19 marzo 2024

BANDITI A PARTINICO 1 e 2

 




CONTRO CHI SEMINA MORTE

Diceva Danilo Dolci: "è disonesto usare i soldi dello Stato, che sono anche miei, per seminare morte." (Banditi a Partinico, Laterza 1955, Prefazione di Norberto Bobbio)  

E, secondo Danilo, non erano tanto i “banditi “ a seminare morte quanto lo Stato. (fv)


Alla luce di un recente fatto di cronaca secondo il quale la maggioranza degli studenti di una scuola di Partinico ha respinto la proposta di intestare la stessa Scuola a Peppino Impastato, mi sembrano tornate attuali le parole che ho usato, qualche lustro fa, in occasione della riedizione di un gran libro di DANILO DOLCI: BANDITI A PARTINICO


Banditi a Partinico, ieri e oggi

di Francesco Virga
E’ stato finalmente ristampato dall’ Editore Sellerio di Palermo un libro di Danilo Dolci degli anni cinquanta, difficile da trovare perfino nelle maggiori biblioteche.

 L’opera, che aveva suscitato un clamore straordinario, s’ intitolava Banditi a Partinico ed era stata pubblicata nel 1955 da Laterza. La nuova edizione è corredata dalle originali fotografie di Enzo Sellerio che ne rafforzano il valore documentario, espunte dalla prima per ragioni economiche, e risulta arricchita anche per la bella postfazione di Paolo Varvaro.

Il libro “scritto dalle cose e da tutti”, come Danilo amava definire i suoi libri-inchiesta, si articola in due parti. La prima, corredata anche da sommari dati statistici, ha il carattere dell’analisi sociologica che documenta lo stato di miseria e di abbandono in cui viveva gran parte della popolazione tra Partinico e Trappeto in quegli anni. La seconda, più descrittiva ed emotivamente coinvolgente, raccoglie alcune esemplari storie di vita di persone residenti nella zona che raccontano, con il loro povero ma espressivo linguaggio, le loro amare esperienze ( alcune di queste storie saranno successivamente riprese in Racconti siciliani).
Ci pare utile riproporre dei passi della Prefazione di Norberto Bobbio alla prima edizione che aiutano a capire la forza d’impatto che ebbe il libro:
“Vorrei che queste pagine fossero lette da tutti coloro che, in Italia, hanno una cattedra o un pulpito, e se ne servono per esaltare glorie nazionali magari remote o per flagellare terribilmente i vizi dei cattivi cristiani. Sono pagine che scuotono sia la pigra sicurezza dei ripetitori compiaciuti di formule patriottiche sia il sussiego moralistico degli accusatori secondo le leggi stabilite. (…) Quante volte ciascuno di noi ha rimuginato un lungo e complicato discorso sulla situazione della nostra società e delle nostra cultura, e sui rapporti tra questa società e questa cultura, quali si sono rivelati in modo drammatico negli anni dopo la caduta del fascismo. Queste pagine di Danilo Dolci lo abbreviano singolarmente, portandoci in mezzo alle cose, a quelle cose che non conoscevamo o volevamo non conoscere o fingevamo di non conoscere. E sono, da un lato, la miseria, la fame, la follia, la disperazione di un piccolo quartiere di una cittadina della Sicilia; dall’altro, l’indifferenza, l’incuria, il cinismo, la prepotenza di coloro, grandi e piccoli, che reggono le sorti dello Stato. Sono due facce della stessa medaglia .”
Le belle ed appassionate parole di Bobbio, oltre a fornire la chiave per leggere nel modo migliore l’opera dell’anomalo sociologo triestino, sono preziose anche per ricostruire il dibattito culturale di quel tempo:
“Per molti di noi il crollo del fascismo e la guerra di liberazione sono stati l’occasione per la scoperta di un’Italia segreta e nascosta, dell’Italia non ufficiale, di cui la cultura dominante, tutta affaccendata in polemiche filosofiche o ideologiche o di scuola ( contro il positivismo, contro il pragmatismo, contro l’irrazionalismo, contro l’attivismo e via con mille altri nomi astratti) ci aveva poco o nulla parlato, e di cui la politica dei politici aveva spudoratamente negato l’esistenza. Si cominciò a guardare l’Italia non più dall’alto in basso, ma di sotto in su, dal punto di vista dei poveri, dei diseredati, degli oppressi, di coloro che non erano mai stati protagonisti di storia etico-politica, (…) per la semplice ragione che le loro gesta o non valevano la pena di essere narrate o se venivano tramandate non era attraverso quel segno dell’individuazione che è il nome proprio, ma attraverso nomi collettivi come contadini, braccianti, plebe, massa, soldati, banditi. Proprio per questa scoperta il Cristo si è fermato a Eboli ebbe quella risonanza e quell’influsso che ognuno oggi è disposto a riconoscergli, ed ha un’importanza non soltanto letteraria ma storico-culturale o politica (…).”
Certamente tanta acqua è passata sotto i ponti da allora. Partinico e la Sicilia non sono più quelli descritti da Danilo Dolci mezzo secolo fa. Non esiste più la fame e la miseria di allora. Persistono, comunque, tante altre forme di miseria e, soprattutto, insieme all’immarcescibile sistema di potere clientelare-mafioso, di cui un illustre storico aveva incredibilmente annunciato la fine solo qualche anno fa, sopravvive una classe dirigente (e non mi riferisco solo alla classe politica) parassitaria, arrogante e insipiente che mostra ogni giorno di più di non essere all’altezza del suo compito.


Danilo Dolci, triestino, si trasferì in Sicilia agli inizi degli anni Cinquanta. Voleva partecipare in prima persona alla rinascita del Meridione. Partì, solo, per Trappeto e Partinico, scoprì una miseria impensabile, una desolazione, un abbrutimento, una ignoranza che facevano dubitare di stare in Italia. Stava in mezzo alla gente, la intervistava, la coinvolgeva: fu il primo in Italia a praticare il digiuno per richiamare l'attenzione dell'opinione pubblica e inventò "lo sciopero alla rovescia", che consisteva nel lavorare volontariamente là dove lo Stato era inerte. Così venne riattivata una strada comunale abbandonata. Ma le autorità ritennero che in tale comportamento si configurasse un reato, quello di invasione di proprietà altrui. Per questo Dolci fu arrestato e detenuto per 50 giorni, condotto in manette al processo, e condannato. Per lui si mobilitarono intellettuali come Carlo Levi, Elio Vittorini, Ignazio Silone, Aldo Capitini, Giulio Einaudi e a difenderlo in tribunale fu Piero Calamandrei. In carcere Dolci fu a stretto contatto con tanti poveracci e fu fra i primi a comprendere che la propensione alle attività criminali proprio in quei tenitori che erano dominati dalla mafia, non poteva essere vinta puntando esclusivamente sulla repressione. Bisognava invece creare opportunità di lavoro. Con questo libro Dolci voleva far conoscere a tutti le condizioni in cui versava la popolazione di quella terra di banditi, cioè di esclusi dalla società.

 


Nessun commento:

Posta un commento