11 dicembre 2024

LA NUOVA SINISTRA NEGLI ANNI 1956-1967

 


E’ uscito da poco per Pacini Editore Preparando il Sessantotto. Saggisti e scrittori nelle riviste della Nuova Sinistra (1956-1967), di Luca Mozzachiodi. Riprendiamo da  https://www.leparoleelecose.it/?p=50565       l’introduzione scritta dallo stesso autore.

SAGGISTI E SCRITTORI NELLE RIVISTE DELLA NUOVA SINISTRA

 (1956-1967)

di Luca Mozzachiodi

 

Di fatto, lo storico non esce mai dal tempo della storia:

il tempo si avvinghia al suo pensiero come la terra alla zappa del giardiniere”.

(F. Braudel)

 

Questo libro è una storia intellettuale, culturale e letteraria di due generazioni di autori attive durante il periodo tra gli eventi del 1956 e quelli del 1968, vale a dire tra i due tornanti che hanno drasticamente segnato la mutazione di ruolo e funzione degli intellettuali e degli scrittori in Italia, ma non solo naturalmente in Italia. L’oggetto specifico è la discussione e ricostruzione dell’insieme di teorie, proposte critiche e elaborazioni estetico-letterarie, ma anche pratiche e di intervento politico, di un insieme di esperienze all’origine di ciò che si suole chiamare Nuova Sinistra in campo culturale.

 

Ne consegue, date le specifiche forme in cui questa elaborazione è avvenuta, che è anche, se non principalmente, una storia di saggisti e di riviste politico-letterarie sviluppatesi in quei dodici anni.

Probabilmente l’impostazione storiografico-ricostruttiva di largo respiro non è (o non è ancora) il modello prevalente per gli studi sulla letteratura del secondo Novecento: si privilegia infatti la tendenza, negli studi di letteratura italiana contemporanea, ma (anche se in misura considerevolmente minore mano a mano che queste ricerche si avvicinano alla pratica) anche in quelli che coinvolgono le sfere disciplinari affini come la filosofia, la sociologia, la teoria politica, a non affrontare direttamente il problema della storicità dei testi. Spessissimo si considera il testo unicamente dal punto di vista estetico, stilistico, formale, strutturale o al limite in un insieme il cui riferimento cronologico immediato è costituito da altre opere letterarie o dalle opere del corpus dello stesso autore; qualche volta, soprattutto in quegli autori che, come quelli di cui la mia ricerca si occupa, sono stati anche o principalmente saggisti, stabilendo nessi interni arbitrari e ricavando sistematicità di pensiero più solide di quanto furono in realtà.

 

Ci sono molte ragioni per questo, non solo di ordine metodologico interno agli studi letterari, ma anche di tipo più specifico: l’insegnamento della letteratura contemporanea, a differenza di quello della letteratura di secoli passati, è l’unico in cui il rapporto tra storicità ed esperienza biografica si dà in modo nettamente diverso tra chi insegna (in genere più anziano) e chi apprende (in genere più giovane). Potrà sembrare una banalità, ma ritengo abbia un suo peso e che, anzi, questo peso non sia valutato adeguatamente, specie quando invece implicherebbe una rinegoziazione del rapporto tra cronaca e storia, ma anche la più generale capacità di situare correttamente un testo nella sua rete di relazioni.

 

Il problema esiste e chiunque abbia messo una persona nata dalla metà degli anni Ottanta di fronte a una carta del mondo lo sa: chiedere di descrivere, diciamo, la geografia globale in cui scrivevano Vittorini e Calvino, o la Neoavanguardia (e in quale momento della loro attività? Ci si dovrebbe poi chiedere) può riservare sorprese. Se poi si passa dai dati macroscopici alla storia politica, sociale e culturale la questione è ancora più impressionante e la mia sensazione è che troppo spesso tacendo, volgendosi ad altro tipo di critica letteraria, si lasci campo libero a fenomeni come l’analogia, il pregiudizio, la suggestione, magari la stessa suggestione che i testi esercitano su di noi. In fin dei conti il saggista quando interpreta il sui tempo vuole che gli si creda.

 

Insomma occorre a mio parere mettere mano a una storiografia della letteratura e cultura contemporanea, che possa riarticolare su basi più solide l’analisi della struttura letteraria (che giustamente si continua a sottolineare) dei testi.

Naturalmente non si tratta di un assoluto o di un problema di semplice ignoranza1 e in genere bisogna dire che un senso storico di base è avvertibile nei lavori specialistici su questi e altri autori; ma qui si apre, a mio parere, un secondo problema (se si vuole meno “epocale” e più ciclico o strutturale), ovvero l’altissimo tasso di politicità e quindi necessariamente di scelta, di discrezione e di giudizio valoriale che il posto che assegniamo ai nessi storici che consideriamo rilevanti per la lettura di un testo implica. Volendo richiamarsi a una proposta ermeneutica come l’«always historicize» con cui Jameson apre il suo L’inconscio politico2, ne dobbiamo tratte la conseguenza che, tanto più quando si ha a che fare con la materia scottante della letteratura e della società contemporanea, ogni atto di storicizzazione è un atto di politicizzazione.

 

Per questo motivo la prudenza può servire più della pretesa di assoluta neutralità, che in questo caso si risolverebbe nella cattiva oggettività di una mera giustapposizione cronachistica, maggiormente ideologica quanto meno consapevole di esserlo, e dunque la dichiarazione esplicita delle proprie finalità e convinzioni mentre si argomenta può servire più del dogma di non averne e lasciarle emergere dalle cose. In un bellissimo saggio metodologico lo storico Eric Hobsbawm, parlando del rapporto tra parzialità e specialismo negli studi storici, scriveva:

 

In questa situazione [di crescente specializzazione e compartimentazione dei campi del sapere e di aumento vertiginoso della bibliografia] la partigianeria politica può servire a controbilanciare la tendenza a guardare in un campo limitato, che si esaurisce sempre più negli scolii e nei commenti, nella tendenza a sviluppare un’abilità intellettuale fine a se stessa nell’isolamento autistico dell’accademia […]. La partigianeria è un meccanismo potente: forse il più potente nelle scienze umane. Senza di esso, lo sviluppo stesso di queste scienze sarebbe a rischio3.

 

Un secondo aspetto ricorrente nella maggior parte degli studi sul periodo, ma con alcune eccezioni che sono (sempre, s’intende, relativamente al mio campo d’indagine) quelle con cui talora ho dialogato nelle note, è l’abitudine a pensare gli scrittori esclusivamente come tali, quasi che la scrittura e la loro opera fossero il loro unico modo di rapportarsi con il proprio tempo. In questo la forma monografica, che è quella prevalente negli studi letterari, reca in sé il rischio oggettivo della assolutizzazione della figura e dell’opera sul proprio tempo, una sorta di implicita esaltazione o apologia del genio, e che anche nel modo in cui sono costruite le nostre storie letterarie (nella maggior parte dei casi con un canone di grandi autori e minori) si riverberi tutto ciò.

 

In questo libro ho dunque tentato anche di scrivere un frammento di storia letterario-politica che non fosse solo la storia degli scrittori e degli intellettuali-politici e desse invece maggiore spazio alle loro interrelazioni e all’esplorazione di quelle condizioni storiche, sociali e culturali che favorirono l’emersione di certe opere, posizioni, idee e persino testi letterari. Non è detto che l’operazione possa sempre riuscire (è, se si vuole, il vecchio problema del ruolo della personalità nella storia) e bisogna riconoscere che una certa resistenza e difficoltà è nella materia stessa: l’oggetto letteratura, o più genericamente, dato che solo una parte dei testi qui discussi sono letteratura nel senso canonico del termine attinente al sistema dei generi, l’oggetto saggio, scritto di pensiero, per la stessa carica formalizzante che l’opera porta in sé e perché, che ci piaccia o no, una o più mani, uno o più autori che svolgono un ruolo non neutro in questa formalizzazione ci sono sempre4. Quello che piuttosto ritengo di aver fatto è aver ristabilito un più equo rapporto tra i poli: se la personalità ha un suo posto nella storia e un suo modo di agirvi è però cosa salutare ricordare che anche sui grandi autori la storia agisce e ne fa ciò che sono e ciò che scrivono. Certo il saggio come forma, perché al di là delle diverse tipologie in cui i saggi esaminati rientrano si tratta quasi completamente di saggi per quello che riguarda la parte testuale, è forse un terreno privilegiato di incontro tra storicità e personalità, per la marcata vocazione pratica, interlocutoria anche quando sembra dottrinaria, esplicativa e finanche eversiva, del genere, come con acuta autoconsapevolezza stilistica oltreché filosofica andava notando Adorno, mentre scriveva proprio negli stessi anni di molti degli intellettuali protagonisti della stagione analizzata5. Oggetto e metodo si definiscono dialetticamente a vicenda, o piuttosto hanno portato l’uno all’altro ineludibili tensioni.

 

II

 

Una ricerca su saggisti condotta nelle riviste di militanti di sinistra dunque, ma per spiegare perché ritengo questa alternativa più significativa di altre6, cioè perché essa da un lato fosse, a mio parere, il migliore abbinamento possibile e dall’altro rappresentasse un buon contesto per un tentativo di storiografia della contemporaneità, dovrò necessariamente ricorrere (spero di farlo qui e di averlo fatto meno inconsciamente altrove) alla partigianeria della quale Hobsbawm diceva che ci fa porre le domande.

 

È un fatto la scomparsa odierna (ma più esattamente si potrebbe dire il mutamento di funzione), di quel tipo di intellettuale militante che nelle pagine delle riviste degli anni Cinquanta e Sessanta si trovava in abbondanza. Non il grande maestro o il luminare, non lo specialista per vocazione, ma quello in cui la scelta dell’oggetto di interesse, fosse di specialista, di tecnico o di critico avverso agli specialismi (e si può dire che almeno fino all’inizio degli anni Sessanta di questo ultimo tipo fossero quasi tutti gli intellettuali umanisti di sinistra, salvo qualcuno ben inquadrato nella divisione del lavoro intellettuale in seno ai partiti, dove peraltro tale divisione non era comunque sempre stringente) sorgeva dalla società e ritornava sempre anzitutto a uno sguardo politico, a una vocazione trasformativa dei rapporti sociali.

 

Sono parimenti andate scomparendo o radicalmente mutando le sedi intellettuali in cui quelle figure in genere si confrontavano, si formavano, stringevano alleanze e elaboravano progetti, ovvero le riviste, anch’esse luogo di quella pedagogia e formazione politica che oggi anche quelle che più insistentemente vi si richiamano non praticano (e non possono praticare nel mutato scenario): presupposto, se si tiene a mente quanto detto sopra, di una corretta indagine è che riviste come «Ragionamenti», «Quaderni Rossi», «classe operaia», «Quaderni Piacentini» abbiano contribuito a dare consistenza, solidità, autonomia e possibilità di ricerca e di azione politica ad almeno due generazioni di intellettuali non meno di quanto questi le abbiano materialmente scritte.

 

Ritengo che un primo passo per darsi ragione plausibile della scomparsa di quelle forme (lasciamo da parte il complicato problema del come rimpiazzarle, che è al momento la domanda cui una ricerca come questa non può rispondere essendo una domanda sul futuro, ma ricordando anche che è in realtà la sola domanda a cui dare una risposta rappresenta un’esigenza materiale reale e che quindi credo debba restare sullo sfondo mentre si legge) sia indagarne lo sviluppo e gli esiti storici.

Mi colpiva già prima della pandemia da Covid-19 quanto poco le redazioni si incontrassero, quanto ancora meno discutessero effettivamente i contenuti pubblicati e ancora meno ci si unificasse o ci si separasse intorno a una linea comune che fosse politica, o anche solo latamente culturale. Al contrario, e su questo ho voluto insistere più volte tramite una lettura diretta dei testi e delle posizioni, ma anche a volte della corrispondenza, la storia delle riviste degli anni 1956-1967 è una storia di costanti ridefinizioni di linea, di composizione e frattura di gruppi di lavoro. Ciò nonostante queste leve di intellettuali e attivisti in genere non amavano la faziosità e la frantumazione in quanto tale, ma solo in quanto volta alla ricerca di un punto di osservazione e di azione il più universalmente valido ed efficace possibile. Oggi prevale forse la fede in un’universale efficacia della elaborazione culturale umanistica (o in una sua universale inefficacia) e, credo, si coglierà come, ad esempio, questi problemi fossero già all’ordine del giorno nelle discussioni degli anni Cinquanta sull’organizzazione della cultura e poi nel dibattito sul rapporto tra scienze umane e politica e tra sociologia, human relations e organizzazione del lavoro. Questo non significa che sia tutto sempre uguale, o che quegli anni ebbero una particolare virtù profetica o meriti superiori agli altri, ma cogliere da un lato quelle differenze tra passato e presente che ci devono muovere alla ricerca e dall’altro come, se si parla degli anni in cui avviene il passaggio in Italia ad un diverso tipo di sistema produttivo, politico e sociale rispetto a quello della prima metà del secolo (per comodità e per riprendere il termine che allora fu coniato e che poi è entrato nell’uso anche scientifico userò il termine neocapitalismo), si parla anche necessariamente di processi di lungo periodo, per quel che riguarda le forme di organizzazione della cultura, la formazione ideologica e teorica degli scrittori, il rapporto tra questi e le istituzioni della politica organizzata.

 

Del resto non sono ovviamente il primo a notare che esiste un diverso rapporto tra cultura e politica, che lo statuto degli intellettuali è cambiato e forse anche che sono cambiate le riviste: solo per fare due esempi significativi possiamo ricordare come due protagonisti di quella stagione, di diversa formazione e traiettoria, quali Alberto Asor Rosa, poi membro del PCI e storico della letteratura di professione, e Edoarda Masi, sinologa di grande prestigio che ha costeggiato tutte le riviste della Nuova Sinistra fino agli ultimi contributi su «L’ospite ingrato», abbiano osservato il mutamento. Il primo in una sua nota intervista7, e poi in molti suoi scritti successivi anche sui giornali, ha sottolineato la questione della scomparsa di quel mondo intellettuale che era stato invece fiorente, attivo e innovativo nella sua giovinezza:

 

Bisogna chiedersi se siamo dinanzi alla liquidazione delle forme tradizionali della cultura intellettuale o all’esaurimento della funzione dell’intellettuale tout court. Io propendo per la prima ipotesi. Sono persuaso che sia andata chiudendosi in questi decenni una storia intellettuale cominciata sotto i Lumi e protrattasi fino agli anni Settanta e Ottanta del secolo scorso, sia pure con le tragiche fratture dei totalitarismi nazifascista e comunista8.

 

La seconda si esprimeva così in una intervista alla rivista «Kamen’»:

 

Ritengo che nella fase attuale dell’evoluzione economica e politica mondiale, quelli che erano chiamati gli intellettuali, ma che in realtà erano gli intellettuali umanisti, anche del tempo di Marx e poi via via, non hanno più quella funzione che hanno avuto per un secolo e mezzo: in quanto oggi le leve del potere, sia pure con asservimento, sono semmai nel campo della scienza e della tecnologia. Per esempio, il sistema di dominio attraverso la biogenetica, senza una scienza asservita sarebbe impossibile. Il potere delle transnazionali della chimica senza il potere degli universitari sarebbe impossibile. Questi sono veramente gli asserviti pericolosi. Quando tu hai un asservito in campo umanistico, il peggio che può fare è del giornalismo fetente… non dico che faccia poco male, ma tutto sommato… Il potere in questo senso è limitato, mentre non lo è il potere di quelli che organizzano l’industria chimica in un certo modo e sono asserviti a quella, oppure la corporazione dei medici, quelli che insomma hanno finito per fare della vita umana qualcosa di spaventoso. Diceva un mio amico, ora morto: «Se mi ammalo gravemente, la prima cosa che faccio è nascondermi»; perché uno non vuole diventare oggetto di esperimenti, campare tre anni di più, sottoposto a sofferenze atroci per quei tre anni in più che lo fanno vivere. Certamente è necessario un contributo di pensiero teorico al cambiamento effettivo, di filosofia, di economia ecc. sarà necessario questo, ma non c’è ancora. Chi detiene il potere non ha più bisogno di intellettuali, si serve di altri, di mezze calzette9.

 

Aggiungerei, per restare dell’ambito della critica letteraria contemporaneistica, anche una notazione su come ad esempio il volume Sistema periodicoil secolo interminabile delle riviste10, che pure ha il merito di essere un tentativo abbastanza esteso di campionatura di esiti novecenteschi di questa forma, se si eccettua un excursus sui «Quaderni Piacentini», e su alcune esperienze posteriori agli anni di cui mi occupo come «Quindici» e «Alfabeta», sia interamente dedicato a riviste letterarie e di critica letteraria e dunque non vi si trovino ad esempio «Ragionamenti» e «Quaderni Rossi», ma nemmeno «Il Contemporaneo» o «Giovane Critica» che pure hanno trattato anche di letteratura ed appartengono allo stesso secolo e che anzi hanno spesso gli stessi redattori e ospitano gli stessi autori delle altre.

 

Lo specialismo non è un buon criterio per accostarsi alle riviste del secondo Novecento nella misura in cui non può aderire alla molteplicità di piani e di livelli su cui queste cercavano di agire. La fine dell’engagement, che come si vedrà rappresenta un grande tema di discussione nel passaggio tra i due decenni, non significa necessariamente la ricomparsa del letterato, del filosofo, del sociologo “puri”, quanto, nella quasi totalità dei casi, una nuova e complessa strategia di articolazione del rapporto politica-cultura anche in sedi di intervento pratico.

 

Nondimeno attualmente una tendenza allo specialismo e alla settorializzazione è tipica sia della formazione degli intellettuali che dell’azione delle riviste ed è, forse, strettamente legata al loro calo di influenza e alla crescente diffidenza verso la “partigianeria” nell’esercizio della critica e della storiografia. Ciò naturalmente non spiega del tutto le caratteristiche dell’azione intellettuale attuale, ma forse aiuta a tracciare un nesso tra questo e l’oggetto del presente volume in senso specifico. Riassumo qui brevemente due schemi interpretativi suggestivi che derivano rispettivamente da Bauman, dunque da un sociologo che ancorché emigrato in Gran Bretagna ha svolto tutta la sua formazione e prima stagione di attività nella Polonia socialista e nell’ambito dell’arricchimento del marxismo, ma che scrive nel 198711, cioè quando il processo di decomposizione dello strato intellettuale militante è evidentemente avviato, e da Hobsbawm, cioè da uno storico dei movimenti operai e del Novecento che, sebbene non abbia mai rinunciato alla propria visione marxista e persino a una inclinazione militante (fu membro della Lega della Gioventù comunista di Germania, poi del Partito Comunista di Gran Bretagna all’interno del quale rimase per tutta la seconda metà del secolo), si è però anche tenuto al riparo da quello scolasticismo marxista che additava come una delle varianti della specializzazione e dall’adesione immediata a qualsiasi movimento sociale di protesta, al punto che i suoi saggi decisivi sul rapporto tra intellettuali e partito, pur molto critici, cominciano a caldo tra il 1969 e il 1971.

 

Bauman teorizza la decadenza degli intellettuali da legislatori a interpreti, cioè da forza in grado di influenzare direttamente con le proprie elaborazioni le scelte politiche a gruppo abbastanza eterogeneo la cui strategia, conscia o inconscia, si manifesta nel proporre modelli e interpretazioni della realtà e, soprattutto, nel costante sforzo ermeneutico come forma di consolidamento dei legami e della specificità dell’azione degli intellettuali quando vogliono essere un gruppo di pressione.

 

Il sociologo in sostanza dunque individua un mutamento lento le cui coordinate di massima sono le stesse che riconoscerà Asor Rosa: il massimo di coincidenza tra intellettualità e prassi, la forza legislativa dell’ideologia concepita come “mondo delle idee” risale all’illuminismo, il punto di massima distanza, la decadenza nell’interpretariato intellettuale coincide con il completo sviluppo della società tardocapitalistica o del socialismo di stato burocratizzato, che per Bauman rappresentano in questo caso due alternative equivalenti. Considerando la data del libro, la seconda di fatto non rappresenta una vera e propria variante quanto, potremmo pensare, un diverso modo per giungere alla prima situazione che, di fatto, non può che essere l’unica.

 

È importante notare qui due aspetti di una qualche rilevanza per la ricerca: il primo è che il pensiero di Bauman è rivolto soprattutto agli intellettuali che agiscono come singoli e con un grande prestigio internazionale: l’ideale di riferimento è certo più un Sartre che un Panzieri o un Solmi, mentre la maggior parte delle figure di cui tratta il volume sceglie di identificarsi in un collettivo più ampio come la rivista, il gruppo di lavoro e, su scala più ampia, le stesse organizzazioni del movimento operaio o, anche quando tende a muoversi in maniera più isolata, si muove in ambiti più ristretti, immagina comunità di referenti e sodali (un Fortini o un Roversi teorizzano questo in diverse forme). Quasi nessuna di queste figure diviene universalmente nota di per sé e elabora o pretende di insegnare una visione del mondo, il loro ciclo di attività resta vincolato (ed è il punto di forza più che il limite) alla specificità della situazione italiana; le sole eccezioni significative, più tarde, riguardano Pasolini e Antonio Negri, o quelle figure (come ad esempio Pizzorno) che si danno all’insegnamento accademico all’estero. C’è invece un altro tipo di notorietà legata al formarsi, soprattutto verso la fine degli anni Sessanta, di un vasto interesse politico e militante intorno a specifici problemi politici ed eventi storici (l’antimperialismo in America Latina, le discriminazioni razziali, la guerra in Vietnam, la Rivoluzione Culturale cinese) che darà una certa riconoscibilità anche ad alcuni gruppi e figure di questa sinistra12 e un po’ prima una momentanea convergenza tra pensatori marxisti francesi, si pensi soprattutto a Gorz, e sinistra sindacale italiana, per cui per un certo periodo si verrà a determinare in Francia un interesse comune circa la classe operaia come fattore e agente politico. Ciò non va a mio parere confuso né con le molteplici declinazioni del postoperaismo, né con la cosiddetta Italian Theory, che è un fenomeno molto più recente e legato semmai al problema delle recinzioni ideali delle scuole di pensiero accademico; se volessimo tornare a Bauman diremmo che siamo con queste ricostruzioni decisamente nel campo dell’intellettuale come interprete.

 

Il secondo aspetto che bisogna tenere presente è che, pur derivando nettamente la sua analisi dalla critica della società postmoderna, Bauman non condivide il pessimismo critico di un Jameson e ritiene che, ad esempio, virtù della nuova figura di intellettuale sia quella di costruire, attraverso il ricorso al dialogo, al confronto e al comune sforzo di comprensione della realtà, una comunità civile parzialmente in grado di spostare i conflitti dal piano della forza a quello della persuasione e della ragione:

 

Parlare con la gente piuttosto che combatterla; capirla anziché respingerla o annientarla come mutanti; rafforzare la propria tradizione attingendo liberamente dall’esperienza di altri ambiti, piuttosto che isolarla nella circolazione delle idee; questo è quanto la stessa tradizione degli intellettuali, costituita da discussioni in corso, prepara a fare bene. […] Non c’è alcun aspirante despota illuminato che ricerchi il parere dei filosofi. Ci sono filosofi che cercano disperatamente di creare comunità, e di sostenerle con il solo potere delle loro argomentazioni. Finora le sole comunità che sono state create in tal modo e realmente mantenute sono state le loro13.

 

A prescindere dal fatto che possa non soddisfarci la possibilità di un “despota illuminato” come alternativa, bisogna riconoscere che l’idea baumaniana di comunità intellettuale ha implicita una certa autoreferenzialità, anche di segno positivo: si tratta di intellettuali che discutono e che non pensano più di parlare da una posizione privilegiata a qualcun altro o per qualcun altro. Così non era ancora ovviamente negli anni 1956-1967 e Hobsbawm ha giustamente evidenziato come, al di là dei singoli casi nazionali, (e di quello italiano ci occuperemo brevemente nel primo capitolo) buona parte dell’attrazione che gli intellettuali hanno provato di fronte al comunismo e alla versione propostane dai partiti derivasse dall’idea di uno stretto nesso tra teoria e pratica in un processo di trasformazione della società, ma, insieme a ciò, come la natura stessa del partito quale veicolo di quella trasformazione fosse qualcosa di collidente con la tradizione intellettuale europea maturata in età moderna e fondata sull’indipendenza di giudizio. Scrive lo storico:

 

Le difficoltà degli intellettuali derivarono in gran parte dalla natura della politica di massa moderna […]. L’attivo aderente a un partito di massa moderno, come il moderno ministro, rinuncia in pratica alla sua indipendenza di giudizio, quali che siano le sue riserve di principio e le prudenze verbali con cui copra il suo innocuo dissenso. O piuttosto nella vita politica moderna non si scelgono volta per volta i metodi e i provvedimenti, ma si sceglie una sola volta, o comunque raramente, fra pacchetti, in cui noi comperiamo la parte sgradevole del contenuto perché non c’è altro modo di ottenere il resto, e comunque non c’è altro modo di ottenere un effetto politico14.

 

È evidente che si tratti di un’interpretazione marcatamente elettoralistica della vita politica, ma è innegabile che colga un nodo problematico essenziale del rapporto tra intellettuali e partito, si tratta di un scambio pesante: da un lato certamente la prospettiva di un contatto con le masse e di una incisività maggiore nella propria attività specifica, dall’altro inevitabilmente una forma di subordinazione di alcune esigenze della ricerca, della teoria e, a volte, anche della morale individuale.

 

Lo scandalo del 1956 con il XX congresso e l’intervento sovietico in Ungheria è già tutto qui, come qui convergono i numerosi e prolungati dibattiti di metà anni Cinquanta sull’organizzazione della cultura. Infatti si tratta di una prospettiva essenziale (persino nel caso in cui la si rifiuti) per comprendere gli avvenimenti e i comportamenti di quegli anni: la storia del 1956-67 è anche storia di continue trattative, contestazioni di linea, fuoriuscite (numerosissime nel caso degli intellettuali dal PCI nel 1956-57) ed entrismi (una parte di «Passato e Presente» nel PSI, una parte di «classe operaia» nel PCI) e persino di dirigenti assai abituati alla forma partito e persino affezionati al proprio che però si autocollocano in posizione marginale (Panzieri ad esempio, ma per certi versi anche Pietro Ingrao).

 

Lo schema di Hobsbawm, nel quale ci pare di potere intravedere una certa coerenza anche a distanza di tempo, non è privo di persuasività e di fascino nella misura in cui rappresenta un tentativo di delineare strutturalmente, oltre che ideologicamente, il mutamento di funzione degli intellettuali e il loro rapporto con l’azione politica. Nel saggio Intellettuali e lotta di classe, scritto nel 1971, e quindi probabilmente anche come tentativo di interpretazione dei movimenti politici degli anni appena trascorsi, scrive: «Ciò che conferisce agli intellettuali certe caratteristiche politiche non è il fatto di esercitare un’attività mentale, in forma indipendente o no, ma il fatto che tale attività si svolga in una particolare situazione sociale»15. Non si tratterebbe dunque di una semplice questione di contenuti ma di funzione nel quadro dello storico: durante gli anni Sessanta la maggior parte delle economie occidentali è in fase espansiva, passando da un’economia della scarsità a una sovrapproduzione di beni, merci e servizi ampiamente in grado di soddisfare i bisogni primari di cittadini a cui è garantito anche un livello senza precedenti di istruzione di massa, che però li immette in una società non in grado di collocarli in un mercato del lavoro e garantire loro una posizione sociale corrispondente al livello di istruzione. Emergono poi una serie di problemi specifici delle società a capitalismo avanzato che non rispondo più solo a necessità materiali: è il grande tema dell’alienazione che farà la sua comparsa teorica e letteraria nel corso degli anni Sessanta.

 

Ciò che sta al di sotto della ripresa rivoluzionaria degli anni Sessanta è in primo luogo la trasformazione tecnologica e sociale che non ha avuto precedenti per rapidità e profondità, e in secondo luogo, la scoperta che la soluzione da parte del capitalismo dei problemi della scarsità materiale rivela, e persino addirittura crea, nuovi problemi (o in termini marxisti “contraddizioni”) che sono centrali per il sistema e forse per ogni società industriale16.

 

Il problema della sovrapproduzione di intellettuali strutturalmente legata alla grande mutazione tecnologica della seconda metà del Novecento ritorna, come non può che essere, anche in scritti più tardi, dove è giustamente connesso alle esigenze di terziarizzazione dell’economia e insieme alla necessità di inserire nella società tramite il lavoro una parte crescente di popolazione non direttamente legata al ciclo produttivo, cosa che, ironicamente, sembra essere anche uno dei fattori che determina il sorgere dello specialismo, della pretesa neutralità della scienza e della diffidenza degli intellettuali tardonovecenteschi verso la stessa partigianeria politica che aveva caratterizzato i loro predecessori.

 

Il fatto che lo sviluppo di queste scienze [umane] sia inseparabile dalla partigianeria al punto che alcune di esse non sarebbero neppure sorte senza questo elemento non può essere seriamente negato. La credenza opposta, ovvero che lo scienziato è semplicemente un cercatore di pure verità accademiche, che possono essere o non essere di qualche interesse per chiunque altro, è presumibile che abbia guadagnato terreno in parte a causa della mera crescita numerica, e quindi della separazione in istituti speciali, della scienza e dei settori di studio professionali, in parte come risposta a una nuova e peculiare situazione sociale degli intellettuali (accademici), in parte per mistificazione. […] Il semplice fatto che gli intellettuali salariati si siano moltiplicati e siano diventati uno strato sociale ha ampliato il divario tra essi e coloro che effettivamente prendono le decisioni politiche ed economiche, e ciò dev’essere stato elemento sufficiente a indurli a considerare se stessi una classe di “esperti” indipendenti17.

 

Di questi processi noi vediamo, nella dozzina d’anni in questione, insieme la preistoria, in cui gli intellettuali sono ancora relativamente pochi fino agli anni Sessanta, la loro distanza con i decisori politici è minima e spesso le due figure coincidono nella formula del dirigente di partito e sindacale, dell’intellettuale organico, del gramsciano specialista e politico, poi i primi sommovimenti ideologici (si pensi all’idea di un Guiducci o un Giolitti per cui la ricerca specialistica dovrebbe essere scevra da condizionamenti politici e la politica stessa diventare scientifica), e anche le ribellioni e le resistenze, come nel neoimpegno del gruppo di «Officina», nella proposta fortiniana del critico come diverso dallo specialista, nel dichiarato eclettismo politicizzato dei «Quaderni Piacentini» o in quella particolare versione che è il rifiuto della scienza “borghese” fatto da «classe operaia», e naturalmente, attraverso i saggi sull’industria culturale e sulla forza lavoro intellettuale, le prime forme di consapevolezza del processo.

 

Le resistenze sono in un primo momento (anni Cinquanta) dirette contro la sussunzione dell’attività di scrittori e intellettuali nel partito quale intelligenza generale, ma a partire dagli anni Sessanta saranno dirette sempre di più a respingere la paventata ed effettiva integrazione dell’attività intellettuale (in questo senso omologa a quella della classe operaia, oggetto di osservazione privilegiato di «Quaderni Rossi» e «classe operaia») nel processo di totalizzazione capitalistica.

 

Ai nostri fini però gli elementi più interessanti della ricostruzione di Hobsbawm sono l’ambiguità della relazione con i partiti e il ruolo relativamente scarso che lo storico affida all’etica e alle convinzioni personali nella formazione di un rivoluzionario, motivo per cui ovviamente gli intellettuali strutturalmente propenderebbero per il socialismo democratico e il riformismo, mentre il movimento operaio sarebbe la forza potenzialmente rivoluzionaria per la sua posizione nel processo produttivo, posizione se si vuole coerentemente marxistica, ma che non tutti gli autori che il volume affronta mostrano di condividere, e infine la novità dei problemi politici a cui il neocapitalismo pone di fronte tanto gli intellettuali quanto gli operai. Riconoscerli tempestivamente, proporli, indagarli e cercare di rovesciarli anche in arma politica deve essere sicuramente riconosciuto come un merito e una funzione storica essenziale svolta dagli intellettuali della Nuova Sinistra in Italia.

 

 

Qualche altra cosa va detta: non bisogna, dopo tutte queste premesse, prendere come pura scienza accademica oggettiva e non politica nemmeno la lettura di Hobsbawm, che, mentre scrive i saggi del ’69 e ’70, analizza la questione degli intellettuali e dei nuovi movimenti di lotta politica dalla prospettiva di un militante del Partito Comunista della Gran Bretagna, fiducioso negli istituti e nelle organizzazioni tradizionali del movimento operaio, seppure rivolto intelligentemente e senza preclusioni alle novità. Nel suo presentare i militanti intellettuali degli anni Sessanta come studenti spiantati che si modererebbero se solo una diversa condizione socioeconomica glielo permettesse risente certo della diffidenza che i comunisti hanno verso le forme di anticapitalismo che non provengano dalla classe operaia, non a caso il saggio è collocato sì nel libro sui rivoluzionari, ma nella sezione intitolata Ribelli e rivoluzione. Nelle parole dello storico riecheggia molto Marx, ovviamente, ma anche molto Gramsci (il Gramsci dei Quaderni che affronta il problema degli intellettuali in rapporto alla classe e al partito trattandoli appunto come uno strato con caratteristiche specifiche, portatore di valori e ideologie che non sempre corrispondono meccanicisticamente alla classe di appartenenza) e infine molta dell’incertezza con cui i comunisti italiani, ai quali lo storico si è sempre dichiarato vicino, affrontano il problema dei nuovi marxismi e delle nuove forme di militanza quale emerge chiaramente dalle relazioni al convegno di studi Il marxismo degli anni Sessanta e la formazione teorico politica delle nuove generazioni18.

 

L’esigenza leninista di una compenetrazione della tattica e della strategia veniva sostituita da una permanente azione eversiva, cui faceva riscontro l’attesa di una catastrofe definitiva. In tale prospettiva il carattere improvvisato (e puramente intellettuale) delle esperienze politiche si sommava ad un atteggiamento per cui le forze giovanili e studentesche si sentivano portatrici di una nuova metodologia dell’azione rivoluzionaria19.

 

Scrive Badaloni in Il marxismo italiano degli anni Sessanta, che di fatto è la lunga relazione introduttiva al convegno, relazione che è molto attenta nel ripercorrere le posizioni della Nuova Sinistra negli anni precedenti al ’68 e a tracciare, pure nelle molte e sottili distinzioni, una linea comune tra queste e le recenti agitazioni di massa, sostanzialmente però accomunandole in una serie di tratti diversamente declinati: volontarismo, abbandono della categoria di mediazione e confusione sulla natura della totalità sociale e storica (quindi necessario antipartitismo), economicismo e, a un livello più alto come quello che viene riconosciuto in genere anche dai comunisti “illuminati” ai «Quaderni Rossi», equivoco tra compiuta totalizzazione dei rapporti capitalistici e massima fase espansiva di un ciclo (il cosiddetto miracolo economico).

 

Non è questa la sede per pronunciarsi sul tenore e la qualità di queste critiche, ma emergerà dal corso della ricostruzione che, soprattutto negli anni della cosiddetta “congiuntura”, il dibattito sull’effettivo stato e sulle tendenze del capitalismo in Italia è stato vivissimo e non privo di ricadute ideologiche, politiche ed estetiche, non solo sui tecnici o sui gruppi militanti, ma anche nell’opera di scrittori relativamente lontani dalle dispute filosofiche o economiche.

 

Il punto a mio parere meno felicemente risolto del disegno di Hobsbawm, o che in ogni caso fa ben risaltare l’alta significatività di un momento come quello che il volume prova a ricostruire in alcuni aspetti e protagonisti, sta piuttosto nell’aver legato strettamente la partecipazione intellettuale alla lotta di classe alla disoccupazione, non nel senso che ciò non sia plausibile, è anzi in una certa misura oggettivo, ma nel senso che, se si retrocede appunto all’inizio degli anni Sessanta, una partecipazione intellettuale alla lotta di classe esiste, anche se certo incomparabilmente ridotta nei numeri, in un periodo di costante calo della disoccupazione e in cui ci si avvicina a raggiungere il pieno impiego (nel ’63 la disoccupazione è al 4%, minimo storico negli ultimi sessant’anni, la creazione di una sacca di disoccupazione strutturale per bilanciare gli aumenti salariali e ridurre la forza di pressione dei lavoratori comincia proprio in quegli anni, ma è storia di un altro periodo)20. Ci si potrà semmai chiedere se sia avvenuta in maniera diversa e in forme specifiche (tra le quali una, obliqua, potrebbe anche essere proprio la connessione di una rete di riviste) e, spostando un po’ il fuoco dagli intellettuali a un discorso più generale, in quale modo gruppi e singole personalità di una politica e una cultura ancora non separatamente specializzate abbiano affrontato la lotta in una stagione che non era di crisi, ma di sviluppo impetuoso: l’Italia del miracolo economico è stata soprattutto un campo di conflitti.

 

Per affezione, ma anche per dare un esempio palpabile di come si stia facendo critica letteraria, di come tutto questo debba necessariamente essere tenuto presente e indagato se non si vuole parlare di letteratura appoggiando i testi sul vuoto, voglio citare qui una poesia di quegli anni di Giovanni Giudici:

 

Dal cuore del miracolo

 

Parlo di me, dal cuore del miracolo:

la mia colpa sociale è di non ridere,

di non commuovermi al momento giusto.

E intanto muoio, per aspettare a vivere.

 

Il rancore è di chi non ha speranza:

dunque è pietà di me che mi fa credere

essere altrove una vita più vera?

Già piegato, presumo di non cedere21.

 

È anche perché testi di alto livello letterario come questo tornino a parlare in modo ricco e vivo ai critici e ai lettori che questo mio lavoro è stato pensato.

 

III

 

L’oggetto di questa ricerca è dunque l’intreccio di posizioni estetiche, politiche e teoriche che i vari gruppi e intellettuali di sinistra in Italia hanno espresso grossomodo tra la metà degli anni Cinquanta e fino alle soglie della nuova ondata di lotte politiche di fine anni Sessanta. Le riviste assumono dunque la funzione di collettore primario sia perché sono in buona parte la sede editoriale effettiva (almeno in prima istanza) degli scritti di questi autori, sia perché in quasi tutti i casi esaminati costituiscono anche strumento privilegiato di relazioni intellettuali e di costituzione di gruppi di pressione e di intervento politico.

 

Non si tratta però solo di riviste giacché, come giustamente riconosceva Hobsbawm, in quella fase del Novecento sussisteva un rapporto privilegiato e insieme molto conflittuale tra intellettuali e partiti di sinistra, conflitto in cui, specie in un contesto come quello italiano di altissima politicizzazione della vita sociale e culturale, i partiti stessi sono stati istituti produttori di cultura, relazioni, ideologie e visioni del mondo, nonché ovviamente attori della storia collettiva; parte del volume dunque rilegge quei testi (che non erano certo privi di referenti specifici) alla luce di questa dinamica.

 

In qualche caso ci si è soffermati su singoli autori o singoli specifici libri, sia perché inevitabilmente una storia intellettuale, letteraria e politica che voglia essere attenta anche alla dimensione testuale non può non essere anche storia di testi e di autori, sia perché molti di questi libri sono stati insieme molto fortunati, come Operai e capitale o Scrittori e popolo, e molto tipici, molto in grado cioè, per le questioni che presentano, di rispecchiare i problemi, la cultura, i riferimenti e le possibili scelte di un intellettuale di sinistra in quel periodo. Si pensi ad esempio a Socialismo e verità o a Dieci inverni, e in moltissimi casi, da Passione e Ideologia, a Verifica dei poteri, ai saggi di Asor Rosa, di Roversi, di Giudici, di Scalia in grado anche di incidere sul dibattito letterario e sulla storia delle critica successiva.

 

Per essere ancora più specifici potremmo dire che il centro, e quindi anche il criterio che ha guidato la scelta tra un numero vastissimo di testate e di intellettuali, è stato l’affermarsi di quelle posizioni politiche e teoriche che vanno sotto il nome di Nuova Sinistra (in opposizione alla sinistra delle organizzazioni storiche del movimento operaio) e che in Italia, in questa fase storica, derivano principalmente dalle due sinistre dei due partiti socialista e comunista (con una netta prevalenza del primo) e dal vario mondo di intellettuali gravitanti intorno ai partiti, ma fuoriusciti dopo il complicato biennio 1956-1957. Si vedrà che, per ragioni in parte contingenti in parte strutturali, non di rado un importante punto di incontro di queste tendenze è stato il terreno sindacale.

 

Le riviste a cui è stato riservato maggiore spazio, in ragione del quadro, ma anche della necessità di dover selezionare in un materiale vastissimo la porzione più rappresentativa e maneggiabile da una persona sola, sono «Ragionamenti», «Officina», «Quaderni Rossi», «classe operaia» e «Quaderni Piacentini». Molte altre sono ricordate soprattutto in rapporto a queste, in occasioni di collaborazione o scontro, come si può vedere infatti restano escluse sia le molte riviste esplicitamente collegate ai partiti sia quelle esclusivamente letterarie. La scelta di includere «Officina» e escludere «Il menabò», forse quella più difficile da fare, risiede nella seguente distinzione: «Officina» comincia nel 1955 e si chiude nel 1959, il che significa che attraversa in pieno i sommovimenti politici e intellettuali del 1956 e, naturalmente, vi se ne trova traccia; è senz’altro una rivista di letteratura, ma legata al clima del disgelo, della coesistenza e alla difficile elaborazione dello statuto anche politico del letterato. Produrre una rivista come «Il menabò» con il sottotitolo «di letteratura» dal 1959 al 1967 significa un’altra cosa; vuol dire semmai rivendicare una specificità anche professionale, un ritorno alla letteratura e un occuparsi della società anzitutto da scrittore, cioè instaurando con essa un rapporto di tipo al massimo descrittivo e narrativo, come appare evidente nel dibattito su letteratura e industria analizzato verso la fine del volume, nonché il carattere prevalentemente estetico-conoscitivo della sfida che lo scrittore del «menabò» einaudiano lancia al calviniano labirinto, ma in quegli anni ben altri modelli erano disponibili e praticati: pur con il suo carico di estetismo e romanticismo sottotraccia, un articolo come il Marxisants di Pasolini non avrebbe potuto trovare posto nel «menabò».

 

Per la stessa necessità di articolazione e anche per la maggiore visibilità (che non si deve però intendere come maggiore significatività in assoluto), alcune figure, ferma restando la natura collettiva della formazione di due generazioni di intellettuali militanti, emergono più di altre nella ricostruzione: ad esempio Panzieri, Guiducci, Fortini, Asor Rosa, Tronti, ma anche Solmi o Masi. Una delle ragioni è che alcuni di loro sono stati grandi costruttori (o all’occorrenza distruttori significativi) di aggregazioni intellettuali e grandi organizzatori del lavoro culturale, altri sono stati grandi mediatori di fonti, culture e relazioni che hanno realizzato quella sprovincializzazione della cultura e della vita politica italiana che è un desiderio diffuso e molto spesso esplicitato dagli intellettuali e dai politici più accorti della sinistra.

 

L’esposizione è dunque divisa in due parti: la prima comprendente il periodo 1956-1959, la seconda il periodo 1960-1967. Naturalmente si tratta di una partizione non ferrea, ma fondata comunque su qualche elemento: la diversa cronologia delle maggiori riviste in questione, che sono tutte o chiuse entro l’arco degli anni Cinquanta o nate negli anni Sessanta, la maturazione (o meglio l’uscita dall’adolescenza) della generazione di intellettuali che fonderanno e animeranno le riviste dei primi anni Sessanta, che sono tutti quasi tutti nati negli anni Trenta (e anche a questo bisogna stare attenti io credo: a non sottovalutare il fatto, portati come siamo spesso a fare a considerare i libri e gli scritti più di chi li scrive, che siamo di fronte in buona parte non all’elaborazione di scrittori e professori di mezza età, ma di giovani studenti, ricercatori e militanti; sotto questo aspetto è interessante ad esempio la relazione di un Fortini, non anziano, ma nemmeno più giovane, con i «Quaderni Rossi» e i «Quaderni Piacentini») e infine la prima manifestazione massiva nel 1960 di quella ripresa delle lotte operaie che interesserà tutto il decennio e che è la vera ragione di nascita delle riviste, altre sono importanti ma oggettivamente secondarie.

 

In entrambe le parti si alternano dunque capitoli di ricostruzione storica e culturale in cui ho cercato di rendere conto di una pluralità di posizioni di fronte a eventi o problemi storici, sociali, politici e ideologici e di cultura generale (parte prima I, II, VI, VII e parte seconda, III e IV) a capitoli dedicati a singole riviste (parte prima III e V e parte seconda I, II, V) o a singoli libri e figure (parte prima IV, parte seconda VI e VII). Non è una distinzione netta e, anche nei capitoli più vicini alla pratica del cosiddetto close reading, ho cercato di far prevalere una visione d’insieme che individuasse lo snodarsi di linee maggioritarie e caratterizzanti di libri e di riviste e di porle in relazione col tempo piuttosto che documentare ogni articolo pagina per pagina. Del resto sono sempre stato d’accordo con quanto è stato scritto da Asor Rosa proprio quando “a caldo” gli venne proposto, per «classe operaia», di partecipare a un’inchiesta per un campionario delle riviste militanti promosso da «Nuovo Impegno» per sondare le possibilità di costituire un gruppo politico-elettorale:

 

Su di un lavoro del genere si potrebbe esaurire un’intera vita e, francamente, credo non ne valga la pena. Anche in questo campo bisogna saper scegliere: e, possibilmente, scegliere prima di aver sprecato il proprio tempo ad analizzare e a giudicare. Importante non è leggere tutto, ma leggere quello che merita di essere letto, e leggerlo bene. Gli “amatori” del genere, che nelle loro biblioteche conservano le ordinate collezioni delle riviste minoritarie e attraverso di esse risultano in grado di fornire una casistica completa dei vari gradi presenti di “spirito rivoluzionario” ci sono sempre sembrati o personaggi da operetta o malinconiche vestali dell’idea che si ribella22.

 

Esiste, per venire a una nota sulla bibliografia, una discreta tradizione, in genere di taglio più nettamente politico e storico che letterario, anche per le ragioni che ho ricordato all’inizio, che ho naturalmente utilizzato e tenuto presente. Escludendo i moltissimi titoli monografici su singoli autori (che ho, in forza della natura dell’analisi, utilizzato solo occasionalmente e in luoghi specifici), potremmo dividere la tipologia di contributi in due grandi aree: anzitutto le ricostruzioni, i bilanci e i libri scritti a caldo, cioè nel decennio seguente e che spesso hanno un marcato intento di interpretazione pratico-politica e sono scritti da militanti di organizzazioni, gruppi o partiti: ad esempio il libro di Attilio Mangano Origini della Nuova Sinistra: le riviste degli anni Sessanta23 (seguito vent’anni dopo da Le culture del ’68 e le riviste degli anni Sessanta)24, il libro di Valerio Strinati, Politica e cultura nel Partito Socialista (1945-1978)25, l’antologia critica di Giuseppe Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano26, il numero della rivista «Classe» dedicato alle riviste27, la Storia delle nuove sinistre in Europa di Massimo Teodori28, la corposa schedatura bibliografica di Giovanni Bechelloni, dedicata nel 1973 alle pubblicazioni di alcuni gruppi29, Cultura e ideologia nella Nuova Sinistra, Un secondo gruppo è costituito da opere che a partire dalla fine del secolo e poi in questi anni (fino al recente, ironicamente con un titolo “attendista”, Aspettando il Sessantotto, miscellanea di saggi storici e sulle culture politiche italiane che ha punti di tangenza con il presente lavoro)30 hanno riletto quegli avvenimenti e quelle figure, in genere con una attenzione volta criticamente ad approfondire anche il rapporto con i partiti; alcuni esempi: gli studi di Nello Ajello su intellettuali e PCI31, il libro di Mariamargherita Scotti (che è forse il più filologicamente documentato) su intellettuali e PSI32, L’Italia contesa di Giuseppe Vacca33, la Storia del miracolo economico di Guido Crainz34. Con queste opere soprattutto ho implicitamente o esplicitamente dialogato nel concepire l’impostazione del discorso e, talora, la lettura dei testi. Uno strumento fondamentale, pur nella sua assoluta parzialità, per ricostruire alcuni degli scambi e dei rapporti epistolari che necessariamente rappresentano la parte sommersa, ma decisamente maggiore, del lavoro dei gruppi (perché bisogna ricordare in ogni caso che la rivista è sempre un mezzo per l’azione e mai un fine in sé) è la raccolta di testimonianze organizzata intorno all’archivio personale di Tronti e pubblicata come L’operaismo degli anni Sessanta35. Il lavoro, di per sé imponente, pare in qualche modo però orientato a stabilire una filiazione diretta tra le elaborazioni delle riviste dei primi anni Sessanta e una certa teologia politica che risulta dalla teorizzazione dell’autonomia del politico, ma questa sembra solo una delle molte possibili declinazioni della teoria e non necessariamente quella che di quegli anni e di quelle esperienze ha tenuto in conto anche la pratica insieme alle formulazioni. Tra le testimonianze un certo rilievo, per la presenza in diversi momenti attiva di entrambe le figure, occupano anche l’epistolario di Panzieri36 e quello (dato per piccole antologie unite a testimonianze dalla rivista «L’ospite ingrato») di Fortini. Del resto comunque, rispetto alla bibliografia secondaria, ho preferito, anche da studioso di letteratura, fare, come si dice, parlare i testi e privilegiare quale sostegno argomentativo le citazioni dirette piuttosto che la sequela delle interpretazioni.

 

Fanno naturalmente eccezione le interpretazioni successive che si caricano di una marcata valenza teorica, estetica, storica e politica, come sono quelle già ricordate ad opera di studiosi vicini al PCI, ma anche di protagonisti della stagione successiva come Luperini o il gruppo di «Classe» e naturalmente il vario e vasto dibattito successivo cui nella quasi totalità dei casi gli autori trattati partecipano, ritornando spessissimo sulle proprie posizioni. A questo dialogo (che sta a metà tra storia della critica, storia della ricezione e storia della politica e della letteratura successiva) è dedicato ampio spazio nelle note.

 

Alcune brevi notazioni terminologiche credo siano necessarie: ho cercato di evitare l’uso indiscriminato del termine operaismo che spesso si fa nel dibattito teorico sia per difenderlo che per elogiarlo; dove l’ho usato non come citazione significa specificatamente una certa teorizzazione dell’ultima fase di «classe operaia», oppure si richiama a quei movimenti posteriori che si autodefiniscono tali. Nell’epoca presa in considerazione (ma io sarei propenso a dire praticamente fino alla scolasticizzazione delle tradizioni marxiste) operaismo è un difetto critico, simile in questo a economicismo, culturalismo, sinistrismo etc. ed è, a voler essere specifici, l’errore gemello e contrario del populismo. A riprova del fatto lo si incontra spessissimo nella pubblicistica denigratoria delle posizioni di «Quaderni Rossi» e «classe operaia» e viene veementemente respinto nelle repliche degli interessati (a prescindere dalle tardive riappropriazioni). Ho invece fatto un uso consapevolmente largo dell’espressione Nuova Sinistra, a volte anche per designare un gruppo assai eterogeneo di posizioni non necessariamente affini tra loro. Tre strade in questo senso erano possibili: una di tipo culturale che trae origine dalla New Left inglese degli anni Sessanta e in particolar modo dall’esperienza della «New Left Review» e dall’influenza del sociologo Charles Wright Mills, autore di una Letter to the new Left; una seconda possibilità è quella di raccogliere sotto questo termine una varietà di movimenti e gruppi formatisi in Italia tra la seconda metà degli anni Sessanta e la fine degli anni Settanta, poi confluiti nel gruppo della Nuova Sinistra Unita (prova manifesta del fatto che i componenti tendevano a identificarsi come parte della Nuova Sinistra), ed è in genere il criterio che viene usato in Italia e negli studi più storico-politici; la terza possibilità, che come si intuisce dallo stesso titolo è quella che preferisco, è data da Teodori e mi sembra in parte ricomprendere le altre due. Lo storico fa infatti cominciare la sua storia delle nuove sinistre (giustamente al plurale) proprio dai gruppi e dai movimenti che in Europa si formano a partire dalla vicende del 1956, il che implicitamente significa che queste esperienze hanno un rapporto con i movimenti successivi, ma anche con la sinistra tradizionale formatasi e strutturatasi nella prima metà del secolo (il nuovo definisce se stesso dialetticamente rispetto al vecchio non rispetto alla sua propria interna coerenza o alla sua continuità). Per questa ragione ogni volta che in qualche modo si avverte l’elaborazione di un dissenso (che può anche essere interno) o di una differenza non solo individuale rispetto alle organizzazioni tradizionali ho ritenuto di poter parlare di Nuova Sinistra.

 

Infine è opinione ormai diffusa che il Sessantotto non sia stato solo una momentanea esplosione, ma parte di un processo di ridefinizione e pratica della lotta politica e sociale che, almeno nel nostro paese, ha una durata molto lunga e che comincia appunto con la ripresa della conflittualità operaia degli anni Sessanta. L’espressione “lungo Sessantotto” è in questo senso usata nella memorialistica politica e nella storiografia con pari efficacia da Lucio Magri37 e da Aldo Agosti38 e da lì ripresa. La stessa consapevolezza di aver anticipato e persino in qualche modo preparato gli eventi del ’68-’69 doveva appartenere a molti protagonisti della stagione delle riviste, si veda la testimonianza parigina dell’84 di Fortini: «La nostra opposizione, antistaliniana e contraria al compromesso democratico che “Ragionamenti” aveva contribuito a interpretare, diventerà quella dei gruppuscoli e delle piccole riviste, che a partire dalla fine degli anni Cinquanta prepareranno il nostro Maggio, così diverso da quello parigino, e dalle conseguenze ben più tragiche, fino ai giorni nostri»39.

 

Avrei voluto avere il piacere di ringraziare di persona Giovanni Mottura, che ha seguito finché ha potuto la stesura del volume e ne ha visto almeno una prima versione, per avermi aiutato resistendo pazientemente a tutte le mie libresche domande sui «Quaderni Rossi» e spingendomi invece a valutare aspetti come l’importanza della traduzione e assimilazione di Barth e della teologia negativa, la pregnanza politica dell’inchiesta, la rilevanza di una figura quale Edoarda Masi nel mediare una realtà come la costruzione del socialismo in Cina e la Rivoluzione Culturale cinese: non significa diventare accademici maoisti ma ricordarsi, almeno ogni tanto, che di fronte a mutamenti sociali, culturali e che riguardano la vita produttiva e civile di un miliardo di persone (per fermarsi alla sola Cina) le dispute sugli editoriali devono non essere ingigantite da una cattiva prospettiva.

 

Queste pagine sono dedicate alla memoria sua, di Maurizio Pulici, Valerio Rambaldi e Lorenzo Vincenzi, i cui nomi non si trovano nella bibliografia, ma senza il cui ammaestramento non avrei potuto scriverle.

Simili maestri non chiedono alle conoscenze di essere all’altezza di un buon libro, ma alle idee di essere all’altezza del mondo.

 

Arrivarono in corsa gridando:

‒ Il comunista non muore!

Non è mai successo che un uomo potesse non morire.

Solamente il ricordo sopravvive,

e più vale un uomo più grande è il dolore.

(Adam Wazyk)

 

Note

1 Si potrebbe qui citare, anche se non come ipotesi risolutiva, perché resta da vedere fino a che punto si viva in quel tipo di società culturale ancora oggi, la classica tesi di Jameson sulla scomparsa del senso storico come caratteristica del postmodernismo: «Postmodernism is what you have when the modernization process is complete and nature is gone for good […] it’s hard to discuss “postmodernism theory” in any general way without having recourse to the matter of historical deafness […] “modernist history” is the first casualty and mysterious absence of the postmodern period». F. Jameson, Postmodernism or the cultural logic of late capitalism, Durham, Duke University Press, 1991, pp. X-XII.

2 Id., The political UnconsciousNarrative as a socially symbolic act, London, Routledge, 20022.

3 E. Hobsbawm, De HistoriaSaggi, Milano, Rizzoli, 1997, p. 167.

4 A riprova di quanto sia rischioso cercare, sia pure su basi o intenti credibili, di giocare Fortini contro Fortini, bisognerebbe rammemorare più di frequente il passo «bisognerebbe vedere non soltanto che il discorso poetico è altro da quello pratico-politico, ma che il primo non negherà né distruggerà un bel nulla in quanto tale, in quanto discorso poetico e artistico e che anzi tutte le sue tormentose e ironiche negazioni si comporranno in una forma, nell’odiata e inevitabile “opera”», F. Fortini, Avanguardia e mediazione, in Saggi ed epigrammi, Milano, Mondadori, 2003, p. 93.

T. W. Adorno, Il saggio come forma, in Note per la letteratura 1943-1961, Torino, Einaudi, 1979, pp. 5-31.

6 Esiste invece naturalmente anche una pubblicistica che non è equivalente alla monografia sul singolo autore o gruppo e che non è però nemmeno una storia: è la forma del medaglione di autori che, almeno in parte, ha contribuito a creare una tradizione interna al canone per questa saggistica di tipo umanistico-politico, come ad esempio G. Muraca A. Mangano, L’altra linea. Fortini, Bosio, Montaldi, Panzieri e la nuova sinistra, Catanzaro, Pullano editori, 1992 e M. Marchesini, Soli e civili. Savinio, Noventa, Fortini, Bianciardi, Bellocchio, Roma, Edizioni dell’Asino, 2012.

7 A. Asor Rosa, Il grande silenzio. Intervista sugli intellettuali, Roma-Bari, Laterza, 2009.

8 Ibid., p. 4.

9 E. Masi, Intervista a Edoarda Masi, in «Kamen’ Rivista di poesia e filosofia», A. XIII, 23 (2004), pp. 36-47.

10 Sistema periodico, il secolo interminabile delle riviste, (a cura di F. Bortolotto E. Fuochi D. A. Paone F. Parodi), Bologna, Pendragon, 2018.

11 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali. Da legislatori a interpreti, Torino, Bollati Boringhieri, 1992.

12 Ne può essere un segno la presenza dei nomi di Mottura, Masi, Rossanda accanto a quelli di Sartre e Gorz in un volume argentino a cura della rivista «Pasado y Presente»: Teoria marxista del partido politico, Buenos Aires, Cuadernos de pasado y presente, 1987.

13 Z. Bauman, La decadenza degli intellettuali, cit., pp. 169-170.

14 E. Hobsbawm, Gli intellettuali e il comunismo, in I rivoluzionari, Torino, Einaudi, 20022, p. 33.

15 Id., Gli intellettuali e la lotta di classe, in I rivoluzionari, cit., p. 296.

16 Ibid., p. 318

17 Id., De Historia, cit., p. 162.

18 Cfr. Il marxismo degli anni Sessanta e la formazione teorico politica delle nuove generazioni, (a cura dell’Istituto Gramsci), Roma, Editori Riuniti, 1972.

19 N. Badaloni, Il marxismo italiano degli anni Sessanta, Roma, Editori Riuniti, 1971, p. 73.

20 https://www.istat.it/60annidieuropa/lavoro.html.

21 G. Giudici, I versi della vita, Milano, Mondadori, 2006, p. 49.

22 A. Asor Rosa, Critica del gruppo, in Intellettuali e classe operaiaSaggi sulle forme di uno storico conflitto e di una possibile alleanza, Firenze, La Nuova Italia, 1973, p. 78. 23 A. Mangano, Origini della Nuova Sinistra: le riviste degli anni Sessanta, Messina, D’Anna, 1979.

24 A. Mangano A. Schina, Le culture del ’68 e le riviste degli anni Sessanta, Bolsena, Massari, 1998.

25 V. Strinati, Politica e cultura nel Partito Socialista (1945-1978), Napoli, Liguori, 1983.

26 G. Vacca, Politica e teoria nel marxismo italiano1959-1969. Antologia critica, Bari, De Donato, 1972.

27 Gli anni delle riviste (1955-1969) come «Classe», A. XI, 17 (1980).

28 M. Teodori, Storia delle nuove sinistre in Europa, Bologna, Il Mulino, 1976.

29 Cultura e ideologia nella Nuova Sinistra, (a cura di G. Bechelloni), Roma-Ivrea, Edizioni di Comunità, 1973.

30 Aspettando il Sessantotto. Continuità e fratture nelle culture politiche italiane dal 1956 al 1968, (a cura di F. Chiarotto), Firenze, Academia University Press, 2020. 31 N. Ajello, Intellettuali e PCI. 1944-1958, Roma-Bari, Laterza, 19972 e N. Ajello, Il lungo addio. Intellettuali e PCI dal 1958 al 1991, Roma-Bari, Laterza, 1997.

32 M. Scotti, Da sinistraIntellettuali. Partito Socialista Italiano e organizzazione della cultura (1953-1960), Roma, Ediesse, 2011.

33 G. Vacca, L’Italia Contesa. Comunisti e democristiani nel lungo dopoguerra (1943-1978), Venezia, Marsilio, 2019.

34 G. Crainz, Storia del miracolo italiano, Roma, Donzelli, 20002.

35 L’operaismo degli anni Sessanta da «Quaderni Rossi» a «classe operaia», (a cura di G. Trotta e F. Milana), Roma, DeriveApprodi, 2008.

36 R. Panzieri, Lettere 1940-1964, Venezia, Marsilio, 1984.

37 L. Magri, Il sarto di Ulm. Una possibile storia del PCI, Milano, Il Saggiatore, 2009.

38 A. Agosti, Il partito provvisorio: storia del PSIUP nel lungo Sessantotto italiano, Roma Bari, Laterza, 2013.


Nessun commento:

Posta un commento