Uscire dal torpore
È difficile sentire l’aria di festa, l’atmosfera del Natale, quella in cui mi sentivo immersa quando ero bambina e scoprivo il tempo dell’attesa. Allora, invece, si era da poco usciti da una guerra tremenda che speravamo di non vedere mai più, anzi noi piccoli ne eravamo sicuri, i nostri genitori ce lo garantivano. Ma nell’aria si percepiva che c’era stata un’altra vita dove la violenza, la paura, le separazioni, le distruzioni erano la realtà quotidiana.
Non so se Dio esiste, accetto il mistero, ma credo nella “ri-nascita” non in un altro mondo, ma qui e ora. Qualcosa può sempre essere fatto e questo qualcosa è affidato a tutti noi che possiamo ogni giorno ri-nascere combattendo il male dentro e fuori di noi, non rinunciando a farlo nemmeno quando tutto sembra perduto.
L’inferno dei viventi, dice Calvino, ne Le Città invisibili non è qualcosa che sarà; se ce ne è uno, è quello che è già qui, l’inferno che abitiamo tutti i giorni, che formiamo stando insieme. Due modi ci sono per non soffrirne. Il primo riesce facile a molti: accettare l’inferno e diventarne parte fino al punto di non vederlo più. Il secondo esige attenzione e apprendimento continui: cercare e sapere riconoscere chi e cosa, in mezzo all’inferno, non è inferno, e farlo durare, dargli spazio e voce. Essere anche noi parte del non-inferno, dargli forma e voce.
Questo è il nostro compito: ritrovare la speranza. Ecco perché bisogna uscire dal torpore, dalla disillusione, dall’indifferenza.
La speranza non è certezza, ma è un tendere, un andare verso. Non disegna paradisi o una vita ideale, astratta, impossibile da realizzare. Conosce la concretezza, il limite, la possibilità dell’insuccesso, ma è tenace, non molla.
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