08 dicembre 2024

D' ANNUNZIO A FIUME

 


1919-2019. D'Annunzio A Fiume.


Emilio Gentile

Non fu un anno rivoluzionario, il 1919, anche se per dodici mesi, si parlò molto di rivoluzione nel continente che era stato l’epicentro della Grande Guerra. La guerra stessa fu esaltata (o deprecata) come rivoluzione, perché aveva sconquassato un assetto politico internazionale, provocando la nascita di nuovi Stati repubblicani sulle macerie di secolari imperi autocratici. Movimenti e partiti fautori di rivoluzioni comuniste, nazionaliste, internazionaliste, indipendentiste pullularono ovunque in Europa nel 1919. Nonostante ciò, non fu un anno rivoluzionario, se per rivoluzione s’intende la conquista del potere da parte di una nuova classe politica, l’abbattimento di un regime esistente, l’istituzione di un regime nuovo o di un nuovo Stato. Rivoluzionario era stato il 1917, con le due rivoluzioni in Russia, nel febbraio e nell’ottobre, che avevano abbattuto il regime esistente e creato un regime nuovo. Ci furono tentativi rivoluzionari anche nel 1919, due in Germania, uno in Ungheria, tutti ispirati alla rivoluzione bolscevica, ma furono stroncati dopo poche settimane dalla repressione armata di forze antibolsceviche. Da allora, non ci fu altra rivoluzione comunista in Europa.

Se non fu rivoluzionario, il 1919 fu tuttavia un anno altamente convulsionario. In tutti i paesi che avevano partecipato alla Grande Guerra ci furono violente agitazioni di piazza, scioperi generali, tumulti, che talvolta sfociarono in scontri armati. Ma in nessun paese le convulsioni violente provocarono l'imposizione rivoluzionaria di un nuovo regime.

Fra i vincitori, l’Italia fu il paese maggiormente afflitto da convulsioni violente, passate alla storia come “diciannovismo”. Al massimalismo del partito socialista neutralista e internazionalista, che condannava la guerra, denigrava la vittoria e si agitava per realizzare una rivoluzione bolscevica, si contrappose il massimalismo dei nazionalisti interventisti, combattenti e reduci, che esaltavano la guerra e la vittoria come rivoluzionario atto di nascita di una «più grande Italia».

Il partito socialista sfogò l’impeto rivoluzionario negli scioperi generali annunciati come preparazione del proletariato alla conquista violenta del potere: ma nel novembre del 1919, si accontentò di conquistare per via elettorale 156 seggi alla Camera, diventando così il primo partito nel parlamento. Il rivoluzionarismo nazionalista, con l’avanguardia costituita dal neonato movimento dei Fasci di combattimento, si sfogò nella violenza di piazza contro i “bolscevichi”, contro il governo di Vittorio Emanuele Orlando e contro il governo di Francesco Saverio Nitti, succeduto a Orlando nel giugno. Ma il fondatore del movimento fascista, Benito Mussolini, pur esaltando la guerra come primo atto della «rivoluzione italiana», osteggiò qualsiasi iniziativa rivoluzionaria degli stessi fascisti, sostenendo che avrebbe avvantaggiato i socialisti.

L’unico atto rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l’impresa di Fiume, iniziata il 12 settembre, con l’occupazione della città da parte del tenente colonnello Gabriele d’Annunzio, a capo di circa 2.000 “legionari”, in massima parte ufficiali e soldati regolari, che seguirono il poeta, compiendo un atto di sedizione.

L’occupazione di Fiume non aveva all’inizio scopi rivoluzionari. Fu un atto di rivolta contro il governo Nitti e contro i governi alleati, che a Parigi avevano negato l’annessione di Fiume all’Italia, perché non era inclusa fra i territori assegnati all’Italia dal Patto di Londra, anche se il 30 ottobre 1918 la maggioranza italiana della popolazione fiumana aveva chiesto l’annessione all’Italia.

Il poeta vate, combattente volontario a oltre cinquanta anni, divenuto leggendario per le gesta compiute durante la guerra, pluridecorato e medaglia d’oro al valor militare, nel 1919 fu il principale artefice e propagandista del mito della «più grande Italia» e della «vittoria mutilata». D’Annunzio trasformò Fiume nel simbolo stesso della vittoria italiana: senza Fiume all’Italia, la vittoria era mutilata.

C’era, tuttavia, un aspetto paradossale nell’identificazione dannunziana di Fiume con la vittoria italiana. Infatti, fino alla primavera del 1915 il poeta aveva ignorato Fiume. Non l’aveva mai citata nelle sue concioni interventiste. E continuò a ignorarla durante la guerra. Ancora il 14 gennaio 1919, nella Lettera ai dalmati, menzionò, fra le rivendicazioni della vittoria, le città «italiane» della Dalmazia senza aggiungere Fiume. Attese il 25 aprile, per esaltare per la prima volta, a Venezia, la «ardentissima Fiume», e rivendicare poi, il 6 maggio, dal Campidoglio, «Fiume nostra e Dalmazia nostra», inveendo contro gli alleati diventati nemici dell’Italia vittoriosa. E fu soltanto nel giugno che alcuni nazionalisti fiumani e italiani, Giovanni Host-Venturi, Giovanni Giuriati, Oscar Sinigaglia, sostenuti da alti ufficiali, decisi a compiere una spedizione armata di volontari a Fiume, per imporre la sua annessione all’Italia, proposero al poeta di capeggiare la spedizione.

I promotori della spedizione avevano come scopo provocare la caduta di Nitti, considerato prono agli alleati, per sostituirlo con un governo autoritario, pronto a decretare l’annessione di Fiume. Il 9 giugno, D'Annunzio celebrò la Pentecoste d’Italia per identificare misticamente Fiume con la «più grande Italia», proclamando che «la religione della Patria non ebbe mai comandamento così alto … Fiume appare oggi come la sola città vivente, la sola città ardente, la sola città d'anima».

D’Annunzio era allora un eroe disoccupato, con la propria Musa inaridita. Angosciato dall’invadente vecchiaia, afflitto da un penoso senso di vacuità esistenziale, vagheggiava addirittura il silenzio del chiostro. Ma intanto continuava a inneggiare, con scritti e discorsi, alla «più grande Italia», atteggiandosi a vate di un italico populismo eroico, volto alla esaltazione del lavoro redento dalla servitù del profitto e alla liberazione dell’Italia dall’egemonia dell'Occidente: «Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole», proclamò il 9 luglio: «Separiamoci dall’Occidente degenere [...] divenuto una immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica».

L’avventura fiumana diede al poeta una fiammata di energia, consentendogli di vivere una nuova stagione epica, in uno stato di mistica esaltazione nazionalista e rivoluzionaria. Insediatosi nella città come governante, il Comandante fu affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari, che condivisero col poeta uno spregiudicato stile di vita e un confusionario idealismo rivoluzionario. Con essi, D’Annunzio diede vita a un singolare movimento politico-estetico, il “fiumanesimo”, trasfigurando Fiume nel centro sacro della religione della patria, innalzandola a capitale ideale di un “ordine nuovo”, propulsore di una crociata internazionale per la liberazione dei popoli assoggettati o minacciati dalle plutocrazie occidentali.

Ma l’entusiasmo della popolazione fiumana per l’impresa del poeta e le sue esaltanti orazioni dal balcone, si esaurì in pochi mesi. La spedizione aveva fallito i suoi scopi originari. Il governo Nitti non era caduto. Gli alleati continuavano a osteggiare l’annessione di Fiume. I rivoluzionari socialisti, per quanto inetti a compiere la rivoluzione, erano comunque usciti trionfanti dalle urne elettorali, mentre i rivoluzionari nazionalisti, fascisti per primi, erano stati clamorosamente battuti. Alla fine del 1919, la maggioranza della classe dirigente e della popolazione fiumana era stanca delle concioni del poeta e delle carnascialesche esibizioni dell'anarchismo legionario. Ed era pronta ad accettare un modus vivendi, concordato con il governo dai promotori originari della spedizione, che prevedeva lo sgombero della città dai legionari dannunziani, e la ricerca di un accordo internazionale per l'annessione all'Italia.

Quando, la mattina del 19 dicembre, il Comandante si rese conto che il plebiscito sul modus vivendi era contro di lui, lo annullò. Giovanni Giuriati, uno dei promotori della spedizione, che aveva collaborato col poeta nel governo della città come capo di gabinetto, ed era uno degli artefici del modus vivendi, si dimise dichiarando: «Io sono venuto a Fiume per difendere le secolari libertà di questa terra, non per violentarle e reprimerle».

Da quel momento, e per un anno ancora, sotto il comando dittatoriale del poeta, affiancato ora dal sindacalista nazionalrivoluzionario Alceste De Ambris, ma fra una popolazione sempre più ostile, Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche. Così, in antagonismo con il trionfante velleitarismo rivoluzionario dei bolscevichi italiani, il “fiumanesimo” contribuì a rendere il 1920 italiano un altro anno convulsionario. Senza rivoluzione.

"Il Sole 24 ore - domenica", 18 agosto 2019

 


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