Nicoletta Verna, Una bellezza insopportabile, La Stampa, 19 agosto
2024
Nella scena
più iconica di Rocco e i suoi fratelli Alain Delon è sulle Terrazze del Duomo
di Milano insieme ad Annie Girardot, e le sta dicendo che, pur amandola, la
deve lasciare. Per tutta la sequenza Luchino Visconti evita attentamente di
inquadrarlo frontalmente, riprendendolo sempre di spalle o di tre quarti. Solo
in due scene vediamo finalmente il viso di Delon: quando dice a Nadia che solo
lei può aiutare Simone (una frase dettata dalla buona fede, ma che carica la
donna di una responsabilità impossibile da sopportare) e quando poi, più tardi,
dichiara: «Non ci vedremo più, Nadia». In questi due primi piani la bellezza di
Delon è quasi insopportabile, deturpata ad arte da un cerotto che ne mette in
luce la dimensione morale (è stato picchiato ingiustamente) e l'assoluta
perfezione, che fu cifra della ricerca estetica e stilistica di Visconti. Ed è,
come non mai, una bellezza dolorosa. Dolorosa perché sfuggente: Delon si sta
sottraendo all'amore, alla donna che ama, alla vita, in nome di un ideale impossibile.
E dolorosa perché spietata: mentre lascia senza appello Nadia una lacrima gli
riga il viso angelico, ma negli occhi si accende un barlume glaciale. Lei gli
ripete per tre volte «Ti odio», e scappa: è confusa, persa fra le buone
intenzioni e la crudeltà priva di speranza di Rocco.
Visconti
come nessun altro ha saputo illuminare la cifra della bellezza di Delon, ovvero
il magnetico contrasto fra il candore dei lineamenti e l'acume impietoso dello
sguardo. Nella sua bellezza imperscrutabile c'è un mistero, di fronte al quale
non c'è risposta razionale bensì una reazione di meraviglia: e la meraviglia
(«una sorpresa improvvisa dell'anima», come la definiva Cartesio) è la chiave
per capire la fascinazione esercitata da Delon. L'incarnazione di un'era del
cinema fatta di immaginazione più che di raziocinio, quella descritta da Edgar
Morin nel suo saggio Il cinema o l'uomo immaginario, che infatti
esce nel 1956, l'anno prima del debutto di Delon. Sul grande schermo, dice
Morin, l'illusione di realtà è inseparabile dalla coscienza che si tratta
effettivamente di un'illusione: nessuno, coscientemente, si chiede cosa c'è
dietro. Delon ha costruito il suo mito sulla bellezza divistica di quegli anni,
astratta più che empirica, simbolica più che fenomenica. Eppure del tutto
reale. La bellezza di Delon è una grande illusione collettiva che parte dalla
meraviglia per il segreto che si cela nel suo viso e diventa vera. È il
rapporto fra bellezza e verità tipico dell'era moderna: come ci ricorda
Philippe Daverio nel suo breve e illuminante saggio Che cos'è la
bellezza, diventiamo uomini moderni quando passiamo dal concetto
seicentesco per cui «nulla è bello se non ciò che è vero», al concetto
romantico secondo il quale «è vero soltanto ciò che è bello». È la bellezza che
genera verità. Non solo: la dimensione della bellezza diventa, nei secoli,
sempre più dimensione morale. La bellezza salverà il mondo, dice il principe
Myskin nell'Idiota di Dostoevskij, richiamando il concetto di pulchritudo
dei di sant'Agostino. E la pulchritudo dei non è la
bellezza di Dio, ovviamente, bensì l'armonia. La bellezza, nella concezione
novecentesca, sta nella grazia.
Oggi il
dibattito prosegue e si allarga. La verità, la bellezza, la dimensione morale e
i rapporti che le legano sono concetti sempre più estesi, tentacolari,
complessi, specie per quanto riguarda gli uomini di spettacolo. Da un lato, la
star è sempre più illuminata nei dettagli nascosti e ambigui della sua vita
personale, infrangendo il confine fra scena e retroscena che un tempo ne
definiva l'identità. Dall'altro, movimenti come il #MeToo hanno portato a
riflessioni sulle abiette e spesso taciute condotte di molti divi. Questo
conduce sempre più spesso a mischiare i piani dell'arte e della vita privata: e
poiché la bellezza è una dimensione della morale, se l'aspetto morale non è
eccellente ne può fare le spese anche la bellezza, o la fascinazione.
Alain Delon,
allora, è stato l'artista più incantevole mai visto, ma anche, si obietta, un
individuo misogino, omofobo, conservatore. Ha rappresentato un modello di
mascolinità oggi discutibile, o apertamente criticato. Il mistero inquietante
del suo aspetto genera, in molti, fastidio più che fascinazione, poiché è lo
specchio di un individuo moralmente grigio. Un artista che è anche un uomo. Un
doppio. Sembra di essere in William Wilson, il capitolo diretto da Louis Malle
del film collettivo Tre passi nel delirio, dove Delon è un cinico e
sadico ufficiale austriaco perseguitato per tutta la vita da un uomo che gli
somiglia e che lo tormenta. È il suo alter ego, la sua coscienza, la sua metà
buona: e l'unico epilogo possibile è ucciderlo.
Oggi ciò che
resta della bellezza è quel che filtra dalle maglie della verità, della morale,
dell'ossessiva conoscenza di ogni dettaglio della vita intima. Delon ai nostri
tempi sarebbe l'immenso divo che è stato allora? La risposta, o forse
un'estrema domanda, forse sta in un'altra scena iconica della sua carriera: il
dialogo con Monica Vitti nell'Eclisse di Antonioni, quando lei gli
dice: «Io credo che non bisogna conoscersi per volersi bene. E poi, forse, non
bisogna volersi bene». —
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