“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
31 gennaio 2016
L' INVENZIONE DELLA SICILIA SECONDO MATTEO DI GESU'
Giovedì 4 febbraio 2016, alle ore 18, nella Libreria Feltrinelli di Palermo verrà presentato l'ultimo libro di Matteo Di Gesù. Con l'autore interverranno Clotilde Bertoni e Tommaso Baris
La letteratura moderna ha documentato assai efficacemente il lungo e conflittuale processo di assimilazione della Sicilia alla nazione italiana: un’integrazione culturale e sociale, prima ancora che politica, disarmonica e per molti aspetti ancora incompiuta. Ma la letteratura, specie la narrativa di autori siciliani, è stata interpretata, sovente in maniera forzosa e ideologicamente tendenziosa, come repertorio di una presunta identità siciliana immutabile, di un’ontologia metastorica per la quale perfino la mafia sarebbe un carattere antropologico piuttosto che un fenomeno criminale. Il libro rivisita alcuni momenti della fondazione letteraria dell’ambigua nozione di identità siciliana moderna: dalla breve stagione dell’illuminismo isolano alla comparsa della tematica mafiosa nella narrativa del secondo Ottocento, fino alle riscritture romanzesche dell’impresa risorgimentale. Una rilettura suffragata dall’idea che sia giunto il tempo di rivedere criticamente alcuni dispositivi discorsivi che riguardano la cosiddetta “letteratura siciliana”, nonché da una fedeltà irrinunciabile, per quanto problematica, al magistero di Leonardo Sciascia.
Matteo Di Gesù è ricercatore di Letteratura italiana all’Università di Palermo. Ha scritto, tra l’altro: Una nazione di carta. Tradizione letteraria e identità italiana (Carocci, 2013) Il carattere degli italiani, 2 voll. (doppiozero, 2012-14), I paralleli (Edizioni di passaggio, 2009), Dispatrie lettere (Aracne, 2005), Palinsesti del moderno (FrancoAngeli, 2005), La tradizione del postmoderno (FrancoAngeli, 2003), Letteratura, identità, nazione (a cura di; :duepunti, 2009). Collabora con il domenicale di “Il Sole 24 ore” e con altre testate cartacee e on line.
SOCRATE, un paradosso infinito.
Forse non esiste nella storia un caso simile: non conosco un altro autore su cui è stato scritto tanto come su Socrate che, come dovrebbe essere noto, non ha lasciato scritto nulla! Tutto quello che sappiamo di Socrate si deve ad altri autori. Non esiste, infatti, un suo testo scritto, neppure un appunto, un frammento. Socrate amava parlare, non scrivere. Anche perchè sapeva che la scrittura è incapace di cogliere la verità delle cose che sono sempre in movimento. Mentre la scrittura ha la pretesa di fissare sulla carta verità sempre sfuggenti.
Su questo paradosso, ancora oggi, si continua a discutere e a scrivere. fv
La scoperta di Socrate
Socrate
non ha buona stampa, nemmeno presso i suoi “allievi”, come si esprime Maria
Michela Sassi. Non possedeva altra scienza tranne quella di contraddire
(Montaigne). Praticava “un gioco infinitamente leggero col nulla” (Kierkegaard).
Aveva pancia prominente, faccia da bifolco, aria bovina, naso schiacciato e
moccicoso (Erasmo). Aveva qualcosa di divino
nel senso del demoniaco (“Apologia di Socrate”). Ne ebbe anche di incondizionati,
attesta Sassi, storica dell’antichità, filologa del pensiero scientifico:
Diderot, che tradusse a memoria l’“Apologia” mentre era in prigione, lo stesso
Erasmo (“Sancte Socrates, ora pro nobis”),
il neoplatonismo cristiano di Coluccio Salutati e Marsilio Ficino, gli Atti
degli Apostoli, che lo assomigliano al Cristo. E ne ebbe anche nel senso che
Hannah Arendt ha individuato sessant’anni fa: che fu il primo a portare la
filosofia dal cielo in terra, dall’astratto al concreto, dalla verità all’agire
pratico o politico: Cicerone, e la stessa “Apologia”, come Sassi bene illustra.
Ma senza effetto: Platone, cui Socrate deve la vita, l’ha soffocato.
Atopia
Una
sorta di atopia Sassi delinea. Di cui già in Platone, nel “Simposio” che
Alcibiade introduce: come essere fuori posto, tra bizzarria e disagio. Un tipo
strano, in vita e in morte. Nella decisione di non opporsi ala sentenza di
morte, e nell’insegnamento rigorosamente orale, e programmaticamente elementare,
ma forse esoterico, buono per Platone e per i Cinici. Segnato da Aristofane, che
avviò li il processo che porterà alla morte: anche se per ridere, il commediografo
denunciava le lezioni dietro compenso, per un insegnamento ozioso e a volte
violento, contro la morale.
Altro l’approccio
di Hannah Arendt in questo corso all’università americana di Notre Dame nel
1954, breve - il libro si compone anche di contributi ampi di Adriana Cavarero (“Arendt
non interpreta Socrate, in veste di
storica della filosofia… bensì decide di pensare con Socrate e mediante Socrate”)
e Simona Forti (Socrate e Eichmann, Arendt e Foucault, il “socratismo eretico”
– platonismo – di Jan Patočka), con l’introduzione e le note della curatrice, Ilaria Possenti.
La novità del suo “Socrate” è che la Grecia escludeva la filosofia dall’agire pratico,
dal sapere politico. Socrate si applicò ad appianare questo contrasto, e finì
male, i politici non tolleravano la sapienza. Platone allora affermerà il contrario,
che solo il filosofo è buon cittadino e buon politico, ha le chiavi della
saggezza pratica – ma lo affermerà all’accademia e non al foro, e nessuno lo
importunerà.
Due-in-uno
“L’abisso tra filosofia e politica si apre
storicamente con il processo e la condanna di Socrate”: Arendt va giù subito netta
e diretta, questo “Socrate” ha avuto una lunga gestazione, come confidava al maestro
e amico Jaspers: “Un punto di svolta analogo a quello del processo e della
condanna d Gesù nella storia della religione.” Il che è certamente vero. Per
l’umanità forse no, per gli studi sì: “La nostra tradizione di pensiero
politico ha inizio quando, con la morte di Socrate, Platone perde ogni speranza
nella vita della polis”, riproponendosi
di supplirla con le idee, anche se stravolgeva così l’esperienza di Socrate.
“Socrate aveva scoperto la coscienza, ma non le
aveva ancora dato un nome” – questo farà Platone. “Così”, annota la curatrice, “solo
una ventina di anni dopo la dissertazione di dottorato discussa con Jaspers nel
1929, Arendt torna a leggere Platone, i Greci, la filosofia”. Dopo cioè vent’anni
di impegno contro Hitler e per la sopravvivenza, tra vessazioni e
imprigionamenti, con espatri clandestini, fughe, ripartenze, e le ricerche e la
scrittura delle “Origini del totalitarismo”. Nel tentativo di forzare,
sottolinea Possenti, l’impasse
politico della concezione platonica – ideale - della politica. Socrate H. Arendt
risuscita come alternativa allo “smantellamento della metafisica”: la majeutica
del dialogo, dell’interazione. Sia pure con se stessi, il “due-in-uno”, il
dialogo anche solo “tra me e me”, piuttosto che l’arrampicata sugli specchi
della verità assoluta. Una “ripartenza” necessitata dalla memoria, In forma di
nostalgia, davanti a un cumulo di rovine.
Platonico Marx
Non un “che
cosa ha detto Socrate”, che Platone gli ha fatto dire. Oppure sì, anzi proprio
questo: Platone ha tradito Socrate, che filosofava la politica nella politica, in
piazza, discutendone, non per scoprire la verità ma per accrescerla, moltiplicarla,
anche semplicemente aggiungerle qualcosa. Dividendo la filosofia - la ricerca
della retta verità – dalla politica – l’agire pratico – e questa relegando alla
buona amministrazione. Un tradimento a nessun fine, anzi d’impatto negativo: “L’inumano stato ideale di Platone” è rimasto
ideale. E la filosofia non ha avuto più alcuna influenza sulla politica già in età
moderna: “Gli scritti di Machiavelli sono l primo segno di tale svuotamento,
mentre in Hobbes troviamo, per la prima volta, una filosofia che non sa cose
farsene della filosofia”. A parte Marx,
l’ultimo platonizzante.
Le scoperte
sono molte di Hannah Arendt con Socrate, che poi l’accompagnerà per il resto
della sua propria opera. Un peregrinare non confuso, e non incerto già in
questo primo approccio: “Noi che abbiamo fatto esperienza delle organizzazioni
totalitarie di massa, il cui primo interesse è eliminare qualunque possibilità
di solitudine – eccetto la forma inumana del confino – possiamo testimoniare
come non solo le forme secolari di coscienza, ma anche quelle religiose vengono
eliminate quando non è più garantito lo
stare un po’ da soli con se stessi”.
Essere è apparire
Il
principio di non contraddizione di Aristotele, “con cui Aristotele fonda la
logica occidentale” riconducendo “a questa fondamentale scoperta di Socrate: essendo uno io non mi contraddirò, e al
tempo stesso potrò contraddirmi”. Per un altro più fondamentale fondamento:
“che la vita insieme agli altri comincia con la vita insieme a se stessi”. Riconoscere
se stessi si rende manifesto nella polis
tramite l’apparire: per essere
bisogna “apparire” – “intendiamo per polis
una sfera pubblico-politica in cui gli uomini conseguono la piena umanità, la
loro piena realtà di uomini, non solo perché esistono, come la dimensione privata della sfera domestica, ma
anche perché appaiono”.
Ma
Socrate è in realtà anche il primo a occuparsi principalmente della verità.
Interrogativa e non apodittica ma non per questo meno veritiera. Il primo
filosofo: Arendt lo dice nella prima versione della lezione, che Ilaria
Possenti qui recupera in nota. La verità di Socrate, per cui ha voluto morire,
è che la Grecia escludeva la filosofia dal sapere pratico: accetta per questo
la morte. Platone si rivarrà argomentando che solo il filosofo è buon politico,
ha le chiavi della saggezza pratica. Ma finirà a Siracusa, dal tiranno di
Siracusa. Se c’è una morale, è che bisogna ridare autonomia al politico.
Questo,
però, sessant’anni fa. Quando già Heidegger opinava senza incertezze, sui “Quaderni
neri” che ora si pubblicano: “La politica non ha più nulla a che fare con la polis”. Non più nel “planetarismo”, diceva,
che poi sarà detto globalizzazione.
Hannah
Arendt, Socrate, Cortina, pp. 123 €
11
Maria
Michela Sassi, Indagine su Socrate.
Persona, filosofo, cittadino, Einaudi, pp. 242 € 23
Pubblicato da
astolfo@antiit.com
30 gennaio 2016
DIRITTI CIVILI, POTERE E MITO
Il negativo del potere: i diritti civili e il mito.
di Sandro Vero
«[...] là dove c'è potere c'è
resistenza e (che) tuttavia, o piuttosto proprio per questo, essa non è
mai in posizione di esteriorità rispetto al potere.»
Michel Foucault
Non c'è materia che non si renda disponibile per la forma-discorso del potere, una forma che dà al mito una declinazione speciale, globalmente al servizio degli uffici di cattura del capitale, che prolunga indefinitamente il suo nastro generativo dei comportamenti allineabili alle necessità del consumo. Come una poderosa Macchina di Turing, dispositivo elementare ma capace di infinito[1], il capitalismo ha da tempo superato la fase dei limiti - etici, antropologici - e svolge le sue annessioni continue tracimando ogni tipo di barriera e dilagando in ogni territorio.
L'immagine simbolica della t-shirt marchiata con la faccia di Che Guevara è solo uno dei possibili modi di un refrain minimale che usa la fungibilità semiotica come una clava da calare sulla creatività del linguaggio.
Il meccanismo semiotico del mito è stato spiegato da Roland Barthes con chiarezza sin dal suo saggio di chiusura dei Miti d'oggi[2]:
Il rapporto che lega (e separa) il significante al significato[3] si struttura in un doppio meta-livello, secondo le diverse direzioni del metalinguaggio e del mito. Nel primo, l'intera coppia significante/significato è presa nel gioco semiotico di rango superiore come significato su cui esercita la sua forma un significante altro, più comprensivo, che funge, appunto, da meta-strumento formativo. L'analisi semiotica di un testo ideologico è un esempio di metalinguaggio, come può esserlo la contro-analisi ideologica della critica semiotica, e questo a riprova della natura ricorsiva del meccanismo meta-espressivo[4].
Nel mito, la coppia originaria significante/significato acquisisce un carico funzionale diverso: diviene il significante del meta-livello, rispetto al quale il significato mitico è come sovraimposto, carico più di valori connotativi che di elementi denotativi[5]. Contrariamente a quanto accade nell'ambito metalinguistico, nella catena semiotica del mito non è possibile prolungare indefinitamente gli effetti del meccanismo formativo, pena un'inesorabile perdita di efficacia performativa.
Il mito esaurisce il suo potere manipolativo dopo il suo primo passaggio, anche se è teoricamente possibile un suo prolungamento strutturale. Ciò si può esprimere in termini di inscatolamento linguistico: mentre abbiamo visto che il rapporto meta-semiotico che può intercorrere fra ideologia e critica semiotica può svolgersi indefinitamente e ad ogni passaggio successivo funzionare come un vero e proprio scambio di posto, nel mito, una volta sussunto un linguaggio nella forma del suo metalinguaggio mitico, l'eventuale ri-mitizzazione successiva di grado n della mitizzazione precedente di grado n-1 perde quasi immediatamente la sua carica semiotica dovendo svolgersi nel passaggio dal mito al mito del mito, e così via. In questo secondo caso solo il ritiro, mediante una critica analitica del meccanismo mitopoietico, dall'ingranaggio semiotico e la piena attuazione nella prassi (politica, sociale) può garantire il ripristino dell'integrità del linguaggio primo.
La musica dei Beatles, il libretto rosso di Mao, le immagini del Vietnam, i cortei femministi degli anni 70, tutti insieme o a sottoinsiemi cangianti - ognuno di essi appartenente ad una precisa, contestualizzata "grammatica" reale, ognuno con un "peso" reale diverso - acquisiscono il significato, sovraimpresso, di "rivoluzione", appaiandosi - senza alcuna remora estetica ed etica - a linguaggi di natura lontana come il logo della Apple, icone raffiguranti il web o realtà civili contemporanee come i matrimoni gay.
Quest'ultima annotazione chiama in causa il posto che le rivendicazioni civili hanno nel mondo contemporaneo, caratterizzato da forme eterogenee di connessione, presumibilmente riconducibili a un livello profondo in cui la politica è contenuta dai processi di produzione del valore economico e non viceversa.
Le battaglie per i diritti civili hanno avuto un'impronta marcatamente anticapitalistica fino al momento in cui i valori della cultura borghese si è ritenuto che si sovrapponessero allo sfondo etico-politico nel quale il capitalismo affondava le sue radici "ideologiche": Dio, patria, famiglia e denaro. A partire da un certo momento è avvenuto uno scollamento fra quello sfondo e i capisaldi del mondo borghese, nel senso che il capitale (figura antropomorfica utile per economizzare il discorso) ha progressivamente inteso porsi rispetto a quei capisaldi in una posizione inedita: il negativo ha cominciato a fare gola, con il suo indubbio aplomb rispetto ai programmi di estensione indefinita dello spazio consumistico.
Un inesauribile patrimonio di figure, di rotture, di spazi, di sfumature si rendeva disponibile per un crescente marketing dell'esistente, interamente centrato sulla valorizzazione dell'impensabile, che nei programmi di vendita e di televendita pianificati diviene sempre più pensabile, ma solo in quanto consumabile. Ecco ciò che potrebbe dirsi del negativo del potere: pensabile in quanto consumabile, e dunque se consumabile allora assimilabile.
Ogni critica sull'uso smodato che il potere favorisce dei discorsi sui diritti civili ha il dovere di chiarire la differenza fra discorso (politico) degli stessi e meta-discorso (mitico), che se ne appropria per farne materia commestibile.
C'è però anche un altro orizzonte di riferimento cui accennare: la mitizzazione delle battaglie civili non serve solo a far quattrini triturando nel mixer delle televendite Guevara, Cristo, Marx e i gay, ha la sua finalità più incisiva, si direbbe ficcante, nella trasformazione dell'esistente in una sorta di tabula rasa secondaria, in cui la decimazione di ogni valore (borghese o meno) semina contestualmente una coscienza del possibile come doppia negazione: niente è impossibile, ovvero non è possibile che sia impossibile! Tranne, ovviamente, la critica della presunta necessità dell'ordine capitalistico!
In realtà, non c'è traccia di un tertium non datur fra battaglie civili e battaglie politiche. La contraddizione (apparente) è invece fra politica (nel senso più ampio e "globale" del termine) e mitologia dei diritti civili, quando questi si sono già trasformati in elementi divisivi, perfettamente funzionali alle logiche depistanti del potere.
C'è la possibilità di un'analisi disincantata del rapporto che il capitale intrattiene con i contenuti che circolano nei discorsi che si propongano come "avversi" al suo dominio: il potere li fagocita e li ricicla per i suoi scopi.
C'è un primo momento, originario (anche se non nel senso "cronologico"), in cui la battaglia dei diritti civili è allocata nella società, nei suoi rivoli "desideranti", ai suoi bordi rappresentativi, frontalmente alle istanze istituzionali del potere. E' il momento in cui le rivendicazioni della società civile si propongono in tutta la loro forza dirompente come rappresentative del possibile.
C'è un secondo step, intermedio, in cui la battaglia dei diritti civili assume il linguaggio istituzionale di uno stato che legifera,rendondosi disponibile a un principio disciplinante tutto interno al potere, reclamando la sua sussumibilità nel diritto e spingendosi verso le fauci del potere.
C'è infine un terzo step, in cui il potere si appropria della battaglia, usandone la richiesta di mobilitazione per legittimare il momento pervasivo della trasformazione di ogni cosa in merce (simbolica). È il momento in cui si " spettacolarizza" tutto, anche il negativo del potere[6].
Note:
[1] Per il concetto di "macchina di Turing" si veda Lo Piparo (1974), pp. 25-35. Per l'utilizzo della nozione di "macchina di Turing" all'interno di una cornice culturale particolare come l'accelerazionismo, si veda Pasquinelli (2014).
[2] Barthes (1966), pp. 191-238.
[3] Riformulabile nella sintassi linguistica di Hjelmlev come rapporto fra "espressione" e "contenuto": vedi Hjelmslev (1968), pp. 52-65.
[4] Sul concetto di ricorsività si veda Lo Piparo (1974), pp.49-55.
[5] Non a caso il concetto strutturale di "mito", come lo abbiamo introdotto in questa sede seguendo il linguaggio barthesiano, è corrispondente al concetto di Hjelmslev di "semiotica connotativa". Vedi Hjelmslev, cit., pp. 122-134.
[6] Un ragionamento che non è riconducibile solo a Debord (2008) ma anche a Baudrillard (2009), nella misura in cui la spettacolarizzazione si traduce nella sostituzione della realtà da parte di una "cosa" virtuale che propone, attraverso l'immagine, l'uccisione della realtà medesima.
Riferimenti bibliografici:
BARTHES Roland (1966): Elementi di semiologia, tr.it. Einaudi, Torino.
BAUDRILLARD Jean (2009): La scomparsa della realtà, tr.it. Lupetti, Bologna.
DEBORD Guy (2008): La società dello spettacolo, tr.it. Baldini Castoldi Dalai, Milano.
HJELMLEV Luis (1968): I fondamenti della teoria del linguaggio, tr.it. Einaudi, Torino.
LO PIPARO Franco (1974): Linguaggi, macchine e formalizzazione, Il Mulino, Bologna.
PASQUINELLI Matteo (a cura di) (2014): Gli algoritmi del capitale, Ombre Corte, Verona.
(2 agosto 2015)
Testo tratto da http://megachip.globalist.it/
G. DE CARO SUL NEOREALISMO
Il Neorealismo è stato un momento testimoniale di autoriflessione
della società italiana che usciva dalle macerie del fascismo e della
seconda guerra mondiale o un “marchio” identitario finalizzato a una
rifondazione degli italiani sulla base di una complessiva rimozione?
Gaspare De Caro, mancato a Roma il 6 ottobre 2015, nel suo ultimo libro Rifondare gli italiani? Il cinema del neorealismo ci ha lasciato in eredità questa domanda, insieme, ovviamente, a un’articolata e pessimistica risposta.
Storico del rinascimento e dell’età contemporanea, De Caro è stato uno dei protagonisti della stagione operaista (Toni Negri parla del suo contributo ai Quaderni Rossi come di “un’introduzione alla metodologia storiografica legata all’impegno politico” che ha fatto scuola per una generazione di intellettuali) con studi e interventi che hanno saputo attraversare con lucidità gli ultimi decenni della vita italiana, offrendo riflessioni circostanziate sulla società, il capitale, la composizione di classe, la cultura.
Nella sua “controstoria” De Caro ribadisce la continuità fra il neorealismo e la cinematografia italiana dei secondi anni ’30. L’esigenza di un cinema della testimonianza capace di illuminare la quotidianità delle condizioni sociali era stata preparata già durante il fascismo: il regime aveva un ventre culturale mobile, in grado di digerire e fare coesistere diverse istanze, come l’evasione dei telefoni bianchi, i non troppo convinti film di propaganda ideologica ma anche l’esigenza di rinnovamento elaborata in riviste come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, in cui intellettuali e registi prefiguravano un cinema che mettesse la macchina da presa nelle strade piuttosto che nei salotti della borghesia. Un primo tentativo di praticare quest’ultima istanza di realismo e una prima avvisaglia dell’incrinarsi del patto sociale fra regime fascista e cinema si ebbe nella cosiddetta “trilogia della rottura”, con tre film girati fra 1942 e 1943 (Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti) che corrodono da ottiche diverse un’istituzione fondamentale come la famiglia, aprendo squarci inediti su una società che stava ansiosamente immergendosi nella catastrofe. Queste premesse vengono sviluppate nei grandi film in presa diretta degli anni ’40 di Rossellini e De Sica, in cui assistiamo all’irruzione traumatica di un reale dove l’incanto si interrompe secondo il programma di Vittorio Sica (“vogliamo liberarci del peso dei nostri errori, guardarci in faccia e dirci la verità, scoprire quello che eravamo veramente”) che ci lascia con Ladri di biciclette l’immagine di una sconfitta senza appello, di interruzione del patto generazionale che vede il padre vergognarsi di quello che è diventato dinanzi al figlio.
Ma la poetica del pedinamento del reale viene immediatamente catturata da un discorso che lascia spazio a un’altra verità, sostanziata di “miti, amnesie” e “travisamenti assolutori e autoassolutori di ogni responsabilità passata”, in cui “l’intellighentia cinefila esorcizzò e addomesticò gli inferni evocati da De Sica e Rossellini, sbiadì il pessimismo radicale ignominiosamente ridotto a populismo e sentimentalismo”. Il neorealismo sarebbe dunque innanzitutto il discorso dei volgarizzatori e degli epigoni, dei registi, degli sceneggiatori, dei politici e dei teorici che hanno lavorato per una conciliante visione della memoria storica, aggiornando il proprio linguaggio cinematografico. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, inizia emblematicamente il film di Mattoli La vita ricomincia del 1945, archetipo di un cinema impegnato nell’affabulazione smemorata e consolatoria. Di qui, la rassegna di De Caro si immerge in una cinematografia che ha per lo più eluso i temi del fascismo e della Resistenza, ogni evocazione di guerra civile, mentre nella descrizione della ricostruzione post-bellica i registri del grottesco e del melodrammatico hanno finito per normalizzare il disincanto degli innovatori. Sotto il sole di Roma di Castellani (1948) è un altro monumento alla deresponsabilizzazione della società e della cultura italiana: l’ambientazione è la stessa Roma popolare alla fine della guerra raccontata da De Sica e Rossellini, ma non è la stessa storia, gli sbandati adolescenti che si muovono nel film non sono toccati dalle bombe, dai rastrellamenti, dalle epurazioni e dopo lo sbandamento nella microcriminalità il giovane protagonista diventa guardia notturna e rientra nell’ordine assumendo il ruolo civico del padre.
Il fascismo rimase nella rappresentazione neorealista per lo più assente, sicuramente perché i soggetti erano ambientati nel presente e non nel passato prossimo, ma anche per la volontà politica di non parlarne: l’operazione culturale di rifondazione di un’identità collettiva aveva in fondo bisogno non di storiografi, ma di mitografi. Il motore di questa elaborazione mitologica nel nome dell’unità nazionale e della rifondazione degli italiani è per De Caro la naturalis oboedientia, una formula di Bottai sulla presunta natura passiva e conservatrice degli italiani, che nel discorso neorealista si è presentata come un’autocensura che ha limitato i possibili filmici con soluzioni in fondo innocue in nome del paradigma del fascismo subito più che prodotto dagli italiani. Un film in qualche modo più scomodo come Anni difficili (1948) di Luigi Zampa, fu invece criticato da destra e da sinistra come “apertamente diffamatorio di qualsiasi valore morale” perché aveva semplicemente raccontato una vicenda di trasformismo dall’apparato fascista a quello del nuovo stato democratico: era in fondo questo il nervo più scoperto dei nuovi poteri, la continuità delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione negli anni della transizione di regime.
Ma al di là degli episodi di trasformismo degli stessi registi che passarono dalle commedie a basso voltaggio dei telefoni bianchi alla moda dei film della miseria negli anni ’40, è stato proprio “l’italo-marxismo” a esibire i miti della Ricostruzione al servizio dello stato, trasformando sostanzialmente la Resistenza in guerra patriottica, in secondo Risorgimento. È il caso di film finanziati direttamente dall’ANPI come Il sole sorge ancora (1946) per la regia di Aldo Vergano, di Caccia Tragica di Giuseppe De Santis (1947) finanziato dalla Lega delle Cooperative, ma anche, seppure con un’impostazione più problematica, di Achtung! Banditi di Carlo Lizzani (1951) prodotto dalla Cooperativa Spettatori e Produttori Cinematografici. In queste opere che hanno come autori e sceneggiatori i reduci dal proto-realismo della rivista Cinema, per De Caro il conflitto sociale viene eluso, il tema disertato: gli operai e i contadini non si scontrano con il capitalista o il latifondista, che rimangono sempre fuori campo, ma si armano al più contro i tedeschi per salvare patriotticamente la loro fabbrica, restituendo le classi subalterne alla loro storica subalternità.
Fare la storia con quello che non c’è stato ma avrebbe potuto e dovuto esserci rischia di diventare un esercizio retorico e alla fine della lettura il quadro risulta piuttosto apocalittico, non completamente nuovo, a volte ingeneroso e unilaterale, ma in qualcosa di importante colpisce nel segno. Il neorealismo è stato, insieme a molte altre cose, un episodio, tutt’altro che marginale, di quella che De Caro chiama “un’allucinazione collettiva”, una lettura mitografica della storia e una manipolazione della memoria nel segno dell’irresponsabilità (il fascismo, le guerre coloniali, le persecuzioni razziali e la Shoah di cui neanche Rossellini in Germania anno zero è riuscito a parlare). L’insorgenza anti-istituzionale di Ladri di Biciclette e di Paisà si è spenta in quello che poi è stato chiamato neorealismo, anche se questo ragionamento risulta paradossale e si potrebbe forse ribaltare: non sono forse questi (insieme a pochi altri) i film che rimangono di quegli anni, che riescono ancora a entrare nella nostra attualità, mentre tutto il resto lentamente si dimentica? Forse dunque questo esorcismo non è completamente riuscito ma mentre veniva eseguito ha contribuito a modellare l’immagine che un popolo aveva di se stesso.
Testo tratto da http://www.doppiozero.com/
Storico del rinascimento e dell’età contemporanea, De Caro è stato uno dei protagonisti della stagione operaista (Toni Negri parla del suo contributo ai Quaderni Rossi come di “un’introduzione alla metodologia storiografica legata all’impegno politico” che ha fatto scuola per una generazione di intellettuali) con studi e interventi che hanno saputo attraversare con lucidità gli ultimi decenni della vita italiana, offrendo riflessioni circostanziate sulla società, il capitale, la composizione di classe, la cultura.
Nella sua “controstoria” De Caro ribadisce la continuità fra il neorealismo e la cinematografia italiana dei secondi anni ’30. L’esigenza di un cinema della testimonianza capace di illuminare la quotidianità delle condizioni sociali era stata preparata già durante il fascismo: il regime aveva un ventre culturale mobile, in grado di digerire e fare coesistere diverse istanze, come l’evasione dei telefoni bianchi, i non troppo convinti film di propaganda ideologica ma anche l’esigenza di rinnovamento elaborata in riviste come Cinema, diretta da Vittorio Mussolini, in cui intellettuali e registi prefiguravano un cinema che mettesse la macchina da presa nelle strade piuttosto che nei salotti della borghesia. Un primo tentativo di praticare quest’ultima istanza di realismo e una prima avvisaglia dell’incrinarsi del patto sociale fra regime fascista e cinema si ebbe nella cosiddetta “trilogia della rottura”, con tre film girati fra 1942 e 1943 (Quattro passi fra le nuvole di Blasetti, I bambini ci guardano di De Sica e Ossessione di Visconti) che corrodono da ottiche diverse un’istituzione fondamentale come la famiglia, aprendo squarci inediti su una società che stava ansiosamente immergendosi nella catastrofe. Queste premesse vengono sviluppate nei grandi film in presa diretta degli anni ’40 di Rossellini e De Sica, in cui assistiamo all’irruzione traumatica di un reale dove l’incanto si interrompe secondo il programma di Vittorio Sica (“vogliamo liberarci del peso dei nostri errori, guardarci in faccia e dirci la verità, scoprire quello che eravamo veramente”) che ci lascia con Ladri di biciclette l’immagine di una sconfitta senza appello, di interruzione del patto generazionale che vede il padre vergognarsi di quello che è diventato dinanzi al figlio.
Ma la poetica del pedinamento del reale viene immediatamente catturata da un discorso che lascia spazio a un’altra verità, sostanziata di “miti, amnesie” e “travisamenti assolutori e autoassolutori di ogni responsabilità passata”, in cui “l’intellighentia cinefila esorcizzò e addomesticò gli inferni evocati da De Sica e Rossellini, sbiadì il pessimismo radicale ignominiosamente ridotto a populismo e sentimentalismo”. Il neorealismo sarebbe dunque innanzitutto il discorso dei volgarizzatori e degli epigoni, dei registi, degli sceneggiatori, dei politici e dei teorici che hanno lavorato per una conciliante visione della memoria storica, aggiornando il proprio linguaggio cinematografico. “A Roma mica è successo gnente, tutto in piedi”, inizia emblematicamente il film di Mattoli La vita ricomincia del 1945, archetipo di un cinema impegnato nell’affabulazione smemorata e consolatoria. Di qui, la rassegna di De Caro si immerge in una cinematografia che ha per lo più eluso i temi del fascismo e della Resistenza, ogni evocazione di guerra civile, mentre nella descrizione della ricostruzione post-bellica i registri del grottesco e del melodrammatico hanno finito per normalizzare il disincanto degli innovatori. Sotto il sole di Roma di Castellani (1948) è un altro monumento alla deresponsabilizzazione della società e della cultura italiana: l’ambientazione è la stessa Roma popolare alla fine della guerra raccontata da De Sica e Rossellini, ma non è la stessa storia, gli sbandati adolescenti che si muovono nel film non sono toccati dalle bombe, dai rastrellamenti, dalle epurazioni e dopo lo sbandamento nella microcriminalità il giovane protagonista diventa guardia notturna e rientra nell’ordine assumendo il ruolo civico del padre.
Il fascismo rimase nella rappresentazione neorealista per lo più assente, sicuramente perché i soggetti erano ambientati nel presente e non nel passato prossimo, ma anche per la volontà politica di non parlarne: l’operazione culturale di rifondazione di un’identità collettiva aveva in fondo bisogno non di storiografi, ma di mitografi. Il motore di questa elaborazione mitologica nel nome dell’unità nazionale e della rifondazione degli italiani è per De Caro la naturalis oboedientia, una formula di Bottai sulla presunta natura passiva e conservatrice degli italiani, che nel discorso neorealista si è presentata come un’autocensura che ha limitato i possibili filmici con soluzioni in fondo innocue in nome del paradigma del fascismo subito più che prodotto dagli italiani. Un film in qualche modo più scomodo come Anni difficili (1948) di Luigi Zampa, fu invece criticato da destra e da sinistra come “apertamente diffamatorio di qualsiasi valore morale” perché aveva semplicemente raccontato una vicenda di trasformismo dall’apparato fascista a quello del nuovo stato democratico: era in fondo questo il nervo più scoperto dei nuovi poteri, la continuità delle risorse umane nella Pubblica Amministrazione negli anni della transizione di regime.
Ma al di là degli episodi di trasformismo degli stessi registi che passarono dalle commedie a basso voltaggio dei telefoni bianchi alla moda dei film della miseria negli anni ’40, è stato proprio “l’italo-marxismo” a esibire i miti della Ricostruzione al servizio dello stato, trasformando sostanzialmente la Resistenza in guerra patriottica, in secondo Risorgimento. È il caso di film finanziati direttamente dall’ANPI come Il sole sorge ancora (1946) per la regia di Aldo Vergano, di Caccia Tragica di Giuseppe De Santis (1947) finanziato dalla Lega delle Cooperative, ma anche, seppure con un’impostazione più problematica, di Achtung! Banditi di Carlo Lizzani (1951) prodotto dalla Cooperativa Spettatori e Produttori Cinematografici. In queste opere che hanno come autori e sceneggiatori i reduci dal proto-realismo della rivista Cinema, per De Caro il conflitto sociale viene eluso, il tema disertato: gli operai e i contadini non si scontrano con il capitalista o il latifondista, che rimangono sempre fuori campo, ma si armano al più contro i tedeschi per salvare patriotticamente la loro fabbrica, restituendo le classi subalterne alla loro storica subalternità.
Fare la storia con quello che non c’è stato ma avrebbe potuto e dovuto esserci rischia di diventare un esercizio retorico e alla fine della lettura il quadro risulta piuttosto apocalittico, non completamente nuovo, a volte ingeneroso e unilaterale, ma in qualcosa di importante colpisce nel segno. Il neorealismo è stato, insieme a molte altre cose, un episodio, tutt’altro che marginale, di quella che De Caro chiama “un’allucinazione collettiva”, una lettura mitografica della storia e una manipolazione della memoria nel segno dell’irresponsabilità (il fascismo, le guerre coloniali, le persecuzioni razziali e la Shoah di cui neanche Rossellini in Germania anno zero è riuscito a parlare). L’insorgenza anti-istituzionale di Ladri di Biciclette e di Paisà si è spenta in quello che poi è stato chiamato neorealismo, anche se questo ragionamento risulta paradossale e si potrebbe forse ribaltare: non sono forse questi (insieme a pochi altri) i film che rimangono di quegli anni, che riescono ancora a entrare nella nostra attualità, mentre tutto il resto lentamente si dimentica? Forse dunque questo esorcismo non è completamente riuscito ma mentre veniva eseguito ha contribuito a modellare l’immagine che un popolo aveva di se stesso.
Testo tratto da http://www.doppiozero.com/
LE DONNE DI SABBIA DI MARICLA DI DIO
L' amica Giuseppina Bosco continua a proporci ritratti di autrici siciliane che meritano di essere lette e meglio conosciute. fv
Maricla di Dio Morgano vive a Calascibetta (Enna) e
appartiene ad una famiglia di artisti, il padre era attore, scrittore e
drammaturgo, la madre, Elisa Contoli, era attrice dell’omonima Compagnia, che
rimase attiva fino ai primi Anni ‘60. Maricla più che la recitazione ha amato
la scrittura e nonostante i successi teatrali ha preferito dedicarsi alla
letteratura.
È autrice di diversi
romanzi: “L’ultimo giorno d’estate”, “Il respiro del vento”, “Lena”, “Dalla
parte del torto”, “L’isola”, e ha ricevuto numerosi premi letterari. Di
notevole successo l’ultimo romanzo del 2015 “La siciliana”, che ha
letteralmente conquistato Catena Fiorello. Molte sue opere sono state recensite
da personalità di spicco del mondo culturale: Vincenzo Guerrazzi, Sveva Casati
Modigliani, Rosa Alberoni, Catena Fiorello e tanti altri.
Con l’ultimo romanzo
“Donne di sabbia”, l’autrice ha raggiunto una maturità espressiva analizzando
con grande capacità introspettiva i personaggi, mettendo in luce i variegati
recessi dell’animo. Ma diamo a Maricla di Dio Morgano la possibilità di parlare
del suo nuovo romanzo con questa intervista. (G. B.)
Giuseppina Bosco:
D: Nei romanzi in cui
l’io narrante ripercorre le tappe di un dramma personale, incentrato sul
rapporto madre-figlia, il coinvolgimento emotivo è inevitabile, soprattutto se
chi narra deve fare i conti con il più tragico degli eventi: il coma vegetativo
della propria figlia (Carla) a causa di un incidente . È su questa vicenda che
si apre il romanzo di Maricla di Dio Morgano, “Donne di sabbia”. Il titolo
oltre a sottolineare la diversa dislocazione geografica dei personaggi
femminili, i quali hanno vissuto nelle città della costa africana (Egitto)
attraversata dal deserto, potrebbe connotare
la fragilità della condizione umana?
Maricla di Dio:
R:
La sabbia è sinonimo di aridità. Ma nelle profondità del deserto, scorre acqua.
L’apparente aridità è un tema fondamentale in questo romanzo, legato
soprattutto al personaggio di Sonia (ma non solo). L’incapacità di esternare
emozioni e sentimenti è una prerogativa di questa donna dalla vita non comune
ed è la motivazione dalla quale scaturiscono i sensi di colpa che danno
spessore all’intero tessuto narrativo.
La pluralità del titolo in “donne” non è uno sterile riferimento a madre
e figlia, ma l’estensione all’intero universo femminile e alle sue infinite
sfaccettature e problematiche.
G.
Bosco:
D: Il personaggio di Sonia è ben delineato nella
sua complessità: è una donna che lotta per mantenere il suo fragile equilibrio,
messo a dura prova dalle situazioni della vita e soprattutto dal rapporto
problematico con la figlia. Quanto è presente l’autrice nel carattere della
protagonista del romanzo?
M.
Di Dio
R: Io e Sonia siamo
diverse caratterialmente. Mentre le vicissitudini che riguardano il mio
personaggio hanno plasmato una donna fragile e insicura, le mie vicissitudini,
i grandi dolori della vita, le prove, le delusioni, hanno determinato una certa
fermezza. In Sonia ho trasferito comunque cenni di un personale disagio subito in
seguito a un capovolgimento del mio vissuto, scaturito nel momento in cui ho
dovuto identificarmi con un luogo fisso
di residenza. L’angoscia del senso di Appartenenza
e Identità che tormenta Sonia e ne
determina tutta la complessità del suo essere donna, ha riferimenti
personali. Il mio felice mondo infantile
e adolescenziale si è svolto nel cerchio di una straordinaria e inconsueta
famiglia (provengo da intere generazioni di attori che con le loro Compagnie di
prosa, giravano tutto l’anno in lungo e in largo l’Italia). Nessuna origine
territoriale ha disciplinato la prima parte della mia di vita. Ero (eravamo)
totalmente estranei a qualunque concezione di appartenenza. Solo mio
padre vantava origini “normali”, provenendo da una famiglia siciliana di
piccoli tenutari da cui fuggì, lasciando gli studi, per rincorrere un ambizioso
obiettivo: diventare un attore. L’incontro con la Compagnia di prosa di mia
nonna, fu fatale. Raggiunse i suoi sogni e si innamorò di mia madre (donna di
straordinaria bellezza e bravura). Quando mia madre in seguito a dolorosi
eventi culminati con la morte di mio padre, ha scelto stoicamente di lasciare
il teatro e sciogliere la Compagnia interrompendo l’antichissima tradizione
artistica e ritirandosi in Sicilia (unico posto in cui esistevano radici e proprietà immobiliari), la
nostra vita è stata catapultata in una realtà lontanissima da quella in cui
avevamo da sempre vissuto. Non è stato per niente facile inserirsi nella
piccola, angusta ed emarginata realtà di un mondo colmo di consuetudini come quello di un piccolo paese del centro Sicilia. Non è
stato facile riconoscerne le peculiarità, identificarsi in esso. Mia madre non ci ha neppure provato, chiudendosi
in casa. Noi ragazzi dovevamo tessere la nostra vita cominciando un percorso
sconosciuto e astruso. Ci sono voluti anni e anni…
Adesso vivo serenamente
in questo arroccato paese. Ho imparato ad amarlo e ad amare la mia Sicilia e se “l’identificazione”
non è mai totalmente avvenuta per complessi misteri genetici, non ha più
importanza. Non cambierei questo piccolo paese per nessun altro al mondo.
G. Bosco:
D: La storia narrata
fin dalle prime pagine richiama alla mente un altro romanzo: “Paula” di Isabel
Allende. Ho riscontrato sul piano psicologico la stessa angoscia di una madre
che tenta di comunicare con la figlia in coma per una incurabile malattia,
ricordando i momenti più intensi della loro vita e sperando in un miracoloso
risveglio. Anche se in Paula l’autrice unisce il dolore per la malattia della
figlia ad un’altrettanto dolorosa esperienza: il colpo di stato di Pinochet del
1973 e l’uccisione di Salvator Allende, che ne segnano la vita. Un’altra
differenza consiste nel genere narrativo. Se il romanzo dell’Allende è
costruito come un diario autobiografico, “Donne di sabbia” rivela la struttura
di un giallo. Il lettore deve cogliere alcuni
indizi nei vari capitoli del libro per trovare il filo che unisce la
storia. Condivide tali parallelismi?
M. Di Dio:
R: Ho letto Paula tanti
anni fa e non ho voluto rileggerlo durante la stesura del romanzo, (come non ho
voluto leggere altri testi che trattavano la stessa amara realtà (come quello
recente su Eluana Englaro), per non essere troppo coinvolta e influenzata da
sensazioni ed emozioni realmente vissute sulla pelle degli autori. “Donne di sabbia” è pura invenzione. Nulla,
dal punto di vista prettamente “umano”, che possa confrontarsi alla straziante
partecipazione della Allende e del padre della giovane Eluana.
La struttura narrativa
di Paula- per quanto io possa ricordare- è sicuramente molto diversa. Il mio
romanzo come Lei ben dice, a differenza del testo della Allende, non è un
diario. E’ stato concepito come un percorso storico-esistenziale che elabora le
tipiche caratteristiche del racconto. Non mi sorprende del tutto il riferimento
alla struttura di un giallo. Anche il prof. Grimaldi ha iniziato
la premessa del romanzo con la frase: “Si legge come un thriller.” Forse è
insito, nel romanzo, una logica
giallistica che riconduce un passo dopo l’altro - in percorsi necessari e
strutturati- a verità e conclusioni
ineluttabili, seppure in un contesto narrativo lontano dal classicismo giallo.
Il tutto, comunque, non è una scelta programmata, ma casuale (per quanto possa
essere “casuale” un indirizzo narrativo).
G. Bosco:
D: Alla base dei
conflitti tra Sonia e Carla vi è senza dubbio la loro distanza generazionale:
quest’ultima non ha mai accettato la duplicità della madre, divisa tra
l’atavica rassegnazione delle donne meridionali, la mancanza di volontà nelle situazioni e la
dinamicità di una donna moderna. Sonia, in realtà, ha avuto l’esempio di una
madre forte e determinata come quelle del Sud Italia: lei era nata a Locri, in
Calabria, terra intrisa di cultura greca e araba al contempo. Sonia nasce
,invece,nella casa colonica di Gars Garabulli, un villaggio libico, insieme ai
suoi fratelli, sostenuti dalle forti
braccia materne e dipendenti dalla sua saggezza. È forse la determinazione materna ad indurre
i propri figli ad accettare di vivere in quella terra straniera, in funzione di
un futuro migliore, poco comprensibile ad una generazione come quella di Carla?
M. Di Dio:
R: Credo che ogni
generazione abbia conflittualità in famiglia. E’ inevitabile. Ma la figura di
Anna Greco, madre di Sonia, è del tutto diversa da Sonia stessa e diverse sono
le dinamiche educative. Mentre Anna
è la roccia alla quale tutta la famiglia si aggrappa, Sonia vive un
ruolo condizionato dagli eventi senza la forza e la determinazione propria
della madre. L’educazione che cercherà di impartire a Carla è plagiata dalla
conflittualità e dalla nebulosa consapevolezza del proprio “io” nel quale non
riesce a scindere i ruoli che la vita stessa impone: donna-madre-moglie. La sua
incapacità scaturisce sempre dalla confusa “appartenenza” (origine
italiana-nascita e infanzia in Libia dove assimila e subisce il fascino del
Nord Africa- trasferimento in Egitto in seguito agli eventi bellici del ‘47 e
infine –già donna e madre- l’approdo in Italia). “Ero senza un’identità precisa……”
G. Bosco:
D: Le descrizioni dei
luoghi vissuti si traducono in immagini di potente realismo, con uno stile
lirico ed evocativo di atmosfere, soprattutto quando la protagonista
descrive la città del Cairo, dove si
trasferisce: <<L’Egitto aveva qualcosa della Libia, gli stessi odori, gli
stessi tramonti. Scoprimmo un po’ alla volta tra stenti, fame, stracci,
baracche, suk, fogne a cielo aperto,
urla di bambini cenciosi, piaghe di malati e puzze, le infinite meraviglie di
una terra colma di misteri.>> .Questo modo di scrivere ha come modello Cesare Pavese de “La casa in
collina” o di “Paesi tuoi”? Si nota anche l’essenzialità e la semplicità della
sintassi, con periodi breve e molto fluidi nella forma. È una particolarità della sua scrittura?
M. Di Dio:
R: Amo Pavese. Sono cresciuta con “Verrà la
morte e avrà i tuoi occhi” che ha innestato in me il profondo interesse per la
poesia e ho letto infinite volte “Prima che il gallo canti” “La luna e i falò”
e altre opere del grande e sfortunato scrittore. Restano tra le più care
letture giovanili che hanno lasciato in me il fascino della scrittura e
l’incanto del “racconto” ma non ho mai avuto un modello che abbia determinato
il mio stile. Condivido però il pavesiano simbolismo della campagna, la ricerca
di radici, il mito della solitudine. La mia scrittura è piuttosto l’esito di
un’infanzia trascorsa tra testi teatrali e letteratura. Una caotica,
affascinante miscela di storie e personaggi in un vortice di sensazioni
imbrigliate nella conoscenza. Da ogni autore ho attinto qualcosa, da ogni opera
ho inconsciamente conservato embrionali essenze.
G. Bosco:
D: Sonia è una donna
che matura la sua affettività dopo il matrimonio con un archeologo italiano,
che sposa perché è un’opportunità da non perdere. La personalità dell’uomo
viene analizzata attraverso il filo della memoria, a cui lei si aggrappa per
comunicare con la figlia, sperando in un suo risveglio. In questa sequenza del
romanzo Sonia rievoca le lunghe assenze di lui come quella volta in cui mancò
per più di un mese dopo l’incarico ricevuto per la salvaguardia del tempio di
Ambu Simbel dall’inondazione della diga di Aswan. Quanto la professione del
padre condizionerà le scelte lavorative della figlia, sempre in viaggio per il
mondo, e la sua instabilità psichica?
M. Di Dio:
R: La figura del padre, per Carla, (al di là di
architetture edipiche freudiane), colma le lacune del rapporto madre-figlia. La
professione avventurosa e per certi versi misteriosa dell’uomo, esercita un
fascino inevitabile sulla complessa personalità di Carla che-in ogni caso- soffre
enormemente per le eccessive assenze del padre.
L’amore per l’archeologia della bambina finirà quando questa provocherà
la morte dell’uomo, ma resta in lei l’ossessivo interesse per la conoscenza del
mondo. L’instabilità psichica scaturisce dall’infanzia inquieta, carente di
riferimenti affettivi e si acuisce con la brutalità degli eventi propri della
professione scelta: corrispondente di guerra.
G. Bosco:
D: Il tempo storico
nella narrazione parte da quello del regime fascista in Italia e della
colonizzazione della Libia del 1934, con riferimenti alla guerra del ‘43, fino
ai nostri giorni. Anche la perdita delle colonie italiane del 1947 s’intreccia
con le vicende dei personaggi e vi sono anche accenni alla rivoluzione del
1959, quando Gheddafi prese il potere e rese indipendente la Libia. Perché
invece il riferimento al presente non è molto contestualizzato?
M. Di Dio:
R: Le vicende politiche
italiane non coinvolgono Sonia e non ne condizionano la vita. La scoperta
dell’Italia è un fattore emozionale puramente estetico. L’identità territoriale
di Sonia non si rivela come aveva sperato, con il suo arrivo nel suolo di
origine. A differenza degli eventi vissuti in Libia che hanno determinato la
stessa esistenza della famiglia, l’Italia non porta sconvolgimenti. Lei non ne
interiorizza gli eventi socio-politici, non segue le dinamiche di un territorio
che in effetti non sente totalmente suo. Continua a il suo vivere “in superficie, nella schiuma delle cose”.
G. Bosco:
D: Molti personaggi
secondari, dai beduini del deserto, ai pastori, alle donne dei villaggi, con i
quali Sonia e Carla si relazionano, fanno parte di un mondo diverso, con
tradizioni, rituali, cultura, lontani da quelli occidentali. Ad esempio Zira è
una contadina in cui è contenuta tutta la saggezza e al contempo tutta la
rassegnazione delle donne arabe, considerate alla stregua delle bestie, schiavizzate
prima dal padre e poi dal marito; condizione inaccettabile per una mentalità
emancipata e moderna come quella della protagonista. La figura di Zira però è
quella di una grande donna, dotata di un’incommensurabile forza morale, il cui
ricordo costituisce un arricchimento interiore e un insegnamento di vita. Nel
costruire questo personaggio, si è ispirata
ad esperienze personali?
M. Di Dio:
R: Amo l’Africa e ho visitato molti suoi Paesi.
Sono una viaggiatrice che “ruba ciò che vede e sente. Mi intrufolo nella vita
degli altri, cerco di carpirne i desideri, le speranze, le difficoltà e le
gioie. Questo mi è molto servito nell’elaborare romanzi e novelle anche se la
mia esigenza non è professionale, ma puramente istintiva.
-Ho conosciuto diverse donne che potrebbero
assimilarsi a Zina. Rappresenta l’anima
della donna araba. Ne incarna tutta la fragilità e la forza, in un chiaroscuro di difficile comprensione per
la nostra civiltà, ma di profondo spessore seduttivo.
G. Bosco:
D: A proposito della
narrativa dei grandi scrittori siciliani, quali Pirandello, Tomasi di Lampedusa
e altri, Sciascia ha introdotto la categoria di “sicilianità”, che si rivela
nella problematicità dei personaggi descritti, sempre alla ricerca di un
“altrove” o di una possibile identità. In un passo del romanzo, e precisamente
in uno dei tanti soliloqui di Sonia, c’è questa
amara riflessione: <<Ero senza un’identità precisa: italiana,
libica, egiziana […] io non ero una, ma tante, nessuna.>> In che modo la
sicilianità è presente nella scrittura di Maricla di Dio Morgano?
M. Di Dio:
R: Tra i moltissimi
autori con i quali ho condiviso infanzia e adolescenza, Pirandello era il mio
idolo. La sicilianità è sicuramente
presente in molti testi ambientati in Sicilia (Lena, L’Isola, La Siciliana, La
coda del diavolo, Donne… e una moltitudine di novelle.) In “donne di sabbia”
l’ambientazione e i profili dei vari personaggi sono molto lontani da quella
che potrebbe essere la mia ormai dichiarata sicilianità, ma se ne riscontra la
presenza proprio nel nucleo del racconto, ovvero, il tema dell’altrove nel
paradosso fuga-ricerca esistenziale, ed è infine, dichiaratamente
pirandelliana, la sintesi finale: l’allontanamento dalla realtà e il
progressivo accostamento alla follia.
G. Bosco:
D: La conclusione del
romanzo sembra aprire le porte alla speranza e rimanda ad un “altrove” come
luogo non definito, in cui finalmente Sonia e Carla possano incontrarsi e
restare per sempre insieme. Quale messaggio in realtà l’autrice ha voluto
trasmettere ai suoi lettori?
M. Di Dio:
R: Vi sono dolori che
la fragilità umana non supera e non trovano via d’uscita se non in quella sfera
(maledetta o sublime), detta follia. La follia potrebbe essere il luogo dove
rifugiarsi e ritrovarsi quando ogni altra speranza è vana. Un’opzione alla
morte fisica (che Sonia rifiuta per la figlia, non accettando la possibilità
dell’eutanasia). Cosa resta, quindi, se non
la follia che già serpeggia
nella povera mente di questa madre stremata da una inutile speranza, da anni
d’insonnia, dall’abbandono di se stessa?
Follia come unico, estremo rifugio. Il mondo estraneo a ogni realtà nel
quale portare con sé la sua creatura “ti porterò in un posto colmo di luce. E’
una strada facile. Dritta... Ecco il
cerchio magico dove tutto è possibile. Anche trovare un’assurda, impossibile
felicità.
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