IL
POETA CON LA FRUSTA
di Andrea
Cortellessa
Milano, primi anni Sessanta. A Piazza del Duomo la Marcia per
il disarmo nucleare si conclude cogli interventi dal palco, ma per colpire
l’uditorio serve qualcosa di forte, icastico. Se possibile, anti-retorico. La
sera prima gli organizzatori si arrovellano sulla scaletta: Umberto Eco propone
un minuto di raccoglimento per le vittime della Bomba, ma c’è chi rilancia. «Un
minuto è troppo poco». Facciamo cinque, allora. «Ma», si obietta, «come si fa a
tenere la gente zitta per cinque minuti?». Risponde Eco: salirà qualcuno sul
palco, come per prendere la parola, ma resterà immobile e in silenzio,
incrollabile. «E la persona giusta», aggiunge a tradimento, «è Nanni». Come
nella Vocazione di Caravaggio, in fondo al tavolo alza la
zazzera bionda il giovane poeta restato sino a quel momento in silenzio: «Io?».
Ma il giorno dopo funziona tutto a maraviglia: «magro e pallido, stagliato
contro le luci del tramonto, sembrava davvero il cadavere di una di quelle
vittime. Migliaia di persone e non si sentiva volare una mosca». Chi racconta
(in Nanni
Balestrini Millepiani, curato due anni fa da Sergio Bianchi per
DeriveApprodi) è uno dei manifestanti di allora, G.B. Zorzoli, ingegnere
collega di Eco alla RAI che poi si sarebbe occupato proprio di energia nucleare
e fonti rinnovabili, e per tutta la vita resterà amico del poeta-statua.
Conclude GBZ: «Nanni non impressionò soltanto i manifestanti, ma anche sé
stesso»; sceso dal palco lui, laconico come sempre, s’era limitato a dire:
«Questa sera ho capito molte cose».
Secondo Zorzoli Nanni, che politica sino ad allora non
l’aveva mai fatta, da quel momento cominciò a pensare che se la poesia si fa
con le parole, la politica si fa soprattutto coi gesti. Ma quel silenzio carico
di tensione veniva da lontano: l’aveva brevettato una decina d’anni prima John
Cage (ben noto a quella couche: nel ’59 il sempre sulfureo Eco
l’aveva spedito a Lascia o raddoppia dove farà una serie di
comparsate memorabili in qualità di esperto di funghi) coi mitici 4’33” nei
quali, musicalmente, non succede niente: e, proprio per questo, tutto può
succedere. Certo bisognerà aspettare il Sessantotto per battezzare una volta
per tutte il Balestrini militante. Sarà quello il momento in cui decide senza
troppi patemi di sbarazzarsi del Gruppo 63 e di «Quindici» (i coéquipiers non
la prendono benissimo), poi fonda Potere Operaio e brevetta il brand fortunatissimo
di Vogliamo tutto, per poi nell’aprile del ’79 insieme a tanti
altri finire nelle panie del Teorema Calogero, darsi alla macchia con un’epica
fuga in sci attraverso le Alpi (fantastica la resa poetica dell’episodio,
l’anno dopo, in Blackout),
venire scagionato e tornare in patria dopo cinque anni d’esilio fra Parigi e la
Provenza (e sarà il tempo dei bellissimi Iposonetti).
In verità però sin dall’inizio l’acerbo Nanni, allievo di
Luciano Anceschi al Liceo Vittorio Veneto di Milano e poi instancabile factotum alla
rivista da lui fondata nel ’56, «il verri», aveva avuto chiaro come Fare Cose
Con Le Parole (per dirla col titolo del libro di J.L. Austin uscito postumo nel
’62; l’anno dopo il titolo della sua prima raccolta organica, tratto da Brecht,
suonerà Come si agisce), cioè trattare il linguaggio «come fatto
verbale» che ci fa fare «incontri inediti e sconcertanti»: in questo modo
la poesia si fa «frusta per il cervello del lettore», mostrandosi «aperta a una
pluralità di significati e aliena dalle conclusioni», capace di aderire
all’«inafferrabile» e al «mutevole», nientemeno, che «della vita». Sono parole
tratte dall’unica poetica che mai Balestrini abbia accettato di
enunciare, Linguaggio e opposizione, non a caso tenendo questo
scritto per valido dall’antologia dei Novissimi, 1961, sino alle
tarde auto-antologie nelle quali, mezzo secolo dopo presso DeriveApprodi,
ha provveduto alla sistemazione del proprio corpus.
E giustamente da questo testo prende le mosse Cecilia Bello
Minciacchi nel libro, ponderoso quanto prezioso, che per la prima volta
riassume tutta intera – a cinque anni dalla scomparsa – la storia di Balestrini
scrittore. Era stato tante altre cose, si sa: non solo militante politico ma
anche organizzatore culturale (attivista poetico, non manager),
editore di collane e riviste, artista visivo (di recente celebrato da mostre
importanti a Barcellona e New
York). Come lui stesso ammetteva pacificamente non tutto collima, non tutto
si può accordare con tutto (e vorrei vedere, in sessant’anni e passa
d’attività); e personalmente non nascondo che, più di Cecilia, sarei portato a
enfatizzare le varianti, anziché le costanti. Se Balestrini è sempre stato un
anti-storicista militante, anche nella sua storia d’autore non ha mai dissimulato
le discontinuità che tanto più danno valore, del resto, alle altrettanto
innegabili continuità. Ma non si può negare che in tutte queste vesti
multiformi – pied beauty come il suo allegorico avatar, la
Signorina Richmond, mitologico uccello in volo fra i tardi anni Settanta e i
primi Novanta, che simboleggia insieme la Poesia, la Rivoluzione, l’Eterno
Femminino: e il nostro amore, sempre disilluso e mai estinto, per tutte loro –
Nanni abbia inseguito sempre, instancabile, quell’inaspettato della vita e
dell’arte che dà luogo, ogni volta, a «una autentica avventura».
Linguaggio e opposizione vede la luce, prima che nell’antologia curata da
Alfredo Giuliani su impulso di Anceschi, sulla «Fiera letteraria» nel luglio
del ’60. Poche settimane prima, a Cannes, conseguiva il Gran Premio della
Giuria L’avventura di Michelangelo Antonioni. (La Palma d’oro
invece arrise alla Dolce vita di Fellini, l’anno dopo esordirà
alla macchina da presa Pasolini con Accattone, quattro anni dopo
Bellocchio coi Pugni in tasca. Erano tempi così.) Proprio Eco
in Opera aperta, 1962, sintetizzava la novità di Antonioni nel suo
rendere la casualità della vita com’è (Comment c’est di
Beckett è dell’anno precedente) con una «casualità “voluta”», ossia una
sospensione dei nessi narrativi tradizionali e un’apertura del
testo come «campo di possibilità». Questo il senso del titolo: tanto
ironico sullo svuotamento dall’interno dell’“avventura” dei due fedifraghi
protagonisti, quanto serio come un manifesto dell’avventura dell’arte.
Nella letteratura d’allora non c’è dubbio che a raccogliere
quella sfida, con tutti rischi e le possibilità del caso, sia stata la
Neoavanguardia del Gruppo 63. Chi oggi continua a esserne terrorizzato, magari
senza troppo conoscerla (ed è la maggioranza), si trova spesso nell’ambascia di
apprezzare – se non feticizzare – suoi singoli, più o meno organici,
componenti. E deve così affrettarsi a specificare che Sanguineti o Porta,
Pagliarani o Ripellino, per non parlare di Manganelli Arbasino o Rosselli, con quelli non
c’entrava, passava lì per caso. Stando a queste chiamiamole ricostruzioni si
dovrebbe pensare insomma che il Gruppo lo componesse il solo Balestrini: per il
buon motivo che, in termini organizzativi e promozionali, se l’era inventato.
Ed è infatti oggi, di tutti loro, il più vituperato.
Per dirla con un suo titolo, non da oggi su di lui girano
voci, circolano cioè quattro falsi miti (a seconda delle intenzioni di chi
li propali, slogan pubblicitari ovvero leggende nere). Il primo mito è che la
sua scrittura sia fredda e laboratoriale, tutta di testa e perfettamente priva
d’emozione. Il secondo, corollario del primo, è che sia asemantica o come piace
dire oggi asemica, cioè puramente composizionale e non referenziale. Il terzo è
che (© Eco) «di suo non ha mai scritto una sola parola e ha soltanto ricomposto
brandelli di testi altrui» (alludendo al suo gesto più scandaloso, la poesia
scritta “al computer”, nel ’61, di Tape Mark 1: che infatti oggi,
fuori dalla nostra beata provincia, viene additata come pionieristica e
profetica). Il quarto mito (che a ben vedere contraddice il terzo…) postula il
suo avanguardismo come disprezzo, o semplice ignoranza, della tradizione.
Di tutta questa fuffa il libro di Bello Minciacchi, senza
troppo polemizzare, fa piazza pulita una volta per tutte. Punto primo:
obiettivo della poesia-frusta di Balestrini è sempre stato quello
di provocare non sentimenti preconfezionati ma «emozioni mentali» (ho detto
di Blackout, ma si pensi al finale della Violenza
illustrata o degli Invisibili: che infatti, se qualche
sopracciglio hanno fatto alzare, è per l’esatto contrario del loro presunto
gelo): Bello parla a ragione di una sua «implicita» quanto inesausta «istanza
morale» (è il suo etimo lombardo-germanico; personalmente il suo brechtismo
meno mi convince, semmai, quando piega nel senso della morale didattica o, ha
detto una volta Giuliani, del «puro contenutismo»). Punto secondo: anche quando
fa veri e propri collage verbali, come nei Cronogrammi,
nell’ammirarne la forma risulta «impossibile non leggere le parole e non
assimilarne il significato al contempo»: il sabotaggio della comunicazione ha
sempre valore performativo, è cioè una critica alla comunicazione dominante
(esemplare la s-connessione tipografica di un certo episodio della Violenza
illustrata). All’apparire di Tape Mark 1 Sanguineti
parlerà non a caso di poesia «ex machina», alludendo appunto alla
presenza di un «deus», magari absconditus ma sempre immanente.
Allora come oggi (almeno si spera) la macchina non viene lasciata a sé stessa:
è il servo-meccanismo di regole d’ingaggio e sistemi operativi che hanno
matrice umana, e perfettamente motivata in quanto tale.
Ma è al quarto mito che Bello Minciacchi dedica la parte più
impegnata e originale del suo lavoro, in sostanza un gigantesco commento al
complesso dell’opera in versi e in prosa di Balestrini. (Cecilia ha avuto in
sorte di lavorare, per i due autori ai quali ha dedicato le sue maggiori
energie, in senso diametralmente opposto a quanto da loro prescritto:
ricostruendo filologicamente il corpus che Emilio Villa per
tutta la vita ha minuziosamente disperso, e censendo i materiali che Balestrini
– lo disse stizzito lui, una volta, a Giuliani – non voleva assolutamente
venissero riconosciuti; così una volta di più dimostrando che solo tradendoli
si è davvero fedeli ai maestri.) Un commento che non solo ne riconosce le
“fonti” (letterarie, certo, ma anche filosofiche, politiche, spesso
giornalistiche) ma – come sempre dovrebbe fare una filologia “espansa” – ne
ricostruisce i contesti, e dunque appunto i moventi. Esemplare la ricostruzione
della “funzione-Foscolo”, attiva dal principio alla fine della parabola balestriniana,
ma con significativa correzione dall’eroismo deluso dell’Ortis al
Didimo Chierico «più disingannato che rinsavito» degli scritti (mirabili)
dall’esilio di Francia e di Provenza (e poi ancora il Dante della Vita
Nova; lo Heiner Müller dell’Hamlet-Maschine che sala il sangue
alle «operapoesie» “femministe” per il teatro e la musica; ma anche il Lenin
che fa il paio, ma anche correggendolo, con lo Stalin del maestro Sanguineti
in Laborintus, ecc. ecc.). Di tutto questo bendidio che è la
tradizione non solo Balestrini, come tutti i Novissimi e come ogni poeta degno
di questo nome, fa tesoro a piene mani; solo che sa bene – perfetta la sintesi
di Sanguineti, in un lontano dialogo con Massimo Gezzi – che «occorre
utilizzarlo non come natura, ma come storia».
Una storia anti-storicista, ripassata «contropelo» come
voleva Benjamin, e che – non si dovrebbe mai dimenticare – nasce dalla
catastrofe dell’Age of Extremes (Balestrini era del ’35). «L’Europa cariata»
dei versi aurorali del Sasso appeso è la versione
balestriniana della «terra devastata» (o «paese guasto», piuttosto, giusta
memoria dantesca) del più influente maestro di quella generazione, Eliot. Da
quella catastrofe ci si mette «in fuga bassi dalla città minata», anche se non
si sa in quale direzione («Ma dove stiamo andando col mal di testa la guerra e
senza soldi?»), ma «pazienti godiamoci il viaggio». E anche se lo sappiamo
bene, che «non si arriva» da nessuna parte, comunque «arriveremo». All’altro
capo della parabola, nelle Radiazioni del corpo nero opportunamente
riportate in appendice al libro di Cecilia, l’ultimo verso lasciato dal poeta,
che si sapeva alla fine, ci si creda o meno suona: «ce la faremo». C’era chi
parlava di ottimismo della volontà. Pessimisti della ragione, non finiremo mai
di ringraziare chi non s’è mai stancato di insegnarcelo.
Cecilia Bello Minciacchi, Come agisce
Balestrini. Le parole che cercano, Carocci 2024, pagg. 387, € 38
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