1919-2019. D'Annunzio A Fiume.
Non fu un
anno rivoluzionario, il 1919, anche se per dodici mesi, si parlò molto di
rivoluzione nel continente che era stato l’epicentro della Grande Guerra. La
guerra stessa fu esaltata (o deprecata) come rivoluzione, perché aveva
sconquassato un assetto politico internazionale, provocando la nascita di nuovi
Stati repubblicani sulle macerie di secolari imperi autocratici. Movimenti e
partiti fautori di rivoluzioni comuniste, nazionaliste, internazionaliste,
indipendentiste pullularono ovunque in Europa nel 1919. Nonostante ciò, non fu
un anno rivoluzionario, se per rivoluzione s’intende la conquista del potere da
parte di una nuova classe politica, l’abbattimento di un regime esistente,
l’istituzione di un regime nuovo o di un nuovo Stato. Rivoluzionario era stato
il 1917, con le due rivoluzioni in Russia, nel febbraio e nell’ottobre, che
avevano abbattuto il regime esistente e creato un regime nuovo. Ci furono
tentativi rivoluzionari anche nel 1919, due in Germania, uno in Ungheria, tutti
ispirati alla rivoluzione bolscevica, ma furono stroncati dopo poche settimane
dalla repressione armata di forze antibolsceviche. Da allora, non ci fu altra
rivoluzione comunista in Europa.
Se non fu
rivoluzionario, il 1919 fu tuttavia un anno altamente convulsionario. In tutti
i paesi che avevano partecipato alla Grande Guerra ci furono violente
agitazioni di piazza, scioperi generali, tumulti, che talvolta sfociarono in
scontri armati. Ma in nessun paese le convulsioni violente provocarono
l'imposizione rivoluzionaria di un nuovo regime.
Fra i
vincitori, l’Italia fu il paese maggiormente afflitto da convulsioni violente,
passate alla storia come “diciannovismo”. Al massimalismo del partito
socialista neutralista e internazionalista, che condannava la guerra, denigrava
la vittoria e si agitava per realizzare una rivoluzione bolscevica, si
contrappose il massimalismo dei nazionalisti interventisti, combattenti e
reduci, che esaltavano la guerra e la vittoria come rivoluzionario atto di
nascita di una «più grande Italia».
Il partito
socialista sfogò l’impeto rivoluzionario negli scioperi generali annunciati
come preparazione del proletariato alla conquista violenta del potere: ma nel
novembre del 1919, si accontentò di conquistare per via elettorale 156 seggi
alla Camera, diventando così il primo partito nel parlamento. Il
rivoluzionarismo nazionalista, con l’avanguardia costituita dal neonato
movimento dei Fasci di combattimento, si sfogò nella violenza di piazza contro
i “bolscevichi”, contro il governo di Vittorio Emanuele Orlando e contro il
governo di Francesco Saverio Nitti, succeduto a Orlando nel giugno. Ma il
fondatore del movimento fascista, Benito Mussolini, pur esaltando la guerra
come primo atto della «rivoluzione italiana», osteggiò qualsiasi iniziativa
rivoluzionaria degli stessi fascisti, sostenendo che avrebbe avvantaggiato i
socialisti.
L’unico atto
rivoluzionario compiuto in Italia nel 1919 fu l’impresa di Fiume, iniziata il
12 settembre, con l’occupazione della città da parte del tenente colonnello
Gabriele d’Annunzio, a capo di circa 2.000 “legionari”, in massima parte
ufficiali e soldati regolari, che seguirono il poeta, compiendo un atto di
sedizione.
L’occupazione
di Fiume non aveva all’inizio scopi rivoluzionari. Fu un atto di rivolta contro
il governo Nitti e contro i governi alleati, che a Parigi avevano negato
l’annessione di Fiume all’Italia, perché non era inclusa fra i territori
assegnati all’Italia dal Patto di Londra, anche se il 30 ottobre 1918 la
maggioranza italiana della popolazione fiumana aveva chiesto l’annessione
all’Italia.
Il poeta
vate, combattente volontario a oltre cinquanta anni, divenuto leggendario per
le gesta compiute durante la guerra, pluridecorato e medaglia d’oro al valor
militare, nel 1919 fu il principale artefice e propagandista del mito della
«più grande Italia» e della «vittoria mutilata». D’Annunzio trasformò Fiume nel
simbolo stesso della vittoria italiana: senza Fiume all’Italia, la vittoria era
mutilata.
C’era,
tuttavia, un aspetto paradossale nell’identificazione dannunziana di Fiume con
la vittoria italiana. Infatti, fino alla primavera del 1915 il poeta aveva
ignorato Fiume. Non l’aveva mai citata nelle sue concioni interventiste. E
continuò a ignorarla durante la guerra. Ancora il 14 gennaio 1919, nella Lettera
ai dalmati, menzionò, fra le rivendicazioni della vittoria, le città
«italiane» della Dalmazia senza aggiungere Fiume. Attese il 25 aprile, per
esaltare per la prima volta, a Venezia, la «ardentissima Fiume», e rivendicare
poi, il 6 maggio, dal Campidoglio, «Fiume nostra e Dalmazia nostra», inveendo
contro gli alleati diventati nemici dell’Italia vittoriosa. E fu soltanto nel
giugno che alcuni nazionalisti fiumani e italiani, Giovanni Host-Venturi,
Giovanni Giuriati, Oscar Sinigaglia, sostenuti da alti ufficiali, decisi a
compiere una spedizione armata di volontari a Fiume, per imporre la sua
annessione all’Italia, proposero al poeta di capeggiare la spedizione.
I promotori
della spedizione avevano come scopo provocare la caduta di Nitti, considerato
prono agli alleati, per sostituirlo con un governo autoritario, pronto a
decretare l’annessione di Fiume. Il 9 giugno, D'Annunzio celebrò la Pentecoste
d’Italia per identificare misticamente Fiume con la «più grande Italia»,
proclamando che «la religione della Patria non ebbe mai comandamento così alto
… Fiume appare oggi come la sola città vivente, la sola città ardente, la sola
città d'anima».
D’Annunzio
era allora un eroe disoccupato, con la propria Musa inaridita. Angosciato
dall’invadente vecchiaia, afflitto da un penoso senso di vacuità esistenziale,
vagheggiava addirittura il silenzio del chiostro. Ma intanto continuava a
inneggiare, con scritti e discorsi, alla «più grande Italia», atteggiandosi a
vate di un italico populismo eroico, volto alla esaltazione del lavoro redento
dalla servitù del profitto e alla liberazione dell’Italia dall’egemonia
dell'Occidente: «Liberiamoci dall’Occidente che non ci ama e non ci vuole»,
proclamò il 9 luglio: «Separiamoci dall’Occidente degenere [...] divenuto una
immensa banca giudea in servizio della spietata plutocrazia transatlantica».
L’avventura
fiumana diede al poeta una fiammata di energia, consentendogli di vivere una
nuova stagione epica, in uno stato di mistica esaltazione nazionalista e
rivoluzionaria. Insediatosi nella città come governante, il Comandante fu
affiancato da una schiera di esaltati giovani legionari, che condivisero col
poeta uno spregiudicato stile di vita e un confusionario idealismo
rivoluzionario. Con essi, D’Annunzio diede vita a un singolare movimento
politico-estetico, il “fiumanesimo”, trasfigurando Fiume nel centro sacro della
religione della patria, innalzandola a capitale ideale di un “ordine nuovo”,
propulsore di una crociata internazionale per la liberazione dei popoli
assoggettati o minacciati dalle plutocrazie occidentali.
Ma
l’entusiasmo della popolazione fiumana per l’impresa del poeta e le sue
esaltanti orazioni dal balcone, si esaurì in pochi mesi. La spedizione aveva
fallito i suoi scopi originari. Il governo Nitti non era caduto. Gli alleati
continuavano a osteggiare l’annessione di Fiume. I rivoluzionari socialisti,
per quanto inetti a compiere la rivoluzione, erano comunque usciti trionfanti
dalle urne elettorali, mentre i rivoluzionari nazionalisti, fascisti per primi,
erano stati clamorosamente battuti. Alla fine del 1919, la maggioranza della
classe dirigente e della popolazione fiumana era stanca delle concioni del
poeta e delle carnascialesche esibizioni dell'anarchismo legionario. Ed era
pronta ad accettare un modus vivendi, concordato con il governo dai promotori
originari della spedizione, che prevedeva lo sgombero della città dai legionari
dannunziani, e la ricerca di un accordo internazionale per l'annessione
all'Italia.
Quando, la
mattina del 19 dicembre, il Comandante si rese conto che il plebiscito sul
modus vivendi era contro di lui, lo annullò. Giovanni Giuriati, uno dei
promotori della spedizione, che aveva collaborato col poeta nel governo della
città come capo di gabinetto, ed era uno degli artefici del modus
vivendi, si dimise dichiarando: «Io sono venuto a Fiume per difendere le
secolari libertà di questa terra, non per violentarle e reprimerle».
Da quel momento, e per un anno ancora, sotto il comando dittatoriale del poeta, affiancato ora dal sindacalista nazionalrivoluzionario Alceste De Ambris, ma fra una popolazione sempre più ostile, Fiume divenne luogo di straordinarie o strampalate velleità palingenetiche. Così, in antagonismo con il trionfante velleitarismo rivoluzionario dei bolscevichi italiani, il “fiumanesimo” contribuì a rendere il 1920 italiano un altro anno convulsionario. Senza rivoluzione.
"Il
Sole 24 ore - domenica", 18 agosto 2019
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