Herzog e Chatwin, un incontro alla fine del mondo
[In occasione della pubblicazione per minimum fax di Guida per i perplessi. Nuovi incontri alla fine del mondo di Werner Herzog (a cura di Paul Cronin, curatela italiana di Francesco Cattaneo) riproponiamo questo pezzo di Vanni Santoni sul rapporto tra Herzog e Chatwin, uscito originariamente su “Linus”, che ringraziamo.]
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Herzog-Chatwin: a prima vista – o almeno prima di Nomad, il film in cui tre anni fa il regista tedesco ha raccontato la loro amicizia, o meglio le loro affinità e ossessioni comuni – un accostamento tra Werner Herzog e Bruce Chatwin potrebbe, o sarebbe potuto apparire, del tutto casuale, ancor prima che da “strana coppia”. Uno tedesco, l’altro inglese; uno folle e ossessivo, l’altro contenuto e ironico; uno ancora pimpante a ottant’anni, con una filmografia di oltre settanta pellicole, l’altro morto giovane con con soli cinque libri all’attivo (senza contare le raccolte di scritti usciti su rivista).
Chi però conosce a fondo l’opera herzoghiana, sa che Cobra verde, il (sottovalutato) film del 1987 che va a sancire la conclusione del fertile sodalizio del regista tedesco con l’amico-nemico-specchio (distorto) Klaus Kinski, è tratto da un romanzo di Chatwin, suo primo e non troppo riuscito tentativo di fiction (andrà meglio col secondo, Utz), Il viceré di Ouidah. I due, quindi, si conoscevano, e questo è già un punto di contatto; chi ha maggior confidenza con la vita dello scrittore, può trovarne un secondo nell’ossessione di quest’ultimo per il cinema, che lo portò a suggerire svariate idee per possibili film a James Ivory, durante la loro breve e burrascosa relazione (idee che non vennero mai prese sul serio dal regista), e poi a tentare in prima persona di girare un documentario. Era il 1972 e il tema erano i nomadi del Niger; il film andò perduto mentre Chatwin cercava, fin lì senza risultati, di venderlo alle compagnie televisive europee. Un documentario, dunque: e sappiamo bene come una parte consistente della filmografia herzoghiana (incluso il film che racconta la sua amicizia con Chatwin) appartenga a questo genere, che ne contamina anche le più ardite e rocambolesche opere di fiction.
Ma le affinità non finiscono qui, anzi iniziano qui: Chatwin cominciò a viaggiare – o a vagabondare, secondo i punti di vista – nel 1972, una data che suona piuttosto recente, per quando si collochi precisamente mezzo secolo fa. Di certo, quando pensiamo al 1972, viene in mente un mondo abbastanza simile al nostro, fatta salva la forma dei calzoni e l’assenza di Internet; in realtà, dal punto di vista di un viaggiatore, il mondo era molto, molto diverso, e non solo perché i voli aerei erano ancora roba da ricchi e il turismo di massa non abbracciava tutte le località dell’orbe. Il fatto è che nel 1972, viaggiando, era ancora possibile perdersi, scoprire frontiere dimenticate, incontrare alterità estreme, correre grossi rischi e restare sbigottiti di fronte all’inatteso (qualcuno ricorda il soldato tedesco del primo lungometraggio di Herzog, Segni di vita, che dà di matto di fronte alla visione di una valle con diecimila mulini a vento?): raggiungere insomma, volenti o nolenti, da eroi della propria avventura o vittime del proprio dramma, i confini dello spirito. Esattamente come accade a molti personaggi della cinematografia di Herzog, e in particolare a quelli interpretati da Kinski: con l’eccezione del büchneriano Woyzeck, che cosa sono Aguirre, Fitzcarraldo, Cobra Verde, e pure Nosferatu, se non grandi e tremendi – nel senso vedico del termine: bhairava, il tremendo come apice estremo della metafisica – esplorazioni che devono, per definizione, arrivare al punto di rottura? Anche Nosferatu, sì, perché nel momento in cui si ribalta il punto di vista – e il ribaltamento del punto di vista è chiave costitutiva del cinema herzoghiano (a volte anche esplicitata con ironia, come quando Francisco Manoel de Silva, per i nemici Cobra Verde, viene catturato dagli sgherri del folle re di Dahomey e scaricato come un sacco di patate al suo cospetto, finendo a guardare il suo interlocutore, e potenziale carnefice, da ribaltato) –, è possibile guardare alla storia di Dracula come quella di un viaggio, dalle profondità (in fin dei conti sicure, per lui) della Valacchia o della Transilvania, fino all’altro mondo rappresentato dall’Europa, che sia la Londra del romanzo di Stoker o la Wismar di Herzog.
Torniamo allora a Chatwin, che dopo aver rinunciato a una promettente carriera presso Sotheby’s lascia proprio Londra per partire alla ventura: se è stato sovente definito “l’ultimo esploratore”, è perché si muove in un mondo ancora esplorabile, e al di là della misura che mostra nella scrittura – se c’è una differenza sostanziale tra Chatwin e Herzog, è quella tra la misurata sintesi prosastica del primo e la strabordante estensività scenica del secondo –, lo fa con uno spirito dei più radicali. Si sposta rigorosamente a piedi, quasi avesse già sentito la frase di Herzog, che conoscerà solo nel 1983, per cui “il mondo si rivela a chi cammina” (riportata in Sentieri nel ghiaccio, il libro in cui Herzog racconta il suo viaggio a piedi da Berlino a Parigi, sorta di pellegrinaggio intrapreso con l’idea di salvare un’amica dalla malattia… camminando), sceglie luoghi estremi per clima, cultura, distanza e distanza dal consueto, su tutti la Patagonia e il deserto australiano, dove sono ambientati i suoi libri più celebri, In Patagonia e Le Vie dei Canti (in cui esplicita la sua famosa domanda: “Perché gli uomini, invece di star fermi, se ne vanno da un posto all’altro?”), ma anche la Costa degli Schiavi, quella terra maledetta compresa tra il delta del Niger e quello del Volta, da cui tra il Sedicesimo e il Diciannovesimo secolo partirono verso la schiavitù o la morte in nave almeno tre milioni di esseri umani, sui dodici milioni coinvolti complessivamente nel traffico di schiavi: là Chatwin avrebbe ambientato il Viceré di Oudiah, e Herzog Cobra Verde.
E Bruce Chatwin, l’ironico, misurato scrittore british divenuto, dopo la celebrità, anche presenza frequente ai party del bel mondo londinese, era assai meno misurato come viaggiatore: come racconta il suo biografo Nicholas Shakespeare, se in patria la sua bisessualità era ignota financo ai suoi amici e parenti più prossimi (fatta salva la moglie), quando era in viaggio, Chatwin indulgeva in frequentissime avventure omosessuali, non di rado andando a cercare ragazzi disponibili nei bassifondi delle città più degradate e ritrovandosi anche in situazioni molto pericolose. Non è dato sapere se la storia dello stupro di gruppo subito da Chatwin in Benin – né più né meno il regno di Dahomey di Cobra Verde – sia reale o fosse una delle tante coperture messe in giro dallo stesso scrittore quando si ritrovò gravemente malato (arrivò anche a parlare del morso di un pipistrello cinese, in un curioso slancio profetico), poiché non voleva far sapere ai familiari che l’AIDS che lo aveva colpito (e per le cui complicazioni sarebbe morto nel 1989) derivava con ogni probabilità dal suo prolungatissimo libertinaggio in ogni angolo del globo. Certo è che di questa violenza di gruppo, vera o inventata che sia, si possono trovar tracce evidenti in Cobra Verde, dove la cattura e la sopraffazione del singolo da parte di gruppi più o meno infoiati è una sorta di leitmotiv. Altrettanto certa è la scarsa rilevanza del “dato di realtà”: Chatwin, pur passato alla storia come scrittore di viaggio, e quindi autore di non-fiction, in realtà inventava moltissimo, ma come asserisce proprio in Nomad Werner Herzog, che conobbe lo scrittore in Australia mentre stava girando Dove sognano le formiche verdi, Chatwin non modificava i fatti per alterare la realtà, ma per arrivare alla verità: “cambiando le cose, non diceva metà verità, ma diceva una verità e mezzo,” una definizione che sarebbe facile attribuire anche al cinema documentaristico di Herzog, incluso lo stesso Nomad, in cui l’amicizia e le affinità con Chatwin diventano un attrattore capace di portare lo spettatore nei luoghi più imprevedibili, dalle caverne dei bradipi giganti della Patagonia (partendo da quello stesso, falso, “pezzetto di Brontosauro” da cui prende le mosse In Patagonia), alle songlines aborigene, tracciati dall’origine incerta (naturali o artificiali? O entrambe le cose? O forse non importa saperlo?), che per i nativi australiani sono anche canzoni, dalla Terra del fuoco cilena alla colombiana Valle del Cauca, seguendo anche l’istinto del momento – ed ecco l’altra grande affinità tra Chatwin e Herzog: sono entrambi sommi improvvisatori. Herzog non usa sceneggiature o trattamenti, allo stesso modo in cui Chatwin, una volta stabilita la destinazione generale, viaggiava deliberatamente a caso, prendeva appunti su quel che capitava, e decideva la tappa successiva secondo le suggestioni che prendevano forma sui suoi taccuini.
Improvvisa chi è inquieto. Chi non vuole, o non può, fermarsi a programmare. E la ricerca attorno all’inquietudine è in fondo il midollo delle poetiche dei due artisti, qualcosa che non potevano non riconoscere l’uno nell’altro, specie quando emerse che in alcuni casi i luoghi da loro esplorati erano stati gli stessi, sebbene quasi sempre a distanza di anni. Ma c’è ancora un’ombra che non poteva non avvicinarli: un’ombra inattesa, che emerge nelle ultime immagini di un Chatwin già prossimo alla morte, venuto ad assistere alle riprese di Cobra Verde: col volto scavato dalla malattia, con lo strabismo di Venere più marcato per la fatica, coi capelli biondi che cominciano a farsi più radi, ecco che il “pupo di bell’aspetto” Chatwin finisce per assomigliare inaspettatamente a Klaus Kinski, e farsi, di nuovo, specchio di Herzog. Il quale tuttavia non si scomporrà: quando, due anni dopo, un Chatwin ormai morente, “ridotto a uno scheletro con gli occhi luccicanti” (e uno scheletro che canta è il tatuaggio che Herzog porta sulla spalla destra, fatto solo pochi mesi prima di conoscere Bruce), gli chiede di aiutarlo a morire, lui in tutta risposta gli monta un televisore davanti e gli spara in faccia a oltranza il suo documentario I pastori del sole, quasi a ricreare, nella dialettica tra canti e balli di massa e uomo morente, le scene finali di quel Cobra Verde in cui Chatwin, Kinski e Herzog si erano fatti una cosa sola.
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