che, oltre a non avere diritto alla cittadinanza, vivono sulla loro pelle una scissione linguistica netta, dovuta assai spesso a una totale rimozione della loro lingua madre nella scuola.

Tra i molti progetti di educazione interculturale di qualità che si sperimentano ancora non ha trovato lo spazio che merita, infatti, la valorizzazione delle lingue madri, mentre credo sia della massima importanza nelle nostre classi trovare tempi e modi per dare spazio alla presenza di lingue materne di più continenti, che vivono nelle memorie e accompagnano pensieri ed emozioni di bambine e bambini.

Nelle “Linee pedagogiche 0-6” del 2021, un documento ministeriale di grande valore la cui scrittura fu coordinata da Giancarlo Cerini, uno dei migliori ispettori abbia avuto la nostra scuola, si invita ad

“avere attenzione alla lingua parlata nel contesto familiare, che costituisce la base per l’apprendimento della lingua italiana”. “Creare contesti nei quali si possono usare più lingue consente di riconoscere il patrimonio culturale di ogni bambino, di sviluppare abilità comunicative diversificate, di sollecitare curiosità ed esplorazione di lingue diverse…”.

In un altro documento ministeriale del marzo 2022, che delinea con lungimiranza gli “Orientamenti interculturali” che dovrebbero arricchire le nostre scuole, troviamo scritto: Un’educazione al plurilinguismo si deve porre obiettivi quali “Il riconoscimento delle lingue parlate da bambine e bambini nei contesti extrascolastici e la raccolta delle biografie linguistiche. La valorizzazione di ogni lingua e della diversità linguistica presente nella comunità. L’attivazione di processi metalinguistici e di comparazione e scambio tra le lingue…”

Sempre Graziella Favaro, che per anni ha diretto la meritoria rivista interculturale Sesamo, edita da Giunti, racconta di una interessante ricerca condotta in scuole dell’infanzia e della primaria in cui bambine e bambini di classi multietniche sono stati invitati a disegnare le compresenze linguistiche che incarnavano. Troviamo Kaifa che si disegna con due linee colorate che gli escono dalla testa commentando: “Io parlo bangla e italiano. Le lingue sono nella mia testa e sono come fumo. Il bangla è forte e rosso, l’italiano è leggero e di colore verde”. Mentre Rayan afferma: “Le mie lingue sono come una sciarpa. Prima girano insieme intorno al collo, poi si dividono in due parti: una va a destra e una a sinistra”.

Anche le questioni aperte raccolte sono di grande interesse perché, di fronte a una bambina che si disegna divisa tra due bandiere sotto cui si domanda “Sono indiana o sono italiana?”, un altro bambino decide di sostituire la o con la e affermando convinto: “Sono italiano e sono albanese”.

Altre esperienze interessanti si trovano nel sito mammalingua.it.

In un piccolo spettacolo preparato a dicembre di qualche anno fa nel paese umbro di Giove, non posso dimenticare l’emozione che traspariva nei volti delle mamme rumene, quando ascoltarono due canzoni cantate nella loro lingua dall’intera scuola primaria. Un gesto di accoglienza che riconosceva alle numerose famiglie rumene presenti nel paese piena dignità alla loro lingua.

La questione naturalmente è molto delicata. C’è sempre il pericolo dell’esotismo e del paternalismo e spesso bambine e bambini figli di famiglie immigrate non amano che siano rimarcate le loro differenze, anche linguistiche, perché sanno sulla loro pelle quante volte la percezione delle differenze scivola in forme palesi o nascoste di discriminazione.

Se assumiamo tuttavia la compresenza in classe di memorie che attingono a universi linguistici distinti e distanti come possibilità di arricchimento culturale per tutti le cose possono cambiare.

E poiché la lingua non è solo strumento di comunicazione, ma creazione di mondi e traccia viva dei diversi modi di abitare e di convivere, ecco che si aprono campi di ricerca che possono appassionare e mettere in ricerca piccoli e grandi.

Ngugi Wa Thiongò, grande scrittore keniota che ha pubblicato i suoi primi romanzi in inglese, a un certo punto decise di tornare alla sua lingua madre scrivendo in gikuyu. A chi lo criticava sostenendo che la sua lingua era intesa da pochi, rispondeva citando il nostro Dante, a cui venne rimproverato di rinunciare all’immortalità scrivendo la sua Commedia in italiano. “La lingua gikuyu per me è come latte materno di cui non posso fare a meno”.

Dal punto di vista linguistico nelle famiglie immigrate accade di tutto. Ci sono a volte madri che vivono gran parte del loro tempo isolate in casa, che non parlano quasi l’italiano ma più o meno lo intendono, perché i loro figli si rivolgono a loro nella lingua dei compagni, della scuola e del gioco. Ci sono bambine e bambini a cui a volte viene cambiato il loro nome, sostituendolo con uno italiano per precauzione, sospettando che gli italiani difficilmente compiranno lo sforzo di chiamarli col loro nome cinese o di altre nazionalità. La doppia appartenenza è così sancita addirittura da nomi diversi, impiegati in contesti diversi, che può generare scissioni di cui non abbiamo ancora piana consapevolezza.

Il poliglottismo in molti paesi del sud del mondo è la norma, per via di secoli di colonizzazione e per i continui spostamenti di popolazioni.

Raccontando di un suo incontro con Ivan Illich, Alexander Langer appunta queste sue frasi intorno a cui sarebbe interessante riflettere e discutere:

“Ricreare un’aura di convivenza, di tolleranza dell’alterità (anche linguistica) è il presupposto per la riscoperta del plurilinguismo: questo conta molto di più che non i corsi di lingua o le invenzioni scolastiche. Pensate quante caratteristiche del parlare si sono cancellate e uniformate: dall’intonazione agli accenti, dal tono alla voce, dalla melodia alla frequenza dei vocaboli. Le lingue sono molto di più di quante non ne segni la linguistica, le cui pretese ideologiche devono essere smascherate come tutte le altre pretese di delimitazioni scientifiche fatte in realtà in nome dell’economia, per rendere più misurabile, amministrabile e dominabile il mondo”.

C’è ancora molto lavoro da fare perché tutte le lingue madri trovino un loro posto nella scuola, nonostante sia evidente che costituiscano ponti indispensabili a una più aperta e profonda comprensione reciproca. Tutto deve partire dalla curiosità di noi insegnanti, che dovremmo sempre coltivare attenzione verso il mondo intimo e spesso nascosto delle bambine e bambini a cui insegniamo.


Articolo uscito su “Internazionale” e qui con l’autorizzazione dell’autore. Nell’archivio di Comune tutti gli articoli di Franco Lorenzoni sono leggibili qui

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