27 gennaio 2016

SANTI E PORCI PER CARNEVALE

J. Bosch, Le tentazioni di S. Antonio




Con Sant'Antonio Abate (17 gennaio) comincia il carnevale. La leggenda narra che il maligno si manifestò sotto forma di maiale prima ancora che di femmina e la cosa da allora ha sempre sollecitato la creatività di artisti e scrittori.

Marino Niola
Il santo e il porco

Da sempre il porco regna incontrastato sul periodo più grasso e licenzioso dell’anno, il carnevale. A carnevale ogni scherzo vale e ciascuno è libero di fare i suoi porci comodi. Quello tra la festa più trasgressiva e la bestia più allusiva è un incontro largamente annunciato, visto che la nomea del suino come sex symbol è antichissima.

Fu Aristotele a consacrarne la fama, quando gli attribuì una natura sessuale particolarmente calda, facendone così il simbolo di un desiderio insaziabile, ma anche dell’abbondanza, della fecondità, dello scialo. Voluttuoso ma anche generoso. Del maiale, si sa, non si butta via niente. Come in altri campi dello scibile, anche in materia suina l'ipse dixit aristotelico è diventato legge e da allora il porcello è, per antonomasia, l’emblema dei piaceri della carne, in ogni senso del termine.

Forse anche per questo il cristianesimo, che riconobbe subito l’attrazione calorica ed erotica esercitata da questa energia vitale, ne fece un simbolo del basic instinct, l’icona della debolezza congenita della carne, sempre tentata dalle porcherie. O dalle maialate, se si preferisce. E addirittura la chiesa associò il maialino a uno dei suoi santi più popolari. Cioè Antonio Abate, il vecchio dalla barba bianca la cui ricorrenza, che cade proprio oggi, apre i battenti del carnevale.

A dire il vero, la sua figura avrebbe poco a che fare con lussurie e lascivie, frenesie e fantasie, eccitazioni e fornicazioni. Non ci indurre in tentazioni, potrebbe essere il suo motto. Perché nella realtà, storica e teologica, Antonio è stato un asceta del deserto, un eremita di costumi rigorosi e severi, considerato il fondatore del monachesimo cristiano. Visse nell’Egitto del terzo secolo dove passò gran parte della sua vita chiuso in una tomba scavata nella roccia a pregare, mortificarsi e autopunirsi, ad maiorem dei gloriam.

Ma cosa c’entra un sant’uomo del genere con la licenza del carnevale e con la concupiscenza del maiale? C’entra eccome! Perché il diavolo, che ci mette sempre la coda, indispettito dall’incorruttibile continenza del santo, lo sottopose a mille e una tentazione, nel tentativo di far divampare il fuoco che covava sotto quella cenere devota. Alcune storie narrano che il maligno gli apparve in forma di suino. Altre, absit iniuria, dicono che si manifestò sotto sembianze di femmina.

Due immagini non certo equivalenti, eppure equipollenti, perché rappresentano entrambi una sorta di apparentamento, perfino linguistico, tra corpo e porco. Riflettendo un’idea della carne come peccato originale, come impurità da emendare. Fatto sta che, sin dal Medioevo, la tentazione di sant’Antonio diventò un leitmotiv dell’immaginario colto e di quello popolare, dalla letteratura alle arti visive.

L’episodio ispirò a un pittore sensibile a visioni e allucinazioni come Hieronymus Bosch ben due dipinti. L’onirico Giardino delle delizie del Prado e, soprattutto, il vertiginoso Trittico delle tentazioni del Museu Nacional di Lisbona, dove il povero Antonio deve vedersela sia con delle donne vestite da sacerdoti che celebrano una messa satanica, sia con un uomo dal muso di porco. Il divino, l’umano e il bestiale. Un triangolo sconveniente su uno sfondo rosso ardente. È la fiamma del desiderio, difficile da controllare e dolorosa da spegnere. Che diventa croce e delizia della condizione umana. Nonché attributo iconografico del santo. Sempre rappresentato mentre tiene in mano una fiammella. Il fuoco di sant’Antonio, appunto. E con un maiale ai piedi.


Il grande Gustave Flaubert, in visita a Genova nel 1845, fu letteralmente folgorato da un quadro di Pieter Brueghel il Giovane, raffigurante l’eremita molestato dal demonio, che si trovava nella quadreria di Palazzo Balbi. «Darei un’intera collezione, più centomila franchi, per avere quel quadro» disse, esaltato e scottato dalle vampate di colore del fiammingo. Non tardò a tradurre la bruciatura in letteratura. E scrisse la celebre Tentazione di Sant'Antonio che, ai suoi occhi, diventa l’immagine stessa dell’uomo in lotta con le sue passioni.

Paul Valéry confessava di preferire la Tentation anche a Madame Bovary. Perché Flaubert non si era limitato a raccontare una storia di tentazione. Era riuscito addirittura a definire la «fisiologia della tentazione» come forza motrice della vita. In questo senso, Antonio è l’altro lato di Madame Bovary. Anche il Novecento delle avanguardie si è misurato con la storia del santo abate. Lo hanno fatto surrealisti col pennello, come Salvador Dalí che trasforma la lotta con il demonio in una processione di bestie apocalittiche. E surrealisti con la macchina da presa come Luis Buñuel, che alle tentazioni ha dedicato più di un capolavoro, da Salita al cielo a Simon del deserto.

Ma la più geniale variazione sul tema è quella offerta nel 1962 da Federico Fellini con Le tentazioni del dottor Antonio, uno dei quattro episodi di Boccaccio '70, sceneggiato da Tullio Pinelli e Ennio Flaiano. Con Peppino de Filippo nei panni del dottor Mazzuolo, un inflessibile guardiano della morale, posseduto da una divorante ossessione-passione per il corpo femminile. Nella fattispecie quello di una straripante Anita Eckberg che, dall’alto di un cartellone pubblicitario, lo tormenta con l’allusivissimo jingle “bevete più latte”.

Qualcuno ha visto nel sessuofobo moralista felliniano, che in una scena del film schiaffeggia una donna molto discinta, un’allusione a un episodio reale, con protagonista Oscar Luigi Scalfaro. Che in realtà, agli occhi del regista, sarebbe stato colpevole soprattutto di averchiesto il sequestro della Dolce Vita. Certo è che la vendetta di Federico il grande colpì nel segno, con la perfidia beffarda di un tiro a rientrare e la stralunata precisione di un’ellissi barocca.

Asceta e non solo. Accanto al sant’Antonio della cultura alta c’è quello completamente diverso della devozione popolare. Che ristilizza a proprio uso e consumo gli attributi del santo. La signoria sull’ardore delle passioni diventa padronanza del fuoco. E la sofferta familiarità con le tentazioni della carne, nonché con il porco che le incarna, si trasforma in amicizia con la bestia che è in noi. Non più l’anacoreta del deserto ma il santo del porcello. Capace di uccellare anche il diavolo a beneficio di quei poveri cristi di peccatori.

Una leggenda diffusa in tutta Europa, e riportata da Italo Calvino nelle Fiabe italiane, racconta che il misericordioso Antonio viene mandato a fare il portinaio all’inferno. Ma lascia sempre la porta semiaperta per far evadere le anime dei dannati. Allora viene richiamato sulla Terra ma, prima di tornare a riveder le stelle, con la complicità dell’inseparabile maialino, ruba un tizzone infernale e lo regala agli uomini.

Un Prometeo cristiano che diventa patrono degli animali e protettore del quarto stato. Di cui allevia la fame e le sofferenze. Fornendo calore e calorie. E rimedi contro le malattie. L’amico delle bestie, infatti, veniva invocato contro l’herpes zoster, il male che proprio da lui prende il nome di fuoco di sant’Antonio. E che, fino all’Ottocento, veniva curato dai monaci dell’ordine antoniano con la somministrazione di un unguento ottenuto dal grasso di maiale.

Un vero cortocircuito dell’immaginario che inverte il senso del rapporto tra tentazione e inibizione. Rendendo virtuoso quel che per il dogma era un circolo vizioso. Insomma una guerra degli appetiti che, mutatis mutandis, si continua a combattere anche oggi. Con la censura dietetica che ha sostituito quella religiosa nella lotta contro il carnevale dei nostri sensi.


La repubblica – 17 gennaio 2016

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