Puccini, le donne. “Turandot”: un cambiamento consapevole
di Claudia
Calabrese
Pubblicato
il 1 settembre 2024 da DIALOGHI MEDITERRANEI
Tutte le
eroine pucciniane alla fine muoiono, in un crescendo emotivo che cede grandezza
creativa. Tutte, eccetto Turandot…
Una storia
si legge, interpreta e medita definendo l’inizio, il momento centrale e la fine
che talvolta riassume, come in un rapido montaggio, il cammino percorso. Turandot,
compimento dell’itinerario umano e artistico di Puccini, riprende, sviluppa e
trasforma gli echi delle vicende delle eroine che l’hanno preceduta, specchio
fedele dell’indole del compositore, ambivalente e per molti aspetti
femminea. Questo ci sembra il senso, se mai ve n’è uno, della scelta delle
storie da musicare [1]:
ogni donna dà forma alla successiva, con le sue contraddizioni da sublimare,
attraverso varie fasi, fino a Liù e Turandot; ognuna attiva una proiezione e ci
offre lo spunto per un accostamento Puccini-alchimia-Jung ardito e molto
suggestivo [2] e
a Puccini, in quest’ottica, la possibilità di un percorso di maturazione
psicologica, oltreché artistica.
Già in una
lettera dell’agosto del 1898, mentre componeva Tosca, alcune
immagini evocavano il linguaggio alchemico e «l’eroina Romana» dava
simbolicamente forma alla materia da redimere attraverso un processo di
trasformazione-coloritura [3].
Queste
farfalle
possono
servire
a darti
l’idea
della
volatilità
delle
umane miserie
Come
cadaveri ti
rammentino
che tutti
dobbiamo
soccombere
alla sera
quando
il mio
cervello si
distilla
nel silenzio
per
colorire l’eroina Romana […] [4] .
Certi
“cammini” cominciano sempre «alla sera» quando l’oscurità crea un’associazione
simbolica con lo smarrimento interiore. Ogni individuazione implica la
necessità di una morte, all’inizio di una nuova vita nella regione dell’anima
che giace in uno stato di oscura incoscienza («il mio cervello si distilla
[…]»). Le farfalle, evanescenti e corporee, sembrano simbolo dei contrari, come
spirito che empie la materia o proiezione di contenuti psichici nell’Altro da
sé. Quattro anni dopo Puccini incontrerà Madama Butterfly, nel cui
nome forse, si annidano segrete, le immagini di una lettera d’agosto.
Gelo che
ti dà foco! E dal tuo foco più gelo si prende! Candida ed oscura! [7].
Alle
metafore del gelo e del fuoco si annoda l’anima pucciniana, le loro forze
distruttive minacciano la creazione e, sebbene questa volta l’amore aspiri al
trionfo, Puccini non riesce a mettere ordine negli appunti del finale.
Nonostante l’opera sia incompiuta, Turandot e Liù occupano un posto di assoluto
rilievo nel processo di maturazione creativo e personale di Puccini, oramai in
prossimità della morte.
Significativa
è la scelta della dimensione fiabesca, utile non solo al recupero del tema
della lotta fra i sessi, come suggerisce Mosco Carner [8],
ma anche alla comparazione fra la personale, dolorosa, dimensione mitica
(binomio amore-morte) e un altro mito con cui si vorrebbe sostituire (binomio
amore-vita, nel rapporto finale tra Calaf e Turandot). L’identificazione può
essere favorita da armonie “primitive”, scale pentatoniche, melodie-parlate,
ardue, gridate, ostinati ritmici e particolari timbri che ricreano l’atmosfera
orientale e generano un effetto quasi ipnotico, uno stato di trance che
agevola la proiezione delle voci interiori dell’autore nell’opera. Si pensi
alla scena degli enigmi nella quale Puccini intona sulla stessa musica i
quesiti di Turandot e le risposte di Calaf generando una monotonia musicale che
ha un effetto ipnotico tanto per i protagonisti del dramma, quanto per noi ascoltatori.
L’atmosfera rituale introdotta nella scena potrebbe servire al recupero
dell’equilibrio e del «risorgere di una nuova coscienza reintegratrice. […] Le
musiche rituali controllano, inoltre, la crisi mediante l’ostinazione e
facilitano lo sviluppo di una coscienza unitaria che integra il
conflitto» [9]..
Nel caso in questione, la negazione dell’amore da parte di Turandot induce la
principessa a decretare la morte di colui che potrebbe accoglierla, dandole
nuova vita.
Un’analisi
approfondita degli atteggiamenti di Turandot, così assolutistici e
predeterminati, rivela in realtà un profondo bisogno d’amore e la necessità di
un cambiamento che tuttavia la donna non ammette. Infatti, secondo la sua
narrazione – l’alibi della violenza subita da un’antenata – non è lei incapace
d’amare ma sono gli uomini colpevoli del suo destino privo d’amore. Si potrebbe
sostenere che la coscienza di sé di Turandot, significativamente accresciuta
rispetto a quella delle ‘donne pucciniane’ che l’hanno preceduta, si limiti
alla dimensione dell’apparire e non includa quella dell’essere. Considerazione,
questa, che ricorda Puccini, tormentato dai dubbi sui lati più nascosti della
sua personalità, sull’essere troppo o troppo poco sensibile, amante della
solitudine o della compagnia, ecc., e che attribuiva agli altri un “difetto”
proprio quando lamentava di non essere amato, né compreso [10].
Anche Turandot è cosciente del modo in cui appare e dell’effetto che suscita
sugli altri, ma non riconosce le reali ragioni per cui rifiuta l’amore e la sua
stessa umanità. Da un punto di vista psicologico, la determinazione con cui
annulla ogni sentimento svela la paura di non sapere gestire ciò che le è
ignoto e rivela la volontà di rinunciare a ciò di cui, forse, non riuscirebbe
più a privarsi. Sembra proprio che Turandot si sia troppo calata nel ruolo
della divinità per scoprirsi umana. La sua crudeltà, tuttavia, dimostra il
desiderio di riappropriarsi di un’umanità rinnegata. Perciò, mentre nel
conflitto con Calaf difende le proprie certezze, duella con sé stessa:
Tormentata e divisa tra due errori uguali: vincerti o esser vinta [11].
E la musica?
La musica, lungo tutto il dramma, è la strada che i personaggi percorrono,
camminandosi incontro. Non è un caso che le arie In questa reggia e Tu
che di gel sei cinta siano accomunate da un’evidente similarità
melodica. Forse Puccini si serve, più o meno consapevolmente, della musica per
suggerire l’idea che le due donne rappresentano due aspetti di una stessa
femminilità. Non ci sembra improbabile che le melodie evochino quell’unione
Turandot-Liù che si realizza dopo la morte di Liù. È un tentativo di conciliare
gli opposti attraverso la musica, mentre le parole sottolineano la
complementarietà [15]:
non a caso Puccini stesso scrive i versi di Liù che ci sembrano la risposta
dell’altra anima di Turandot e unisce intimamente le due donne. Prima nasce la
musica, dunque, dopo le parole. La musica è il filo di seta che si tesse tra
Turandot e Liù e tra loro e l’autore. Così, quando sentiamo Tu che di
gel sei cinta la nostra memoria richiama le sensazioni che abbiamo
provato al suo primo risuonare nell’aria di Turandot (In questa reggia) e
in noi l’emozione presente si confonde con quella passata. Anche nel nostro
pensiero avviene un’integrazione.
Allo stesso
modo i due motivi associati a Turandot sono il tramite espressivo attraverso
cui Puccini suggerisce il solitario e ambiguo ritratto della principessa. Il
primo è il tema d’apertura che sentiamo spesso nel I Atto, compare due volte
nel secondo e non si presenta più dopo la soluzione del terzo enigma [16].
L’altro motivo, la melodia cinese detta Mo-li-hua (Fiore di gelsomino)
simboleggia l’innocenza e l’umanità di Turandot e, non a caso, la prima volta
viene eseguita da un coro di voci bianche. L’opposizione fra i due motivi è
descritta mirabilmente da Girardi che sottolinea come il gioco tematico sia
volto a evocare la conflittualità di Turandot di cui Calaf si accorge perché
quando è lui a intonare il nome della principessa riecheggia la melodia cinese,
mentre quando è il principe di Persia a invocare Turandot riecheggia il primo
tema [17],
quello che Powers chiama “motivo dell’esecuzione”.
Il bacio
finale apparentemente sembra sortire l’effetto di un incantesimo. È pur vero
che già da prima Turandot aveva espresso le sue esitazioni; più ammoniva Calaf
più pareva invitarlo a liberarla dal suo destino. Psicologicamente si può
ipotizzare che il desiderio si traducesse in rifiuto e che la minaccia
sottendesse l’invito a sciogliere l’enigma e dunque a demolire una struttura
costruita, nel tempo, su una serie di meccanismi di difesa dell’Io. Si
comprende, da questo punto di vista, il valore risolutore del bacio che
rappresenta il primo contatto con la corporeità, sino a quel momento negata,
nonché la prima occasione di valorizzazione della femminilità da parte di
Turandot. Ergendosi a divinità, la donna si era rifugiata nella condizione di
essere asessuato, eppure, incontrollabilmente seduttivo nei confronti delle sue
vittime. L’accettazione finale dell’amore da parte di Turandot, ci sembra
mostri un’avvenuta maturazione e l’acquisizione dell’autonomia psichica
necessaria a considerare il rapporto amoroso non più come pericolo, ma come
occasione di crescita e parità. Quest’ultima opera segna, dunque, una netta
demarcazione rispetto alle precedenti per l’insolita concezione di amore che
emana. Questo il mondo delle idee che aveva ossessionato Puccini e le immagini
di questo mondo sono state le donne, creature ambivalenti, contraddittorie come
lui. Perciò dovevano morire e bisognava sempre cercare di salvarle, perché con
loro avrebbe salvato sé stesso.
Dialoghi
Mediterranei, n.
69, settembre 2024
Note
[1] «La
musica? Cosa inutile. Non avendo libretto come faccio della musica? Ho bisogno
dei miei burattini che si muovono sulla scena». Così scrive Puccini a Adami nel
marzo del 1920, in Michele Girardi, G. Puccini. L’arte
internazionale di un musicista italiano, Marsilio, Venezia 1995: 443. Dalle
lettere ai librettisti affiorano euforia e disperazione, le riflessioni sulle
trame sono interminabili ma se l’impresa riesce Puccini è felice perché quei
burattini, disegnati da altri, sono tutto ciò di cui ha bisogno. Forse proprio
perché in qualche modo si ‘riconosce’ nelle loro vicende, può comporre la
musica. «Una ‘proiezione’, a rigore, non viene mai fatta: ‘avviene’. In essa ci
s’imbatte. Nell’oscurità di un fatto esteriore scopro, senza riconoscerla come
tale, la mia vita interiore, o psichica». C. G. Jung, Psicologia e
alchimia, Bollati Boringhieri, Torino 2006: 242.
[2] C.
Calabrese Puccini, le sue contraddizioni psicologiche nelle opere e nei
personaggi, in Dialoghi Mediterranei Periodico bimestrale
dell’Istituto Euroarabo di Mazara del Vallo (Trapani), luglio 2023 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-contraddizioni-psicologiche-nelle-opere-e-nei-personaggi/;
id., Puccini, le sue creature: “Manon Lescaut”, il conflitto
interiorizzato, in Dialoghi Mediterranei, cit., settembre 2023 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-creature-manon-lescaut-il-conflitto-interiorizzato/ e
Id., Puccini, le sue creature: Tosca, verso un’elaborazione più
matura del conflitto, in Dialoghi mediterranei, cit., gennaio 2024 https://www.istitutoeuroarabo.it/DM/puccini-le-sue-creature-tosca-verso-unelaborazione-piu-matura-del-conflitto/
[3] L’ipotesi
è che l’arte sia stata per Puccini uno strumento di elaborazione esterna a sé
di contenuti psichici caotici e non integrati da elaborare man mano e
reintegrare in una personalità più equilibrata. «La metafora è un riferimento
teorico e uno strumento clinico per addentrarsi nelle ‘oscurità’ della psiche
(nigredo), verso la chiarezza della coscienza riflessiva (albedo), fino
all’integrazione consapevole dei vissuti di rigenerazione psicofisica, che
provengono dal Sé e dallo “spirito di vita” che ci abita (rubedo)». Cfr. https://martatibaldi.com/2020/09/21/jung-e-la-metafora-viva-dell-alchimia/ Cfr. Jung
e la metafora viva dell’alchimia, Simona Massa Ope, Arrigo Rossi e Marta
Tibaldi (a cura di), Moretti & Vitali, Bergamo 2020; C.G. Jung, Psicologia
e alchimia, cit.; Id., Tesori dell’inconscio, Ruth Amman,
Verena Kast, Ingrid Riedel (a cura di), trad. it. Maria Anna Massimello,
Bollati Boringhieri, Torino 2019.
[4] Lettera
di Puccini a Alfredo Caselli (agosto 1898), in Quaderni pucciniani,
a cura dell’Istituto di studi pucciniani, Milano 1998: 298.
[5] Così
G. Puccini a Gilda dalla Rizza (agosto 1924), in Carteggi pucciniani a
cura di E. Gara, Ricordi, Milano 1958: 552.
[6] Lettera
di Puccini a Renato Simoni (settembre 1921), in E. Gara (a cura di), Carteggi
pucciniani, cit., p. 514.
[7] G.
Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto II.
[8] M.
Carner, Una biografia critica, Il Saggiatore, Milano 1961:
624.
[9] Cfr.
D. Carpitella, Conversazioni sulla musica (1955-1990), Società
italiana di Etnomusicologia (a cura di), Ponte alle Grazie editori, Firenze
1992: 166-204.
[10] M.
Carner, Una biografia critica, cit.: 241.
[11] G.
Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto III.
[12] G.
Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto II.
[13] Cfr.
C. Sartori, Puccini, Nuova Accademia, Milano 1958: 41.
[14] G.
Adami, R. Simoni, Turandot, libretto, Atto III.
[15] Nella
prima aria, In questa reggia, Turandot afferma il suo razionale
rifiuto dell’uomo, e quindi di Calaf sebbene gli archi proiettandosi verso
l’acuto generino uno slancio enfatico che comunica la sensualità della
protagonista; nella seconda, Tu che di gel sei cinta, Liù
presagisce a Turandot un futuro d’amore, nell’unione con Calaf. Cfr. M.
Girardi, G. Puccini. L’arte…, cit.: 473.
[16] H.
Powers, Le quattro tinte di Turandot, in V. Bernardoni (a cura
di), Puccini, Il Mulino, Bologna 1996: 246.
[17] M.
Girardi, «Turandot»: il futuro ininterrotto del melodramma italiano,
in «Rivista italiana di musicologia», XXVII/Q, 1982: 155-181.
[18] M.
Girardi, G. Puccini. L’arte…, cit.: 472.
[19] G.
Puccini, Turandot, partitura ed. Ricordi, Atto I, 2, p. 6 e Atto
II, 7, 8, 9, 10 dopo 56: 278.
[20] «Nelle
indimenticabili serate nelle quali il Maestro amico mi raccontava la sua vita,
mi diceva che in quell’epoca, quando gli avveniva di vedersi allo specchio,
chiedeva con gioconda voce a quel giovinottone gagliardo che lo guardava: –
Di’, Giacomo, sei veramente tu? Siamo veramente noi?». A. Fraccaroli, La
vita di Giacomo Puccini, Ricordi, Milano 1925: 49.
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