Come allargare il fronte ecologista
di Fatima Ouassak
I passi che seguono sono tratti dalla parte conclusiva dell’introduzione (“Come allargare il fronte ecologista”) di Fatima Ouassak al suo “Per una ecologia pirata… e saremo liberi!” pubblicato recentemente da Tamu Edizioni, nella traduzione di Valeria Gennari. Un’utile intervista all’autrice si può leggere su Reporterre (NdR)
In Francia le manifestazioni per il clima sono quelle più popolate dalle categorie socio-professionali privilegiate e dai bianchi. È questa la loro grande debolezza. Infatti, quando i poteri in carica aprono la finestra sotto la quale decine di migliaia di persone scandiscono la necessità di «proteggere il vivente», e vedono che i viventi presenti sono quasi esclusivamente bianchi di classe media e alta, come possono prenderli sul serio e preoccuparsi? Certo, sui cartelli si invoca la rivoluzione, ma può un simile movimento, in un paese con milioni di persone delle classi popolari e non bianche, portare davvero a una rivoluzione? O almeno a una rivoluzione che vada verso la giustizia sociale e ambientale? Questo spiega certamente perché, al momento, le autorità concedono a chi manifesta sotto le loro finestre solo piccoli privilegi, come i sussidi per garantire l’isolamento termico delle case a cui, in realtà, hanno diritto solo le classi medio-alte. Alla fine, ciò che il potere in carica propone non è che un mondo putrido ancora più iniquo. Ovviamente sono molti, all’interno del movimento per il clima, a non volere questo tipo di mondo e a cercare di organizzare un allargamento del fronte ecologista. In particolare, e com’è logico che sia, queste persone guardano ai quartieri popolari, poiché i loro abitanti sono quelli che più hanno da guadagnare dalla lotta contro il riscaldamento globale. Da diversi anni si organizzano dei momenti di riflessione sulle strategie per allargare il fronte. Ci si lamenta che il movimento per il clima sia così poco presente nei quartieri popolari, nonostante questi siano – come si suol dire – enormi serbatoi di energia che aspettano solo di essere sensibilizzati per espandere il movimento. Questa strategia di allargamento del fronte climatico riflette una visione coloniale dei quartieri popolari. Non è specifica del movimento per il clima, ma si inscrive in quel continuum coloniale del trattamento riservato alle persone che li abitano, considerate come energia da estrarre per ampliare questo o quel fronte.
[…] Nonostante ciò, si continua a cercare di sensibilizzare sulla questione climatica, quando invece bisognerebbe innanzitutto fare un’informazione chiara, obiettiva e pertinente nei quartieri popolari. Si cerca inoltre di sensibilizzare senza mai porre la questione dell’accesso al potere politico dei residenti. Si parla loro di «sviluppo sostenibile», «sviluppo umano» e «transizione ecologica». Ma in questi quartieri, tra i neologismi della «politica urbana», l’ipocrisia dell’universalismo alla francese e i programmi di aggiustamento strutturale – che già negli anni ’70 mobilitavano gli ossimori ingiuntivi del neoliberalismo nei paesi africani d’origine –, siamo abituati ai falsi moralismi. È normale che le orecchie rimangano sorde a espressioni di questo tipo. Credere che i margini si uniranno al centro per difenderne gli interessi è quantomeno un errore di calcolo: non hanno tutto questo tempo da perdere. Tanto più che questa volta non si può chiamarli forzatamente a raccolta. La mobilitazione attraverso le campagne di sensibilizzazione non funziona, lo si vede dalle foto delle manifestazioni. Quindi, dato che i media, le Ong – soprattutto nordamericane – e i social network fanno pressioni per una maggiore «diversità» piuttosto che porre le domande di fondo, il movimento per il clima, non riuscendo ad allargare il fronte, lo decora con qualche corpo non bianco. In questo modo cerca di mostrare che il progetto non è razzista, che risponde agli interessi di tutte e tutti. Ma nella misura in cui solo la classe media bianca lavora al progetto, in cui il razzismo strutturale non viene realmente preso in considerazione e le istanze ecologiche dei quartieri popolari vengono folclorizzate, questo espediente decorativo ovviamente non inganna nessuno. Penso che il movimento per il clima non si stia ponendo le domande giuste. Le campagne di mobilitazione non funzioneranno finché non espliciteranno in maniera chiara la natura politica del progetto ecologista. Non si tratta di allargare il fronte o di diversificarlo. Non è una questione di mobilitazione. Il punto centrale riguarda le caratteristiche del progetto politico in nome del quale siamo chiamati a unirci. Ci si continua a comportare come se fosse sufficiente trasferire dei dati scientifici dall’alto verso il basso, dagli esperti ai non istruiti. Si sventolano le conclusioni dell’Ipcc e si avverte: «Presto! Ci restano solo tre anni per fare qualcosa». È troppo vago. L’ecologia non difende necessariamente la causa di una pari dignità umana; può essere fascista, reazionaria, sessista o transfobica. Nel campo dell’ecologia si può trovare sia il meglio che il peggio. D’altronde il termine «ecologia» fu coniato nel 1866 da un teorico europeo della supremazia bianca, Ernst Haeckel. E l’ecologia europea ha ampiamente accompagnato l’impresa coloniale in Africa, misurando e mappando a destra e a manca, contribuendo a fare di quella parte del mondo, umani compresi, delle riserve di energia da sfruttare per garantire l’ascesa del capitalismo industriale europeo. L’ecologia europea ha indiscutibilmente contribuito al disastro ecologico dell’intero continente africano. Ecco perché non basta usare il termine ecologia per definire un progetto politico. Occorre specificare la natura del progetto. In Francia, il progetto ecologista mainstream, quello attualmente promosso dai partiti politici e dalla maggior parte delle organizzazioni ecologiste, rivela a mio avviso non un’aspirazione al cambiamento, come sostiene, ma piuttosto al mantenimento dell’ordine sociale attuale. Si parla molto di protezione ma mai di liberazione; esso esprime chiaramente una preoccupazione nei confronti del cambiamento («vogliamo che i nostri figli abbiano la nostra stessa vita») e un’aspirazione a preservare la vita com’era prima, prima del riscaldamento climatico, prima dei rischi demografici e migratori. Se lo si legge con attenzione, appare chiaro che questo progetto ecologista è volto a garantire il mantenimento, nel limite del possibile, di un certo livello di benessere. Mangiare bene, vivere a lungo e in buona salute all’interno di case grandi, muoversi liberamente nel mondo, viaggiare, essere liberi di esprimersi o di protestare, contemplare la natura, essere felici: questo progetto è sostenuto da una parte della popolazione francese che ha potere politico e peso elettorale e che vuole negoziare, nella cornice dei rapporti di forza, la possibilità di proteggersi il più possibile dalla devastazione ecologica. Esso invade il campo politico ed elettorale con le questioni dell’adattamento e dell’adattabilità, negoziando la possibilità di proiettarsi in avanti in termini di risorse mobilitate per fronteggiare lo sconvolgimento climatico. In sostanza, questo progetto consiste nell’adattarsi prima degli altri, perché il livello di benessere di coloro che lo promuovono è tale che non può essere esteso a tutta la popolazione; il benessere di alcuni sarà possibile solo al prezzo dello sfruttamento e della distruzione degli altri.
[…] Presentato in questo modo, il progetto ecologista mainstream in Francia è tutt’altro che popolare, ed è facile capire perché. Esso non corrisponde in alcun modo alle aspirazioni di cambiamento dei quartieri popolari – dove il timore è, piuttosto, che nulla cambi – «non vogliamo che i nostri figli abbiano la nostra stessa vita». Oggi, nell’arena politica, prevalgono in larga misura le aspirazioni delle classi medie e alte a mantenere le proprie comodità materiali. Ma esistono delle tensioni, soprattutto all’interno del movimento per il clima, molto più ricettivo nei confronti delle questioni anticoloniali e antirazziste rispetto ai partiti politici e alle organizzazioni ambientaliste più tradizionali. È quindi possibile imporre un rapporto di forza a favore di un progetto alternativo volto a costruire un grande e solido fronte ecologista. Se vogliamo vedere le cose in maniera più chiara e fare dei passi avanti, sarà necessario rispondere ad alcune domande essenziali che raramente vengono poste nel dibattito politico. Siamo d’accordo sulla necessità di risolvere il problema del clima, ma dal punto di vista di chi e nell’interesse di chi? È l’umanità che vogliamo salvare o solo la ricca e fortunata minoranza bianca? Che tipo di ecologia garantisce tutte le libertà, compresa quella di movimento e di insediamento per tutti, indistintamente? Che tipo di ecologia stiamo difendendo? Un’ecologia che aggiunge frontiere alle frontiere o un’ecologia che cerca di abbattere i muri? L’ecologia pirata proposta in questo saggio cerca di rispondere a queste domande e contempla la possibilità di liberarsi dal sistema responsabile del disastro climatico e delle restrizioni alla libertà di movimento di cui esso ha bisogno per perpetuarsi. Se l’ecologia è una scienza, allora l’ecologia pirata è la scienza delle strategie per riprendersi potere, tempo e spazio sottraendoli al sistema coloniale-capitalista. Se l’ecologia è una lotta, allora l’ecologia pirata è una lotta collettiva affinché ogni individuo possa circolare liberamente. Se l’ecologia è un movimento sociale, allora l’ecologia pirata è il movimento di tutte e tutti coloro che rifiutano l’ingiustizia e vogliono lasciare ai propri figli qualcosa di diverso da questo mondo nauseante. L’ecologia pirata è un progetto di resistenza che ha come obiettivo la liberazione della terra e come orizzonte la pari dignità umana e la libertà di movimento. Molti di noi stanno soffocando in questo mondo, costretti nelle proprie case da mille muri invalicabili. Da qui nasce la nostra sete di libertà. Ma possiamo liberarci solo insieme, attraverso un’avventura collettiva. Il Re dei pirati è una Regina, e quella Regina saremo noi!
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