Surrealismo, istruzioni per l’uso
di Giovanni di Benedetto
- Lâchez
tout! Come sono diventato un surrealista
Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi
avrebbe portato, l’indomani, a Parigi[1]. Sulla banchina, lo sguardo di Gilda mi
rivelava, infine, cosa volesse dire André Breton nelle pagine finali di Nadja quando
definiva la bellezza come un treno in partenza dalla Gare de Lyon che non parte
mai ma che pure è sempre sul punto di partire. Un movimento convulsivo:
un’aritmia che trasforma il cuore in un sismografo. A mano a mano che il viso
di Gilda sfilava via dal finestrino – e, questo non lo sapevo ancora, dalla mia
vita – un altro si sostituiva al suo: il mio. Chi sono? mi
chiedevo, facendo eco alla stessa frase con la quale si apre Nadja.
Sono un surrealista. Questa è l’unica risposta che volevo dichiarare alla
frontiera e far inscrivere sul mio passaporto. Presi dal taschino interiore
della giacca il mio quaderno. Lo sfogliai: sulla prima pagina, come epigrafe,
avevo ricopiato la poesia di Breton con la quale aveva rotto col
Dadaismo, Lasciate tutto[2] e, di seguito, il Primo
Manifesto Infrarealista di Roberto Bolaño, intitolato, non a
caso, Lasciate tutto, di nuovo[3]. Ritrovai poi la pagina dove il professor
Merlino aveva annotato l’indirizzo e il numero di telefono di Gabriel Saad[4]. Composi il numero e gli inviai un
messaggio per chiedergli un appuntamento. Una settimana dopo, sarei stato
cordialmente invitato a far parte del Centre de Recherche sur le Surréalisme[5].
Quando quest’estate ho letto in un trafiletto dell’Humanité che
il Centre Pompidou avrebbe organizzato una mostra sul Surrealismo in occasione
dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste du Surréalisme, ho
iniziato a pensare a quante volte mi è capitato di pronunciare la parola
SURREALISMO in questi undici anni. E poi, come seduto in un treno della Gare de
Lyon, ho visto sfilare i volti e i paesaggi che non solo hanno definito i
contorni ma hanno tenuto insieme i pezzi di questi undici anni. Mentre scrivo
quest’articolo, mi rendo conto dell’impossibilità di farne a meno. In Nadja, Breton
dichiarava la necessità di scrivere dei libri aperti come delle porte
spalancate, e così facendo, l’esigenza di reclamare i nomi[6]. «Chi sono, io? Se per una volta mi
rifacessi a un proverbio: in fondo potrei forse domandarmi semplicemente qui
je hante: chi frequento, chi infesto»[7]. Quando ripenso a come sono
diventato un surrealista, il cuore inizia a battere come un sismografo: i volti
amati diventano la dimostrazione della teoria della deriva dei continenti, e
mentre si allontanano, altri, sconosciuti, sorgono dalla faglia terrestre come
una foresta in movimento.
- Surréalisme. La
mostra del centenario al Centre Pompidou di Parigi
In occasione dei cento anni dalla pubblicazione del Manifeste
du Surréalisme di André Breton, il Centre Pompidou ospita dal 4
settembre 2024 al 13 gennaio 2025 la mostra Surréalisme. Organizzata
come un labirinto, l’esposizione prende avvio da una sala in cui è esposto il
manoscritto originale di Breton, acquisito di recente dalla Bibliothèque
Nationale de France. Più di cinquecento opere, suddivise in tredici capitoli
tematici, tracciano una mappa dei leitmotiv poetici del movimento dal 1924 al
1969, anno in cui Jean Schuster decretò lo scioglimento del gruppo surrealista.
I curatori Didier Ottinger (già responsabile della
mostra Le Surréalisme et l’objet nel 2014) e Marie Sarré hanno
scelto di articolare il percorso guidando il visitatore attraverso tredici temi:
1. Entrée des médiums, 2. Trajectoire du rêve, 3. Machines à coudres et
parapluies, 4. Chimères, 5. Alice, 6. Monstres politiques, 7. Le royaume des
mères, 8. Mélusine, 9. Forêts, 10. La pierre philosophale, 11. Hymnes à la
nuit, 12. Les larmes d’Éros, 13. Cosmos.
In ossequio al carattere internazionale del Surrealismo,
dopo il Pompidou, la mostra approderà ai Musées royaux des Beaux-Arts de
Belgique a Bruxelles (dal 21 febbraio al 21 luglio 2025), alla Fundación Mapfre
a Madrid (febbraio-maggio 2025), alla Hamburger Kunsthalle di Amburgo (dal 12
giugno al 12 ottobre 2025) e, infine, al Philadelphia Museum of Art (dal
novembre 2025 al febbraio 2026).
- «Il
linguaggio è stato dato all’uomo affinché ne faccia un uso surrealista»
Avventurandosi tra le tredici sale, al visitatore potrebbe
capitare di provare, per qualche istante, la vertigine del dérèglement
de tous les sens di Rimbaud che era così caro ai surrealisti: lo
spazio di ognuna delle sale è saturo all’inverosimile. I quadri, le sculture,
gli oggetti surrealisti, i manoscritti, le teche che racchiudono libri e
riviste, le persone stesse che visitano la mostra, tutto sembra partecipare ad
un medesimo happening volto a dimostrare le possibilità di
esaurimento di una parola: SURREALISMO. L’esperienza tende a configurarsi come
un manuale di istruzioni a cui attenersi per ottenere una definizione quanto
più enciclopedica del Surrealismo. Una definizione che però, ponendosi come
semplice tema, riduce le opere a mere illustrazioni e non, come si deve, a una
concezione del mondo.
Se volessimo utilizzare le parole che Breton stesso utilizza
nel Manifeste du Surréalisme, diremmo che la mostra si limita
ad essere un «puro e semplice sovrapporsi delle illustrazioni di un catalogo»[8]. Questa formula era stata utilizzata da
Breton per criticare «l’atteggiamento realista» e, più in particolare, il
procedimento della descrizione del romanzo realista. In un saggio del 1936
intitolato Narrare o descrivere?, György Lukács individua
nell’antinomia tra narrazione e descrizione non solo la scelta di una tecnica
letteraria tramite cui rappresentare la realtà, ma, soprattutto, due azioni che
presiedono a una differente concezione del mondo. Narrare o descrivere? Il
quesito investe il rapporto stesso che uno scrittore ha con la vita:
partecipare o osservare?[9] Osservare presuppone un certo tipo
di atteggiamento davanti al mondo e alla vita e la descrizione è il mezzo
espressivo di tale atteggiamento. Descrivere è un’interpretazione del mondo. E,
dal momento che per i surrealisti «l’attività di interpretazione del mondo deve
continuare ad essere legata all’attività di trasformazione del mondo»[10] , rifiutare la descrizione è
un’azione etica, prima ancora che estetica: «Qualsiasi errore
nell’interpretazione dell’uomo porta con sé un errore nell’interpretazione
dell’universo: ed è quindi un ostacolo alla sua trasformazione»[11]. Il surrealismo è innanzitutto una
concezione del mondo. Una concezione del mondo che ipotizza e ipotèca la parola
rivoluzione coniugando il verbo di Marx con quello di Rimbaud: «Trasformare
il mondo, ha detto Marx, cambiare la vita, ha detto
Rimbaud: per noi, queste due parole d’ordine fanno tutt’uno»[12]. Il surrealismo è al servizio della
rivoluzione, come decreterà Breton nel 1929 in seguito alla pubblicazione
del Second Manifeste du Surréalisme. E la rivoluzione, per i
surrealisti, è un progetto di vita.
Ora, la mostra del Centre Pompidou, museificando e
tematizzando il surrealismo, finisce col neutralizzare e anestetizzare la
portata rivoluzionaria di cui è portatore. Annie Le Brun, in Qui vive.
Considérations actuelles sur l’inactualité du surréalisme (Flammarion),
un saggio del 1991 pubblicato in occasione di una mostra che il Centre Pompidou
aveva dedicato ad André Breton e che è stato riedito in occasione della mostra
del centenario, critica vivacemente l’addomesticamento subito dal Surrealismo
dovuto alla «neutralisation universitaire» e alla sua «spectaculaire
transmutation en valeur marchande». Annie Le Brun, che, nel 1966 – poco più che
ventenne – ha conosciuto Breton entrando a far parte del gruppo surrealista
poco prima della morte del suo iniziatore, ricorda come Breton si sia opposto,
durante tutta la sua esistenza, alla «sopravvivenza del segno alla cosa
significata» e come questa minaccia di cristallizzazione estetica sia stata
all’origine degli innumerevoli riorientamenti che hanno ritmato la storia del
Surrealismo.
Il demerito più grande della mostra del centenario al
Pompidou è aver completamente tralasciato ciò che ha permesso al Surrealismo di
reinventarsi di continuo e definirsi, di fatto, come una rivoluzione
permanente: l’aver inteso dialetticamente la realtà e l’immaginazione, ponendo
quest’ultima come principio di trasformazione della prima e facendo di tutta
l’impresa surrealista, senza distinzione possibile tra produzione di opere e
riflessione metodologica, come un’operazione di vasta portata svolta sul linguaggio.
Quando Breton si chiede se «la mediocrità del nostro universo non dipende forse
essenzialmente dal nostro potere di enunciazione», delinea un vero e proprio
piano d’azione, ancora oggi di grande attualità (la lotta per l’adozione della
scrittura inclusiva non è forse un tentativo di intervenire, attraverso il
linguaggio, sui rapporti di forza determinati dal patriarcato, contribuendo ad
ampliare la lotta di classe nella sfera linguistica trasformando il mondo e
cambiando la vita proprio come auspicato da Breton?). Quando nel Manifesto è
chiaramente annunciato che «il linguaggio è stato dato all’uomo affinché
ne faccia un uso surrealista», Breton indica come le differenti tecniche
adoperate dai surrealisti per interrogare la (sur)realtà – la scrittura
automatica, i cadavres exquis, i racconti di sogni, i collages, la
fotografia, il cinema, la pittura, e quei particolari tipi di oggetti
romanzeschi che sono Nadja di Breton e Le Paysan de
Paris di Aragon – partecipano, senza stabilire una gerarchia, alla
trasformazione della realtà. D’altro canto, più che definirle tecniche, esse
andrebbero definite come variazione di una stessa pratica: la poesia. Poesia
che chiaramente, seguendo Annie Le Brun, non è da intendersi come forma
esclusivamente letteraria, ma come coscienza poetica, e, in definitiva, come la
pratica del mondo auspicata da Rimbaud: «la poesia non ritmerà più l’azione, le
sarà davanti».
Quando nel 1940 Hitler entra a Parigi, tutti i surrealisti
si organizzeranno prendendo parte, senza esitazione, alla Resistenza e alla
lotta armata. Immaginare un altro mondo e lottare affinché esso diventi realtà,
era qualcosa la cui necessità faceva parte del loro stesso essere. Il
surrealista non scrive poesie. Il surrealista fa la poesia. Il
surrealista non esegue dipinti a partire da un tema, il surrealista insorge
contro la rappresentazione museificata della realtà perché la realtà è per lui
una possibilità continua di esercitare una rivoluzione permanente.
Mentre il visitatore della mostra del centenario organizzata
dal Centre Pompidou si dirige alle toilettes per una breve
pausa e il lettore si dimestica tra le note di quest’articolo chiedendosi «e
dunque, ‘sta mostra?, vado o resto a casa?», chiamiamo alle armi i nostri
fratelli e chiediamo, ufficialmente, l’occultamento del Surrealismo.
- Il
Surrealismo in clandestinità
«L’approvazione del pubblico è da fuggire più di ogni altra
cosa. Bisogna assolutamente impedire al pubblico d’entrare se si
vuol evitare la confusione. Aggiungo che bisogna tenerlo esasperato alla porta
con un sistema di sfide e di provocazioni. CHIEDO L’OCCULTAMENTO PROFONDO,
EFFETTIVO DEL SURREALISMO. Proclamo, in questa materia, il diritto all’assoluta
severità. Nessuna concessione al mondo, nessuna grazia. Di fronte a
noi, la terribile alternativa». (André Breton, Secondo
Manifesto del Surrealismo, 1929).
*
Il visitatore, dopo aver scrollato a fatica, con un leggero affanno,
le ultime gocce di urina, riabbottona il suo pantalone e tira lo scarico.
Seguendo il vortice che si crea nel gabinetto, si rende conto, in ritardo (era
intento a ricordarsi dove avesse già visto quel quadro di Dalì e a chiedersi il
senso, se gli fosse piaciuto o meno, se fuori piovesse ancora e a che ora
sarebbe rientrato a casa per non perdersi l’ultimo episodio della sua serie
preferita), che c’è un pezzo di merda che galleggia sulla superficie vischiosa
dell’acqua senza andare nel fondo e che quel pezzo di merda che galleggia gli
ricorda la forma di una pistola, o una stella, o il vuoto, o l’infinito a cui
pensava da bambino quando guardava il cielo stellato, o il primo amore o tutte
queste cose insieme.
Ed è in quel momento che il Gruppo Surrealista Clandestino
entra in azione.
- Prolegomeni
a un Manifesto del Surrealismo in clandestinità, o no
Noi ci annoiamo nelle città.
Il giorno, come la notte, è un dormitorio nel quale ogni
corridoio conduce a un letto di morte o in una sala operatoria. Il ticchettio
di una sveglia ispira la progettazione delle nostre più belle bombe
incendiarie.
Noi, surrealisti clandestini, rifiutiamo la morte e
chiediamo di essere sepolti vivi.
Abbiamo scelto i sotterranei perché il cielo è troppo
azzurro, o troppo grigio, e mai all’altezza del cielo stellato dentro di noi. A
Kant preferiamo Kierkegaard, a Kierkegaard preferiamo Spinoza e a Spinoza
preferiremo sempre il nostro migliore amico. Le affinità elettive sono la
dimostrazione scientifica della teoria della deriva dei continenti.
Abbiamo visto Marcel Proust tornare dal campo di
concentramento di Buchenwald per dirci di bruciare il tempo perduto prima di
addormentarsi nella sua bara, in attesa del bacio di sua madre.
Abbiamo visto Thomas Mann spararsi alla testa giocando alla
roulette russa con suo figlio Klaus.
Abbiamo visto Robert Brasillach tornare dal patibolo per
chiedere la grazia e René Char dirgli di andare all’inferno prima di ammazzarlo
e mandarlo davvero all’inferno.
Abbiamo visto Giraut de Bornelh giocare ai dadi con Stéphane
Mallarmé in un ospedale psichiatrico mentre le infermiere svuotavano i loro
pitali e i trovatori piangevano nel cortile della ricreazione aspettando le
visite del giorno.
Abbiamo visto Guido Cavalcanti sodomizzare Beatrice mentre
Dante li osservava e si masturbava di nascosto scrivendo il quarto tomo
della Divina Commedia, quello in cui raccontava il suo ritorno
sulla terra dopo il viaggio e giungeva alla conclusione che né Dio né l’amore
esistevano e che solo esistevano le stelle.
Abbiamo visto Néstor Sánchez elemosinare in place Stalingrad
a Parigi per comprarsi del crack a buon mercato e restare sveglio tutta la
notte per finire di scrivere il libro che avrebbe dovuto renderlo immortale
(quando stava per mettere il punto finale, ebbe un arresto cardiaco e scoprì
che non sarebbe stato immortale, che i suoi libri sarebbero finiti fuori
catalogo e poi al macero, che il suo nome sarebbe stato espunto dalla versione
aggiornata della Storia della letteratura argentina, e che nessuno,
infine, si sarebbe ricordato di lui o, se un lettore avesse incontrato il suo
nome, avrebbe pensato a uno scrittore immaginario o a un fantasma, ovvero, la
stessa cosa).
Il metodo sperimentale è il nostro imperativo categorico. Né
la dolcezza dei figli, né la pietà dei vecchi padri, né il debito amore per le
Penelopi, le Beatrici e le Dulcinee potranno mai vincere l’ardore che abbiamo
di divenir del mondo esperti.
La festa è la nostra rivoluzione permanente (ai funerali –
soprattutto al nostro –, ai battesimi, ai matrimoni, alle nascite dei figli,
vogliamo ubriacarci senza alcuna misura, sostituire il vino al sangue, sentirci
come Cristo il giorno della resurrezione, e poi, quando la vescica avrà assunto
la forma di una granata, pisciare negli urinatoi delle città fino a farli
esplodere). Il nostro fegato ingrossato, notre foi grasse, è
la nostra assicurazione vitale.
Ivan Chtcheglov è surrealista clandestino in geografia
urbana.
Gilles Deleuze è surrealista clandestino nel desiderio.
Lucien Chardon è surrealista clandestino in Balzac.
Marx è surrealista clandestino nella poesia
Rimbaud è surrealista clandestino in Diego Armando Maradona.
Aleksandra Michajlovna Kollontaj è surrealista clandestina
nel marxismo-leninismo.
Ernest Hemingway è surrealista clandestino nella lotta
armata.
Georges Perec è surrealista clandestino nella memoria.
Il 1917 è surrealista clandestino nel 1871.
Marcel Proust è surrealista clandestino quando legge
l’orario dei treni in partenza.
Mohamed Mbougar Sarr è surrealista clandestino nel
labirinto.
Jorge Louis Borges è surrealista clandestino nella fisica
quantistica.
Robert Desnos è surrealista clandestino nella morte.
Sergej Gennadievič Nečaev è surrealista clandestino nella
catechesi.
Roberto Bolaño è surrealista clandestino nella pratica della
vita.
Seleziona la risposta corretta: Rifiutiamo di issare
le bandiere a mezz’asta: a) delle nostre erezioni mattutine; b) della nostra
immaginazione; c) della nostra impazienza (abbiamo fame).
Seleziona la risposta corretta: Quando un surrealista
clandestino osserva una bottiglia vuota: a) immagina una Molotov; b) la
utilizza come un vaso di fiori; c) compra (o – a partire dalla sua condizione
socioeconomica – ruba o prende in prestito) una nuova bottiglia; d) chiama a
raccolta gli altri surrealisti clandestini interrogandoli con la stessa frase
che nel 1902 Vladimir Il’Ič Ul’Janov rivolse ai compagni riguardo la linea da
adottare: Che fare? La discussione si prolunga fino all’alba,
talvolta fino all’alba successiva e nel frattempo i surrealisti clandestini
continuano a condurre la vita di tutti i giorni – mangiano, bevono, scopano,
vanno al cesso, guardano un film, partono in viaggio, scrivono, s’innamorano,
qualcuno di loro muore, invecchiano, passeggiano lungo la Senna quando le
giornate iniziano a farsi più lunghe, litigano, fumano una sigaretta affacciati
ai balconi delle loro mansarde come se fossero affacciati su una vena aperta,
ordinano al barista un altro caffè per restare svegli fino al giorno del
giudizio – ma tutto, sempre, lo fanno INSIEME.
Che tutto ciò che è felice sia crocifisso! (Perché
risorgerà).
Al demone dell’eterno ritorno, l’unica risposta che potremo
mai dargli è – e sempre sarà – Es muss sein!
Ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo per sempre.
Completa la frase: Lasciamo tutto perché abbiamo
bisogno di tutto affrontare nuovamente, tutto rivedere, tutto accettare, tutto
reinventare, tutto ___________________.
Risolvi l’operazione matematica: 1 + 9 + 1 + 7 =
__________________.
I sotterranei, il nostro Palazzo d’Inverno.
Poeti, scioglietevi i capelli (se li avete).
Le cronache del tempo riportano che nel 1871, alla vigilia
della Comune di Parigi, i primi surrealisti clandestini spararono agli orologi.
Tic-tac tic-tac tic-tac.
Il ticchettio di una sveglia ispira la progettazione delle
nostre più belle bombe incendiarie.
Lo ripetiamo: ciò che abbiamo amato una volta, lo ameremo
per sempre.
C’era una volta: ci sarà una ri-volta.
___
[1] Durante i mesi precedenti avevo
lavorato a un progetto di dottorato sull’opera di Arturo Benedetti (Palermo,
1909 – Parigi, 2003), colui che Carlo Bo aveva definito nella sua Antologia
del surrealismo il primo e l’ultimo surrealista italiano. Grazie al
professor Merlino, la scoperta del Surrealismo, tre anni prima, aveva
rivoluzionato la mia vita con l’urgenza della rivelazione. Nel corso
dell’inverno del 2013 mi interrogavo sulla necessità di mettere tutto in
questione. Due poesie di Breton, Lâchez tout e Plutôt
la vie, erano diventate il mantra che ripetevo di continuo ogni
mattina mentre risalivo Via Diaz, a Portici, per prendere la Vesuviana in
direzione di Napoli. Maurizio mi attendeva a Porta Nolana. Insieme ci recavamo
alla Biblioteca universitaria e lì trascorrevamo tutta la giornata a bere caffè
e a studiare per ottenere un dottorato che per noi significava soprattutto la
possibilità di avere per tre anni i soldi necessari per viaggiare e studiare
senza l’urgenza di cercare un lavoro. A febbraio nessuno dei due riuscì ad
ottenere la borsa di studio. Durante un pomeriggio trascorso nell’aula occupata
di Porta di Massa, avemmo l’idea di chiamare André che, nel frattempo, era
tornato a Parigi. «Ma se dovessimo prendere un biglietto per Parigi, potresti
ospitarci per qualche tempo?». Quando finimmo la chiamata andammo a fumare una
sigaretta nel chiostro. Non aggiungemmo nessuna parola superflua. Tutti e due
eravamo impegnati ad eseguire metodicamente il nostro congedo da Napoli
osservando la cupola di San Pietro Martire e la porzione di cielo che la
modellava e che, a momenti, sembrava potesse crollarle addosso.
Il 9 aprile 2013 un treno in partenza da Napoli Centrale mi
avrebbe portato, l’indomani, a Parigi.
[2] «Lasciate tutto, lasciate Dada /
Lasciate la moglie, lasciate l’amante / Lasciate le paure e le speranze. /
Sbarazzatevi dei figli in un bosco. / Lasciate il certo per l’incerto. /
Lasciate una vita confortevole, ciò che vi è stato dato come progetto per il
futuro. / Andate per le strade».
[3] «Il rischio sta sempre da un’altra
parte. Il vero poeta è quello che lascia sempre sé stesso alle spalle. Mai
troppo tempo in uno stesso posto».
[4] Saad, oltre ad essere stato un amico
intimo di Breton, José Corti (lo storico editore-libraio dei surrealisti), di
Cortázar, e di Danilo Kiš, era l’esecutore testamentario di Arturo Benedetti.
[5] Le cose non andarono come previsto.
Avevo terminato i miei risparmi nel giro di neanche due settimane. Iniziai a
lavorare in un bar. Mi ero imposto una rigida ripartizione delle mie giornate:
la mattina lavoravo al bar, il pomeriggio andavo con Saad alla BNF per
consultare l’archivio di Benedetti, la sera mi ubriacavo con André. Il mese
successivo al mio arrivo incontrai Elisa. Il volto di Gilda continuava a
sfilare via dal finestrino, confondendosi sempre più con quello dei fantasmi.
Sarei tornato a casa? E se anche fossi tornato, che forma avrebbe avuto quel
volto? Non lo so neanche ora: probabilmente le rughe delimitano ormai il
contorno di quegli occhi che un tempo mi guardavano e che ora guardano altrove.
[6] Scorrono i volti di Gilda, del
professor Merlino, di Gabriel Saad, di Arturo Benedetti, quello di André, di
Elisa, di Cécile, di Paul, Raoul, Marion, Lola, Giulia, Claire, Simon, Gildas,
Hessam, Chloé, Mathilde, Flore, Gabriele, Olly, Camilla, Héloise, Laura, e
quello di Clémence. A leggerli di seguito questi nomi, un giorno, non
formeranno, forse, un monumento ai caduti, la mia personale enciclopedia dei
morti?
[7] A. Breton, Nadja, trad.it,
G. Falzoni, Einaudi, 2007, p. 5.
[8] A. Breton, Manifesti del
Surrealismo, trad. it. di L. Magrini, Einaudi, 1987, p. 14.
[9] Lukács individua nel 1848 lo
spartiacque che determina un differente modo operato dagli scrittori di
rapportarsi alla vita. Mentre, infatti, secondo Lukács scrittori come Balzac,
Stendhal, Dickens e Tolstoj, rappresentanti di quella società borghese che
andava definitivamente consolidandosi attraverso varie crisi, «hanno vissuto
questo processo di formazione nella sua crisi di trapasso, prendendovi
attivamente parte», gli scrittori della generazione successiva, Flaubert, Zola,
Maupassant, «hanno iniziato la loro attività dopo la battaglia di giugno, in
una società borghese fissata e costituita». Ne è conseguito che questi ultimi
«non hanno più attivamente partecipato alla vita di questa società; né volevano
parteciparvi». E, aggiunge Lukács, «questo rifiuto è dovuto soprattutto a un
atteggiamento di opposizione, cioè esprime l’odio, l’orrore e il disprezzo che
essi nutrono per il regime politico e sociale del loro tempo». Al partecipare
alla vita della generazione di Balzac si contrappone, dunque, l’osservare la
vita della generazione di Flaubert e Zola: essi, non potendo e non volendo
partecipare alla vita per trasformarla, «non possono che scegliere la
solitudine, e diventano osservatori critici della società borghese».
[10] A. Breton, Posizione politica
del surrealismo, in Id., Manifesti del surrealismo, cit,
p. 172.
[11] Ibid.
[12] Ibid.
Testo ripreso da https://www.nazioneindiana.com/2024/12/26/surrealismo-istruzioni-per-luso/
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