Roberto
Barzanti, Colli,
sapienza discorsiva degli antichi e vissuto
il manifesto, 8 dicembre 2024
Si formò a
Lucca, nel Liceo Machiavelli, un affiatato gruppo di studenti che non hanno mai
dimenticato quella singolare frequentazione e gli anni tragici in cui si
consolidò: dal crollo del fascismo alla fine della guerra, agli albori della
Repubblica. Tre di loro – Mario Mirri in testa, Renzo Sabbatini e Luigi
Imbasciati – organizzarono un convegno nell’ottobre 1997 e ne raccolsero
testimonianze poi riunite in un volume (L’impegno di una generazione,
FrancoAngeli 2014) che non si esauriva in commosse evocazioni.
Dedicato a
quattro indimenticabili compagni scomparsi (Fausto Codino, Giorgio Giorgetti,
Mazzino Montinari e Angelo Pasquinelli), vi era delineato il clima di febbrili
giorni roventi, l’animosità delle discussioni che s’intrecciarono, le scelte di
studio che per i più sarebbero proseguite alla Normale di Pisa.
Il maestro
attorno a cui il cenacolo si coagulò fu Giorgio Colli (1917-1979), che irruppe
in quelle aule come insegnante di storia e filosofia nell’anno scolastico
1942-’43. Aveva frequentato a Torino il Liceo D’Azeglio, proveniva da una
famiglia altolocata che lo spinse a iscriversi alla Facoltà di Giurisprudenza,
dove si laureò con Gioele Solari discutendo una tesi sullo sviluppo del
pensiero politico di Platone. Era in lui talmente forte l’attrazione per il
pensiero platonico che, quando uscì dal liceo, ne aveva già tradotto per suo
conto tutti i dialoghi. Approdò, dunque, al Liceo classico lucchese nel ’42 e
vi tenne cattedra fino al ’48, se ne allontanò nel biennio ’44-’45 per evitare
la chiamata alle armi della Repubblica di Salò e le insidiose rappresaglie
naziste. Fuggì in Svizzera e si rifugiò a Lugano.
Il libro
edito da Neri Pozza sotto il titolo Interiorità ed espressione («la
quarta prosa», pp. 202, € 24,00), magistralmente curato da Maicol Cutrì e Luca
Torrente, tra le numerose pagine di appunti, frammenti, taccuini, abbozzi di
progetti, brani diaristici risalenti a due periodi, il primo agli anni
universitari torinesi (1935-1939), un secondo alla residenza lucchese
(1943-1948), contiene, a conclusione, i Taccuini dell’esilio,
vergati a partire dalla fuga. Iniziano il 14 aprile del ’44 e, in una prosa fratta,
scandita in brevi contratte frasi, racconta l’avventura del triste viaggio. È
tra le sezioni più compatte di un’opera zibaldonica, che alterna riflessioni
ideali e dettagliate proposte editoriali, mischiando il vissuto con il pensato,
ciò che sconvolgeva Colli nell’intimo e le forme che il tormento psicologico
avrebbero potuto assumere nell’espressione da esplicitare. In nuce ci
sono il pudico stile caratteriale e l’inquieto tema principe di «uno dei
maestri – afferma Giorgio Agamben, direttore della coinvolgente collana in cui
esce questo prezioso lascito – della cultura italiana del Novecento» e
consentono di capire fin dall’insorgere le ragioni per le quali Colli è restato
in ombra e ha conseguito un decisivo ascolto internazionale nelle vesti di
innovatore filologo e organizzatore di memorabili imprese, prima fra tutte
l’edizione critica delle opere di Friedrich Nietzsche in collaborazione con
Mazzino Montinari (1928-1986), geniale allievo, conosciuto sedicenne nel
fervido periodo lucchese. Da sottolineare che il titolo del volume è tratto da
una formula elaborata quale introduzione a un libro progettato (forse) nel
1941: «Filologia = interiorità ed espressione».
In data 3
aprile 1937 Colli annota: «Scopo della mia vita: voler trasfigurare, creare,
dare un senso ad ogni istante della mia esistenza, sì da viverlo nel modo più
nobile, più alto, più bello». Alla tensione mistica dell’interiorità fa
riscontro la difficile espressione aperta. Questo era il nodo da sciogliere. E
si badi che la categoria «espressione» è impiegata da Colli non nella sua
accezione semplice, presente tra gli altri in Leibniz, ma per alludere alla
sapienza discorsiva degli antichi, relegati dalla storiografia nel recinto dei
Presocratici. Il fine più rilevante da conquistare è manifestare la
sapienza che la modernità non sa più praticare. E non è trasmissibile in una
raggrinzita scrittura. L’itinerario che sottende la larga filologia di Colli è
un andare all’indietro, fino alle scaturigini della grecità. Nella sua attività
editoriale e nel lavoro di traduttore il sistema filosofico coltivato forniva
un quadro di riferimenti sintetizzati in frammenti che s’inoltrano nelle età
più lontane. Se la memoria serba qualcosa dei secoli più distanti o ignoti o
malamente idealizzati: «il mondo quale si presenta ai nostri occhi – si legge
in Filosofia dell’espressione (1969) –, in generale e in ogni
configurazione particolare, è dunque, come sostanza, un’espressione di qualcosa
di ignoto».
L’ammirazione
per Platone che accetta la sfida del governare è in sintonia con lo scetticismo
di fronte all’azione politica avvertito dolorosamente da Colli. Nel Diario del
’44 si rinvengono righe che danno la misura di un’aspirazione che liberi da
contrapposizioni falsificanti: «Ora – scrive il 25 luglio 1944 – la tragedia
sta per finire. La vita nuova comincia. Ma abbiamo perso la guerra – la più
nefasta (…) Non si tratta di programmi politici, si tratta di acquistare una
maturità politica. I giovani devono costruire ma sono stati male educati dal
Fascismo. Non ci si deve gettare dietro bandiere ma pensare, e giudicare teorie
e uomini per scegliere liberamente una strada politica. Si parla molto di
comunismo e non si sa bene cosa sia. Così del liberalismo». I modelli non
dovranno più essere Roma e Napoleone. Basta con l’imperialismo e il
nazionalismo. E quanti fulminei spunti o volitivi scatti sono disseminati in
queste inedite carte! Per certi versi completano i quaderni postumi stesi tra
il ’55 e il ’77, editi a cura del figlio Enrico quasi a inaugurazione della
«Biblioteca Filosofica» Adelphi (La ragione errabonda, 1982).
Si sa che il
grandioso monumento dell’opera omnia di Nietzsche non andò in porto
per l’Einaudi a causa dell’ostilità storicistica perseguita con pervicace
insistenza da Delio Cantimori. Si temeva che far uscire una tale serie gettasse
un’ombra sulla linea di netta rottura col fascismo e con l’impronta
storicistica trionfante. Così fu Paolo Boringhieri, d’intesa con Luciano Foà, a
far propria una proposta che prestava il fianco a essere accolta come un
ambiguo omaggio a un autore usato dai totalitarismi di Hitler e Mussolini come
una sorta di giustificazione della loro ansia di potenza. Così la Boringhieri,
formalmente fondata nel 1957 da scissionisti einaudiani, fu la nuova casa di
Giorgio Colli. E l’Adelphi si sarebbe aggiunta per stampare o ristampare in
libelli della «Piccola Biblioteca» i saggi di Colli, fin dalle sortite
giovanili. È il caso del Platone politico, scritto nella primavere
del ’37, apparso nel ’39 e ora in libreria nell’edizione 2007 con una nota che
espone minutamente l’insieme di materiali che vi sono confluiti. La sconfitta
subita condusse Platone a una postura aristocratica. L’amore della patria non
doveva dar luogo a un licenzioso populismo, a una deprecabile oclocrazia, cioè
allo scomposto e anarcoide dominio della moltitudine. Le più intime convinzioni
etiche ed estetiche dovevano essere salvaguardate anche se ciò avesse implicato
un silenzioso ritiro dall’agone. Democrazia non poteva significare adeguamento
ai corrivi luoghi comuni.
Colli
indossa davvero le vesti di un discepolo dei sapienti greci, sbattuto secoli
dopo, in un’arena affollata di demagoghi. «L’oclocrazia marxista – annotò – si
riduce in estrema analisi a una ristretta oligarchia tirannica che agisce in
nome dei molti». È un Colli liberale che medita e non sa se sia utile o
letteraria evasione rivolgersi a un popolo che non ascolta. L’espressione
desiderata si affidava a una filologia che puntava a offrire la nuda ed esatta
parola dei classici senza sovraccaricarli di soffocanti e tendenziose
forzature.
Con i suoi
novanta titoli la boringheriana «Enciclopedia di autori classici» (1958-1967,
ma di fatto morì nel ’65) è stata un capolavoro. Ci fu chi la liquidò
osservando che molti di quei testi erano letture amate da Nietzsche. La
preferenza era piuttosto accordata a spiriti libertini, ad autori antidogmatici
e a testi orientali. Da una cattedra immaginaria Colli continuava a impartire
la sua imperturbabile lezione. E chiamava alla ribalta Voltaire e Pascal, Hume
e Burckhardt, Leopardi e il Canone buddistico, Le parole segrete di Gesù e i
Discorsi di Ermete Trismegisto. La rinascita della grande filosofia era per
Giorgio Colli legata al nome di Schopenhauer. Assurdo liquidarla con
l’etichetta di irrazionalismo: «in realtà – folgorante sentenza epigrammatica
del 1961 – non è altro che una teoria della ragione che contesta la supremazia
della ragione».
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