MISERIA CAPITALISTICA
Guido Liguori
L’ultima Lettura del Corriere
della Sera apre con tre articoli che prendono spunto dalla nuova
edizione del primo volume del Capitale di Marx curata per Einaudi da Roberto
Fineschi. Oltre a un efficace scritto di Marcello Musto sulle differenze tra le
prime cinque edizioni del libro, e a uno di Giuseppe Sarcina sulle diversità
che connotano le sinistre nel mondo, un articolo di Maurizio Ferrera ricorda i
temi del capolavoro marxiano, ne riconosce l’importanza storica e, soprattutto,
sottolinea gli elementi che lo renderebbero obsoleto.
Non voglio
qui difendere Marx o disquisire su questo o quell’aspetto della sua teoria. È
inutile in questo ambito, anche perché è lo stesso Ferrera a ricordare come
resti vero che il pensatore di Treviri e il suo libro esercitino oggi una
rinnovata influenza, tanto più in quanto gli ultimi decenni di trionfo del
liberismo, scrive lo studioso, «hanno coinciso con una intensa crescita delle
diseguaglianze economiche e della precarietà sociale». Per questo motivo,
prosegue, assistiamo a un revival del pensiero di Marx e dei comunismi: perché
«attingendo alle idee di Marx, è stato possibile avviare un nuovo “discorso”
pubblico», riproponendo visioni alternative di organizzazioni dell’economia e
della società.
Non sono
riconoscimenti da poco – come non lo è il fatto che il principale quotidiano
italiano dedichi a Marx le prime cinque pagine del suo supplemento letterario,
sia pure con giudizi largamente sfavorevoli. Anzi, andrebbe aggiunto che se è
vero che il pungolo critico marxiano continua a essere utile contro il
capitalismo, il punto debole delle teorie politico-sociali che si vogliono
marxiste sta proprio nel non saper proporre una convincente idea di società
socialista che si ponga su un terreno di reale alternativa al capitalismo.
Per Ferrera
però il punto è soprattutto un altro. Ripetendo un noto mantra della critica
liberal, egli scrive che «il grande limite» delle proposte neomarxiste starebbe
nel fatto che esse «tendono a perdere per strada l’eredità
liberal-democratica», a sottovalutare «diritti e democrazia formale», cioè
«l’inevitabile persistenza delle dinamiche di potere e i loro rischi di
sopraffazione».
Non credo
che le cose stiano così. Credo anch’io che sia stata vera e drammatica la
sottovalutazione del tema del potere e della democrazia formale da parte delle
forze impegnate a realizzare una democrazia sostanziale, ovvero il socialismo.
Ma ritengo anche, da una parte, che il tentativo guidato almeno inizialmente da
Lenin abbia deviato dai suoi intenti originari a causa dall’aggressione (assai
poco democratica) subita dagli Stati capitalistici e poi dai fascismi. E,
dall’altra, che molti materiali per una costruttiva autocritica dei socialismi
rivoluzionari siano presenti nella stessa cultura marxista – da Rosa Luxemburg
ai consiliaristi, da Gramsci a Mariategui, a Lukács (solo per citarne alcuni),
e a tante correnti di pensiero post-1956.
L’obiezione
che questi comunisti democratici non sono tuttavia mai stati al potere è
ingiusta. Sia perché non si può comunque negare a essi una sincera volontà di
autocorrezione teorico-politica, sia perché le forze del capitale hanno spesso
impedito loro in tutti i modi (di nuovo: anche in modi molto poco democratici)
di misurarsi col governo.
IL CASO
DELL’ITALIA è eclatante. La nostra tradizione comunista democratica, pur
non senza contraddizioni, ha gradualmente compreso l’importanza della
democrazia politica, muovendo dalla riflessione gramsciana sull’egemonia,
passando per la partecipazione convinta alla scrittura della Costituzione,
culminando nelle posizioni berlingueriane che furono alla base
dell’eurocomunismo e della «terza via» o «terza fase». Ma è stata ostacolata in
tutti i modi, anche non leciti dal punto di vista della stessa teoria
liberaldemocratica, almeno per come viene conclamata.
Credo che
oggi sia vivissima nei socialisti e comunisti di molte tendenze la
consapevolezza della importanza delle libertà liberali (tranne l’assoluta
libertà d’impresa, ovviamente) e della democrazia. Vi sono in Marx stesso buoni
argomenti in questa direzione. Basti pensare al discorso di Amsterdam nel 1872
sulla possibilità di vie democratiche al socialismo: si era – lo si noti –
all’indomani di quella Comune di Parigi di cui egli aveva colto alcuni
insegnamenti rilevanti sul terreno dell’autogoverno, ma che aveva anche tentato
di scongiurare fino all’ultimo e di cui non affermava il valore paradigmatico e
universale per ciò che concerneva l’aspetto insurrezionale armato.
È ugualmente
viva nella cultura e nella politica liberaldemocratiche la consapevolezza di
dover combattere il capitalismo per porre fine alla «intensa crescita delle diseguaglianze
economiche e della precarietà sociale» di cui parla Ferrera? Non credo. E
inoltre: la profonda crisi delle istituzioni parlamentari e lo svuotamento
odierno della democrazia rappresentativa non dovrebbe portare a riflettere sui
lati positivi della democrazia deliberativa? L’intreccio tra democrazia
parlamentare e democrazia di base – auspicato da diversi autori comunisti e
socialisti fra gli anni Sessanta e gli anni Settanta – non potrebbe oggi dare
nuova linfa vitale alle stesse istituzioni rappresentative svuotate e in
declino?
Nelle società avanzate il socialismo o comunismo del futuro sarà democratico o
non sarà. Il pensiero liberaldemocratico o imparerà davvero a separarsi dal
capitalismo e a combatterlo o, ugualmente, non avrà futuro.
PEZZO RIPRESO DA: https://ilmanifesto.it/miseria-capitalistica-e-comunismo-democratico
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