05 dicembre 2011

LA MANIPOLAZIONE DELLE PAROLE

Vista la frequenza con cui nella vita d’ogni giorno vengono manipolate le parole, svuotandole dal loro originario significato, mi pare utile riproporre la lettura del libro di Gianrico Carofiglio, La manomissione delle parole, pubblicato da Rizzoli l’anno scorso.
Il saggio è nato quasi per gioco ed è cresciuto via via, come afferma lo stesso autore (pp. 145-146), grazie soprattutto al contributo di una giovane ricercatrice di filologia classica, Margherita Losacco, che meritava di figurare come coautrice, non essendosi limitata a curare la puntuale nota bibliografica con cui si chiude il volume.
Carofiglio sostiene che le parole hanno perduto il loro originario significato soprattutto perché manomesse dagli uomini che detengono il potere. La tesi si dipana in dieci brevi capitoli che, oltre ad evidenziare la potenza creatrice delle parole, svelano gli abusi che derivano dalla loro manipolazione.
L’esperienza nella magistratura ha condotto l’autore a toccare con mano, nei processi, come sia facile manomettere le parole e a dimenticare che, talvolta, come si afferma in un manuale di diritto americano - The elements of Legal Style (1991) - ,“la vita degli uomini può dipendere da una virgola”.
La successiva esperienza parlamentare l’ha condotto a fare i conti con le manipolazioni del linguaggio di cui è stata maestra, in ogni tempo, la classe politica. Questo particolare tipo di manomissione non è stato inventato, per la verità, da Silvio Berlusconi. Considerato, comunque, il peso straordinario assunto nel nostro Paese, dal suo “Partito dell’Amore” mi sembra più che giustificato lo spazio riservato al caso nel libro.
Carofiglio non manca di rilevare le radici antiche del fenomeno denunciato. Così, se da un lato vengono sommariamente ricordati alcuni autori classici come Tucidide, Cicerone e Sallustio; dall’altro viene dato il giusto rilievo ad autori moderni e contemporanei, come Dante, Gramsci e Primo Levi, che hanno pagato a caro prezzo il loro anticonformismo.
La parte del libro che mi è maggiormente piaciuta è quella finale intitolata «Le parole del diritto»(pp.127-143). Qui l’autore non risparmia critiche alla casta cui è appartenuto. Dopo avere notato la particolare forza creativa della “lingua del diritto” - capace di generare norme, atti amministrativi, contratti e sentenze – Carofiglio riconosce che il linguaggio dei giuristi è sempre stato, con rare eccezioni, un linguaggio “sacerdotale”. Non a caso, nell’antico diritto romano la sfera del diritto e quella del sacro si sovrapponevano. Ed è questa la ragione per cui ci si esprimeva con un linguaggio sacrale e oscuro che dura ancora nei nostri giorni.
La persistente oscurità del linguaggio giuridico è, infatti, funzionale all’ esercizio autoritario del potere (pag.130). L’autore, per rafforzare la sua argomentazione, cita il cap. 5 ( “Oscurità delle leggi”) del celebre trattato di Cesare Beccaria, “Dei delitti e delle pene”, che ha messo a nudo il nesso stretto esistente fra “oscurità linguistica” ed “esercizio del potere”. Si avvale, inoltre, dell’aiuto di un grande giurista e scrittore contemporaneo, Salvatore Satta, mai tenero nei confronti di quei colleghi che si trincerano nel gergo della “lingua iniziatica”, frutto di “ridicole costruzioni”, dimentichi del fatto che “ è infinitamente più facile inventare una irrealtà che intendere la realtà”(pag.131).
FRANCESCO VIRGA

Nessun commento:

Posta un commento