Cancel culture e statue: una matrice religiosa?
di Caterina Panetta
La caduta di una statua racchiude in sé un destino ineluttabile. Quando la vediamo schiantarsi a terra, ne percepiamo il peso e soprattutto, il fragore. Ne restiamo colpiti. Forse siamo eredi inconsci della scena cult nel film Ottobre di Sergej M. Eizenstein, in cui l’enorme scultura raffigurante lo zar Alessandro III viene abbattuta da una moltitudine inferocita. Insieme al monumento, crolla una civiltà, un’epoca e con essa il suo sistema di valori. È sempre stato così. La sorte di un’egemonia è, inevitabilmente, quella di dissolversi e farsi sostituire da un’altra, a meno che essa non si trasformi, o non si adegui ad una narrazione degli eventi passati più in linea con i tempi.
È un processo che avviene attraverso l’abbattimento di simboli precisi, legati alla celebrazione di personaggi carismatici – imperatori, condottieri, rivoluzionari e via dicendo – sotto forma di parabola, in un primo momento ascendente e fulgida, poi rovinosamente diretta verso l’abisso. È stato questo il caso di Napoleone, Mussolini, Hitler, Lenin, Saddam e lo scià di Persia tanto per fare qualche esempio.
Oggi sono le vittime di razzismo, colonialismo, discriminazione sessuale e di genere a rimuovere le statue dai luoghi pubblici. In altre parole, coloro che troppo a lungo si sono sentiti oppressi ed esclusi dalla storia e quindi ignorati da una narrazione che non li rispecchiava; questo fenomeno, nato negli Stati Uniti, è solo uno degli elementi della cosiddetta cancel culture. Se ne parla da circa dieci anni, ma si tratta di una forma di protesta con radici ben più antiche che affondano nel movimento per i diritti civili degli afroamericani. A fare questo collegamento e a spiegarne il significato è la linguista statunitense Anne C. Hudley, specializzata nello studio della lingua ebonics, anche conosciuta come African American Vernacular English: “se non hai la capacità di fermare qualcosa attraverso mezzi politici, quello che puoi fare è rifiutarti di partecipare”. E ancora, in merito all’abilità di cancellare: “un’abilità di sopravvivenza vecchia quanto l’uso del boicottaggio da parte dei neri del Sud”. Questo uso del verbo cancel inteso come “non partecipazione” – come forma di resistenza civile – compare dapprima nel Black Twitter, un punto di ritrovo social per la comunità afroamericana, e in seguito nel movimento Black Lives Matter (BLM), a partire dalla morte di George Floyd nel 2020. Le oltre duemila proteste successive a tale evento portarono, tra le altre cose, all’abbattimento di statue percepite come simboli del suprematismo bianco, come per esempio quella del generale Robert. E. Lee, emblema sudista della guerra civile, e del razzismo di stato come quelle dei i presidenti George Washington, Andrew Jackson, Thomas Jefferson e Ulysses S. Grant, possessori di schiavi o fautori di politiche di conquista verso i territori dei nativi americani.
In sostanza, l’abbattimento di monumenti che rappresentano una certa prospettiva WASP (White, Anglo-Saxon, Protestant) è diventato una forma di attivismo politico, quello della cultura woke (da “stay awake”), ovvero – nel suo significato originario – consapevole della violenza sistemica (di stato) contro gli afroamericani e, per estensione, contro ogni gruppo sociale discriminato.
In Italia, tra gli altri, è Tomaso Montanari ad occuparsi di questa recente forma di iconoclastia nel suo Le statue giuste (2024). La sua riflessione parte dal concetto di piazza; uno spazio pubblico, condiviso e quindi politico. Parlando dei monumenti che vi si trovano, Montanari evoca una “santificazione” di personaggi pubblici, percepiti dalla società come modelli di virtù civili: “guardatelo, prendetelo a esempio, fate come lui”. Secondo lo storico dell’arte, la cancel culture – che lui preferisce definire come un movimento che oggi “polarizza il dibattito intorno ad alcuni segni del passato nello spazio pubblico” – mette in atto, con la rimozione delle statue dai luoghi di ritrovo all’aperto, una forma di “distruzione creativa” che genera dialogo tra il passato, il presente e il futuro. Diversamente che in altre epoche, dice sempre Montanari, il fenomeno odierno avviene all’interno un sistema democratico e non di regime. Non si tratta certo di un fenomeno nuovo. La distruzione delle immagini risale alle origini della storia dell’umanità: “Iconolatria (il culto delle immagini) e iconoclastia (la loro distruzione) sono le due invisibili facce di una stessa medaglia (la medaglia della contesa sul loro significato) almeno fin dai tempi in cui Aronne acconsentì alla realizzazione del vitello d’oro, e subito dopo Mosè lo distrusse, e ne sciolse la polvere in un’acqua che fece poi bere agli israeliti. […]. La distruzione delle immagini è una caratteristica tipica dell’identità culturale occidentale almeno quanto lo è il culto di quelle stesse immagini.”
Il libro si concentra su vicende italiane recenti; i martiri della Repubblica, il colonialismo e il ventennio fascista. Nelle sue conferenze però, il Rettore dell’Università per Stranieri di Siena allarga il discorso citando, per esempio, episodi di iconoclastia religiosa, come quello in cui nel 1972 il geologo ungherese László Tóth – per dirla con L. Zampa “Bello, onesto, emigrato Australia” e soprattutto, convinto di essere Cristo risorto – colpì la Pietà di Michelangelo, all’interno della basilica vaticana, con dodici martellate. Lo studioso passa in rassegna anche monumenti a illustri personaggi del passato rinascimentale, di cui sono piene nostre piazze; spesso mercenari, torturatori, inquisitori, guerrafondai. Montanari auspica una “risemantizzazione” – parola orrenda nel suo ridondante tecnicismo, ma condivisibile nella sostanza – ovvero un dialogo con il passato attraverso il conferimento di un significato aggiornato, complesso, inclusivo di punti di vista discordanti. È accaduto nel Regno Unito, a Brighton, con la statua in bronzo del commerciante di schiavi E. Colston, prima abbattuta e poi collocata in un museo. Dagli anni Novanta, la scultura è stata protagonista di diverse installazioni da parte di artisti contemporanei allo scopo di reinterpretarla. La mattina del 18 ottobre 2018, in occasione della giornata contro la schiavitù, un’installazione non ufficiale, particolarmente interessante, apparve ai piedi del monumento: raffigurava un centinaio di figure supine disposte attorno alla figura di Colston come in una nave negriera. Persino Banksy pubblicò sul suo profilo Instagram, in seguito all’abbattimento della statua, un disegno che illustra la sua personale soluzione: “Ecco un’idea che si rivolge sia a chi sente la mancanza della statua di Colston sia a chi non la sente […] Lo tiriamo fuori dall’acqua, lo rimettiamo sul piedistallo, gli mettiamo un cavo attorno al collo e facciamo fare alcune statue di bronzo a grandezza naturale di manifestanti nell’atto di tirarlo giù. Tutti contenti. Un giorno straordinario commemorato”. Una sorta di damnatio memoriae 2.0. rivisitata secondo i criteri del politicamente corretto e dell’inclusività che però non rinuncia, come rileva Montanari, al dialogo con il passato e alla sua reinterpretazione.
È una soluzione non rinuncia neanche all’aspetto creativo, che in fondo è il più importante in un’opera d’arte. In Italia, è accaduto qualcosa di simile a Milano e a Trieste con le statue a Indro Montanelli e Gabriele D’Annunzio, entrambe imbrattate con secchiate di vernice ed epiteti quali “stupratore” e “razzista”. Seppure in maniera conflittuale, il dialogo con la storia non si interrompe e, soprattutto, rimane vivo.
La damnatio memoriae è un fenomeno antico quanto la storia del mondo: il racconto che viene messo in discussione è ovviamente quello del nemico; esso non viene mai integrato ma piuttosto sostituito con un nuovo resoconto o, più semplicemente, con l’oblio. Nella Roma antica, ai personaggi pubblici che si erano macchiati di reati molti gravi veniva riservata appunto la “condanna della memoria”; le statue raffiguranti gli imperatori caduti in disgrazia venivano abbattute, i loro palazzi distrutti, il loro nome abraso dalle iscrizioni e non più trasmesso ai discendenti. Si trattava di una sentenza sancita direttamente dal Senato, e quindi dallo Stato, alla quale anche le classi inferiori erano invitate a partecipare. Tuttavia, quando una figura pubblica veniva condannata all’oblio, se ne distruggeva sì l’effige ma si lasciava il piedistallo della statua, oppure nelle iscrizioni si lasciava l’abrasione del nome. L’aspetto visibile della cancellazione era parte della punizione stessa. Si trattava di un atto politico, per certi versi pragmatico. Marco Antonio subì la damnatio memoriae perché aveva perso la battaglia di Azio e, nella narrazione di Ottaviano Augusto, era diventato un traditore della res publica. Caligola, Nerone, Domiziano e Commodo subirono la stessa condanna in quanto invisi al Senato. In altre parole, il fenomeno non era che una delle tante facce di quell’antica abitudine, mai abbandonata, di riscrivere la storia dal punto di vista dei vincitori.
La cancel culture invece è qualcosa di diverso. Malgrado siano in molti a pensare che, negli Stati Uniti, il riferimento teorico di questo fenomeno sia il marxismo culturale dei campus universitari, delle classi accademiche e giornalistiche che guardano ad esso come ad un effetto collaterale del progresso e della giustizia sociale, la cosiddetta cultura della cancellazione rivela invece – nonostante le apparenti motivazioni politiche – una matrice religiosa, di stampo protestante. Tale origine fa riferimento alle chiese riformate (principalmente battiste e pentecostali), nelle quali molti attivisti si sono formati. La religione pervade la comunità afroamericana negli Stati Uniti da sempre. Secondo una ricerca del Pew Research Centre, la probabilità di ascoltare sermoni che abbiano come tema i rapporti interraziali o la riforma del sistema penale, e quindi sermoni politici, è maggiore in una chiesa frequentata da una comunità a maggioranza afroamericana rispetto a qualunque altra. Nell’attivismo nero, l’ideologia protestante è presente nel forte interesse per le questioni sociali, nell’impegno politico, nell’ accento posto sulla comunità locale, nell’idea di lotta politica non violenta a sfondo razziale, di cui Martin Luther King (di fede battista) e Nelson Mandela (metodista) furono i padri, nelle regole di comportamento non dogmatizzate, ma anche nella morigeratezza puritana, nei rigidi giudizi morali, nella divisione manichea di Bene e Male, Buono e Cattivo, Bianco e Nero.
Facciamo un passo indietro. Tra Sette e Ottocento, negli stati del Sud, le chiese battiste praticavano la disciplina ecclesiastica (church discipline), ovvero la pratica di istituire dei processi una volta al mese, il sabato, contro coloro che avevano commesso dei peccati specifici. Se giudicati colpevoli, gli imputati ricevevano un’ammonizione oppure la scomunica, ovvero venivano ostracizzati dalla comunità. Il consumo di alcol, il ballo sociale e convinzioni giudicate errate venivano considerati crimini. Ciò che accomuna tale pratica alla cancel culture è una certa etica della purezza che si propone di estirpare comportamenti considerati nocivi per la comunità e per lo Stato.
È possibile rintracciare un’ispirazione religiosa anche all’interno dell’attivismo di BLM. Nelle interviste, i leader del movimento attribuiscono alla matrice spirituale un ruolo molto importante: Patrisse Cullors, co-fondatrice di BLM, lo spiega in questo modo: “The fight to save your life is a spiritual fight” (trad. mia: la lotta per salvare la tua vita è una lotta spirituale). Tricia Hersey, altra co-fondatrice del movimento, attribuisce all’educazione ricevuta in seno alla Black Pentecostal Church of God in Christ la sua visione del corpo umano come un “veicolo dello Spirito”. Nel 2016, Hersey ha addirittura fondato un nuovo movimento pastorale vocato al diritto di vivere con lentezza: The Nap Ministry. Tuttavia, è intorno al concetto di “transformative justice” (giustizia trasformativa), un approccio filosofico alla pacificazione, che si salda il legame con il mondo evangelico, in particolare con la tradizione quacchera e il suo rifiuto delle gerarchie, della guerra, degli alcolici e la sua contrarietà alla schiavitù. La cosiddetta giustizia trasformativa è un approccio che si basa sul “fare la cosa giusta”, il coltivare all’interno della società concetti che prevengano la violenza quali la guarigione (dai torti subiti), la responsabilità, resilienza e sicurezza per tutti. Riecheggiando i processi di disciplina ecclesiastica dei secoli passati, il crimine diventa un problema della comunità, da risolvere attraverso la mutua comprensione. Cara Page, affiliata a BLM, ad avere coniato il termine “healing justice”(giusizia terapeutica).
Tornando all’iconoclastia, essa fa storicamente parte del fervore religioso protestante, più precisamente calvinista (l’approccio battista ne è una derivazione). Nel XVI secolo, in Olanda, Francia e Germania diversi riformatori calvinisti, appellandosi al Pentateuco e ai Dieci Comandamenti, fomentarono la distruzione delle reliquie e la rimozione di immagini raffiguranti la Madonna, i santi, i miracoli nelle chiese. In Fantasmagorie (2023), la storica dell’arte Tania de Nile descrive l’atmosfera dell’epoca: “Tra il 1560 e il 1630 si assiste infatti nell’Europa centro-occidentale ad una cruenta ondata di persecuzioni cui corrisponde un sensibile aumento di processi contro le streghe. […] le divisioni causate dalla Riforma protestante, i dissidi politici e sociali seguiti al progressivo accentramento dei poteri, l’affermazione degli stati nazionali e l’aumento delle diseguaglianze tra città e contado determinano un clima di incertezza e paura nel quale urge scovare dei colpevoli”. Un clima cupo, quasi apocalittico, che richiama gli scenari fantastici, da caccia alle streghe appunto, dei quadri di Hieronymus Bosch, in cui la corruzione e il vizio hanno sempre un aspetto mostruoso, o anche Pieter Brughel il Vecchio e i suoi proverbi dipinti che raffiguravano le debolezze della natura umana.
Oggi nel mondo sono le tracce del passato schiavista a incarnare il male assoluto. Ça va sans dire, alla base del bisogno di abbattere i simboli di razzismo e, per estensione, discriminazione di genere c’è un profondo senso di ingiustizia sociale, rafforzato dal fatto che per troppo tempo le discriminazioni non sono state percepite come crimini. Ancora oggi, in molti paesi occidentali inclusa l’Italia, le pene collegate a tali reati non vengono percepite come adeguate alla loro gravità (e spesso non lo sono). Accade allora che, con la rimozione di statue che rappresentano personaggi controversi, si cerchi di porre rimedio ad uno squilibrio etico nella società. Uno squilibro che non è tra classi sociali ma piuttosto tra gruppi etnici di appartenenza.
Ad essere in crisi oggi è il concetto di uomo occidentale, ovvero quell’idea secondo la quale la cultura cristiana e illuminista, europea e americana, ma soprattutto bianca e al maschile, sia una cultura superiore alle altre. Quindi, alla luce di una nuova sensibilità attivista, legata al genere e all’etnia, Cristoforo Colombo non è più un grande esploratore ma un razzista, emblema della supremazia bianca (CNN), come anche Winston Churchill (New York Times); James Cook era un assassino per l’imperialismo britannico (CBC), e la regina Vittoria la regista del genocidio (CNN). Picasso era un misogino (The Guardian), Voltaire un antisemita colonialista e razzista (Foreign Policy).
Ad un sacrosanto revisionismo storiografico sono poi seguiti atteggiamenti giacobini che hanno portato a considerare, per esempio, Via col Vento come un film che sarebbe meglio non vedere, o almeno non prima di avere prestato la dovuta attenzione all’introduzione della rete televisiva HBO, che ci spiega che cosa dovremmo pensarne. In Olanda, all’Università di Leida, un quadro che rappresenta dei signori di mezza età, seduti ad un tavolo a fumare un sigaro è stato temporaneamente rimosso dalla sala professori (e successivamente riappeso al contrario) perché ritenuto offensivo. L’autore del dipinto, l’artista novantenne Rein Dool, ha definito tale rimozione “una triste sciocchezza” e in effetti lo è, se non fosse per il fatto che sono proprio quegli uomini bianchi, rappresentati nel quadro intorno allo Stammtisch (tavolo da osteria per clienti abituali maschi) ad essere sotto processo in virtù dei valori che – nel bene e nel male – essi rappresentano o potrebbero rappresentare: una certa idea di sé, intrisa di influenze calviniste e capitaliste, ma soprattutto di classismo, razzismo e sessismo.
Il problema razziale affonda, in parte, le sue radici nell’ambiente religioso protestante cinque e seicentesco. La stessa etica della purezza dei processi sette e ottocenteschi nelle chiese battiste è presente anche nel suprematismo bianco – con accezioni chiaramente diverse – anch’esso di ispirazione squisitamente calvinista. Tornando agli Stati Uniti, secondo Kelly J. Baker, studiosa di religione e odio razziale, esiste una correlazione tra cristianesimo protestante e supremazia bianca che risale alla fondazione: “I primi coloni arrivati nel Nord America, come i puritani, ritenevano di essere “la città posta sopra il monte” (un evidente riferimento al detto di Gesù contenuto nel Vangelo di Matteo 5,14) e che questa fosse la loro terra, sulla quale avevano il diritto di dominare. Il Klan (Ku Klux Klan, anche noto come KKK, nda) non ebbe ovviamente origine con i puritani, ma trasse da quel mito fondatore – così come una varietà di altri movimenti in periodi diversi della storia americana – la propria retorica e lo spunto per le proprie pratiche.” E ancora, a proposito dell’atteggiamento dei cristiani non membri del KKK: “C’era chi si opponeva, ma senza mettere in discussione l’argomento della supremazia bianca. Eppure le posizioni del Klan su questo punto erano inequivocabili: i membri del Klan prendevano tonaca e cappuccio per dire che l’America aveva bisogno di essere salvata, dagli immigrati e dalle persone di colore”.
Nel suo celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo (1905), il padre della sociologia Max Weber rintraccia le origini di tale pensiero: Lutero aveva parlato della predestinazione, ovvero di come Dio avesse già deciso chi sarebbe stato meritevole di raggiungere la salvezza, secondo un suo disegno imperscrutabile, a patto che il prescelto avesse fede. Pertanto, le opere meritorie erano del tutto inefficaci e inutili allo scopo. Per Giovanni Calvino, è la ricchezza, in senso materiale, a rendere tangibile la grazia divina. La prosperità, intesa come benessere generato dal lavoro, diventa una vocazione religiosa. La parola tedesca Beruf (professione, mestiere) racchiude in sé il lemma ruf (chiamata). Colui che lavora è quindi colui che è stato chiamato da Dio a svolgere un compito. È un predestinato. Dio è con lui è ciò spiega il successo in ambito professionale. Di conseguenza, i poveri sono gli esclusi dalla grazia divina, a causa dei peccati commessi.
I poveri sono diventati gli oppressi, ovvero le popolazioni sottomesse dal colonialismo che oggi rivendicano un posto più giusto nella storia. Più che altrove è in Sudafrica, un paese che come gli Stati Uniti ha vissuto la segregazione razziale (apartheid), che tale forma mentis riesce a espletarsi senza nessun tipo di filtro. A Pretoria, esiste il monumento ai Voortrekker, i contadini afrikans un tempo conosciuti come boeri. L’opera celebra l’esodo di questa popolazione dai territori del Capo verso l’interno del continente, avvenuto nel 1834 e conosciuto con il nome di Great Trek. È una specie di strano mausoleo all’interno del quale si trova un lunghissimo fregio in candido marmo di Carrara raffigurante i suddetti contadini che avanzano su carri che sembrano usciti da La Casa nella Prateria e, più avanti, scene di battaglia in stile sarcofago romano in cui i guerrieri Zulu incontrati sulla via vengono massacrati dai coloni e dagli zoccoli dei loro cavalli. Il biancore del marmo lucido accentua la durezza delle scene rappresentate. È una narrazione che lascia atterriti, piuttosto disinvolta nell’esaltazione dell’Uomo Bianco, che diventa il Predestinato. In Storia di una fattoria africana (1883), Olive Schreiner illustrò questo modo di pensare in maniera puntuale. Nel romanzo viene narrata la vita in una tenuta di afrikaner nell’entroterra. Si tratta di un racconto epico, che ruota intorno all’emancipazione femminile ai suoi albori e alla religiosità dei protagonisti, in cui i personaggi dalla pelle scura appaiono come comparse sullo sfondo, muti testimoni della vita dei loro padroni. Infatti, in una scena in cui la famiglia si riunisce intorno alla matriarca Tant’Sannie, seduta su una sedia e con il libro dei canti in mano per la messa della domenica, gli schiavi della fattoria vengono descritti nel modo seguente: “The Kaffer servants were not there because Tant Sannie held they were descended from apes, and needed no salvation.” (trad.mia: “i servi kafir (arabo per miscredenti, ovvero i neri) non c’erano in quanto Tant’ Sannie riteneva che discendessero dalle scimmie e non avessero bisogno della salvezza”). Parole certamente offensive, xenofobe, che oggi nessun editore pubblicherebbe che però rievocano l’idea antica secondo cui le popolazioni africane sono maledette da Dio in quanto discendono da Cam, il figlio dannato di Noè. Un’idea fatta propria, ancora nel 1843, dal reverendo J. Priest per confutare l’abolizione dello schiavismo negli Stati Uniti nel suo volume Slavery, as it Relates to the Negro, or African Race, Examined in the Light of Circumstances, History and the Holy Scriptures ; With an Account of the Origin ofthe Black Man’s Color […] in cui il reverendo di Albany arriva addirittura ad affermare che Cam fosse nato di colore: “God, who made all things, and endowed all animated nature with the strange and unexplained power of propagation, superintended the formation of two of the sons of Noah, in the womb of their mother, in an extraordinary and supernatural manner, giving these two children such forms of bodies, constitutions of natures, and complexions of skin, as suited his will. Those two sons were Japheth and Ham. Japheth He caused to be born white […], while He caused Ham to be born black […], events and products wholly contrary to nature, in the particular of animal generation, as relates to the human race.” (trad. mia: Dio, che ha creato tutte le cose e dotato la natura di uno strano e inspiegabile potere di propagazione, ha sovrainteso alla formazione di due dei figli di Noè, in modo straordinario e soprannaturale, nel grembo della loro madre, donando a questi due figli forme di corpi, costituzioni e carnagioni secondo la sua volontà. Questi due figli erano Jafet e Cam. Egli fece nascere Jafet bianco […], mentre Cam lo fece nascere nero […], eventi e prodotti del tutto contrari alla natura, in particolare per quanto riguarda la generazione animale e la razza umana.”.
Il fregio marmoreo e il romanzo di Schreiner forniscono una visione che incarna la narrazione storica degli afrikaner, inaccettabile nella gran parte dell’Occidente. Se il fregio si fosse trovato negli Stati Uniti, è plausibile pensare che sarebbe stato rimosso dalla sua sede dagli attivisti di BLM, o magari dalla giunta comunale stessa. Eppure, è proprio il fregio ai Voortrekker a rivelare, emotivamente, la tragedia del popolo Zulu, la loro sofferenza nonché il razzismo e il conflitto devastante del tessuto sociale sudafricano. Paradossalmente, è proprio quell’opera scolpita nel marmo a rendere eterno il supplizio di quegli impavidi guerrieri neri e a preservarne la memoria.
Nei secoli, gli uomini hanno abbattuto le statue e i simboli in cui non credevano più nel momento in cui hanno percepito un’aria di cambiamento. È proprio questo che esprime il fenomeno della cancel culture, mediante le tensioni tra memoria storica, giustizia sociale e libertà di espressione. Tensioni che originano dal fatto che esistono dei particolari periodi storici con cui la società non ha ancora fatto i conti. In Italia, questo accade soprattutto con il ventennio fascista. Ciò ha portato, per esempio, al fatto che un artista come Adolfo Widlt, scultore di enorme talento, sia stato ignorato per decenni e omesso dai manuali di storia dell’arte a causa della sua vicinanza al regime mussoliniano. È innegabile che il concetto di politicamente corretto, che pure ha avuto il merito di accrescere la sensibilità e il rispetto verso innumerevoli tematiche, raggiunge talvolta degli eccessi come quando, per un comportamento scorretto nel privato, una frase infelice, un insulto, è possibile perdere il lavoro, la carriera e, negli Stati Uniti, la preziosissima assicurazione sanitaria. O un contratto importante, come nel caso italiano di Marco Castoldi, in arte Morgan, per un’accusa di stalking. O ancora, un corso di letteratura russa all’Università Bicocca di Milano per via del conflitto in Ucraina. Ci sono casi in cui l’atteggiamento del politicamente corretto sfiora il ridicolo, come quando nascono progetti per riscrivere i libretti d’opera al fine di renderli più inclusivi, come il Critical Classics. Opera without victims. Oppure quando il curatore di un museo decide di coprire sculture di Nudo (Musei Capitolini, 2016) o un quadro preraffaelita che a quanto pare incoraggia l’oggettivizzazione della donna (Manchester Art Gallery, 2018).
Nonostante gli attivisti del nostro tempo definiscano come non violenta la loro lotta politica, rimane il fatto che la rimozione di una statua è un atto violento. Come anche l’ostracismo verso una persona, chiunque essa sia, che se ha commesso un reato è giusto che venga giudicata, ed eventualmente condannata, da un tribunale e non dalla società tutta, in secula seculorum. La parola chiave è inclusività, l’intento è quello di rimuovere il male e l’ingiustizia dal mondo. O dalla vista, poiché tutti sanno che questo è impossibile. Ciò che avviene realmente è che si esclude l’altro, ovvero chi non la pensa allo stesso modo.
“La strada per l’inferno è lastricata di buone intenzioni”, diceva qualcuno. Del resto, le rivoluzioni di epoca moderna hanno tutte attraversato il loro momento estremista. Ancora una volta, soffiano i venti del cambiamento. La cancel culture rappresenta semplicemente una fase di questo cambiamento, che terminerà una volta che l’elaborazione del passato sarà completata.
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