28 gennaio 2016

LETTERATURA E INCONSCIO


La letteratura senza inconscio

Simboli e racconti
Nel suo significato originario, il termine greco σύμβολον, da cui deriva l’italiano “simbolo”, indicava, cito l’Enciclopedia Treccani, un «mezzo di riconoscimento, di controllo e simili, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es. un pezzo di legno) che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia». L’etimologia del termine contiene dunque il senso di un’unità spezzata che tende al ricongiungimento, un collegamento implicito tra due oggetti ora separati ma che un tempo avevano fatto parte di una stessa totalità. Da qui il significato del termine è passato a indicare un oggetto “che sta al posto” di qualcos’altro, traslando l’idea della connessione dal piano della realtà (le due parti del bastone) a quella delle idee (il senso di amicizia tra le due famiglie). Questo è il presupposto che ha permesso di attribuire al concetto di simbolo una concezione estetica, differenziandolo progressivamente dal semplice “segno”.
In ambito letterario, pochi generi in epoca moderna si sono serviti del simbolo come il racconto breve. La short story, per l’economia imposta dalla sua lunghezza ridotta e per la struttura conclusa che lo caratterizza (anche quando è aperto o sospeso: Julio Cortázar, un grande scrittore di racconti dal significato multiplo, ha più volte paragonato il genere a «una sfera»), ha bisogno di poggiare la propria struttura su nuclei tematici forti e circoscritti, che ne limitino le derive ed esercitino una forza centripeta. Qualunque lettore abituale di racconti brevi registra immediatamente la presenza di questi “concentrati di senso” non appena li incontra, e li deposita nella propria memoria sapendo che quegli elementi combinati insieme andranno a comporre il senso del racconto. Spesso questi elementi hanno il valore di simboli; sempre si comportano come le due parti del σύμβολον greco, frammenti di un dispositivo semiotico più ampio che richiede il lavoro del lettore per essere riportato alla propria originaria unità.
È stato Immanuel Kant, nella Critica del giudizio (1790), a tracciare la distinzione fondamentale tra simbolo e segno. Il simbolo, per Kant, è una forma particolare di segno che, cito di nuovo la Treccani, «ha in sé determinazioni ulteriori e indefinite; di qui nasce la vaghezza del senso del simbolo, la sua allusività e inesauribilità». In altre parole, il simbolo è un segno ma è anche qualcos’altro: un segno dai contorni sfumati, potremmo dire, circondato di un alone più o meno ampio di significati collaterali o periferici. Nella storia della letteratura moderna, questo alone è andato di volta in volta ampliandosi o riducendosi, oppure cambiando connotazioni, a seconda della sensibilità artistica delle epoche storiche e dei movimenti artistici: molto ampio e indefinito nel Romanticismo, codificato nel Simbolismo, piuttosto preciso e psicologizzato nel Modernismo e così via fino ai giorni nostri.

Elefanti, pavoni, cani
Ernest Hemingway scrisse il racconto breve Colline come elefanti bianchi nel 1927 e lo pubblicò sulla rivista parigina di letteratura sperimentale transition; quello stesso anno lo incluse nella sua seconda raccolta di racconti, Men Without Women, la quale fu successivamente accorpata ai Quarantanove racconti nel 1938. Il racconto, tra i più studiati nei licei e nelle università di mezzo mondo come esempio paradigmatico del simbolismo modernista, racconta una storia semplice: mentre aspettano un treno in un piccolo paese spagnolo, un uomo e una donna discutono dell’eventualità che lei abortisca. Né l’aborto né i dettagli della relazione tra i due vengono mai esplicitati (da quanto tempo si conoscono? sono sposati? è lui il padre del bambino? si intuirebbe di sì, ma nel corso del racconto, lungo solo quattro pagine, non viene mai detto chiaramente), lasciando al lettore il compito di completare i tanti buchi lasciati dalla prosa essenziale e distaccata. In questo, com’è noto, consiste la “teoria dell’iceberg” di Hemingway: lo scrittore si occupa di esplicitare solo una parte molto piccola della storia che sta raccontando, lasciando sommersi i nuclei tematici profondi allo stesso modo in cui l’aera emersa costituisce solo una piccola un iceberg.
Così, quando la ragazza del racconto paragona le colline spagnole a elefanti bianchi, il lettore anglofono percepisce il significato dell’espressione idiomatica “elefante bianco”, che l’Oxford Dictionary definisce come «un possesso che è inutile o dannoso, specialmente se costoso o di cui è difficile liberarsi»: la ragazza si riferisce naturalmente al bambino che porta in grembo. Il modello di Hemingway dunque è costruito secondo un’opposizione netta tra superficie e profondità, che ricalca quella tra significato e significante, dove qualcosa (l’elefante) sta al posto di qualcos’altro (la gravidanza indesiderata). Una rappresentazione schematica di questo modello può essere vista nella Figura 1:
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Nel 1983 uno scrittore postmoderno che a Hemingway deve molto della sua tecnica letteraria, Raymond Carver, dava alle stampe la sua terza raccolta di racconti, Cattedrale. Il racconto che apre la raccolta, intitolato Penne, presenta una situazione per certi aspetti simile a Colline come elefanti bianchi: un uomo e una donna si trovano a vivere una situazione che farà loro cambiare idea sulla possibilità di una gravidanza. Jack e Fran, una coppia senza figli, vanno a cena da Bud, un collega di Jack, e da sua moglie Olla. La cena, a cui inizialmente Fran non voleva partecipare, si rivela fin da subito imbarazzante e costellata di piccoli eventi inquietanti: la coppia possiede un pavone; Olla non è particolarmente desiderabile e il figlio della coppia è decisamente brutto; su una mensola vicino alla televisione si trova un calco dei denti storti di Olla prima che Bud pagasse per l’operazione odontoiatrica che li ha sistemati. Tuttavia, nel corso della serata diventa sempre più chiaro che Ollaha avuto da Bud quello che voleva e che in definitiva la coppia è felice, mentre Frannon è pienamente felice della sua vita con Jack. Il sogno da bambina di Olla era avere un pavone e l’ha coronato; quello di Fran era visitare il Canada, ma Jack non ce l’ha mai portata.
Nel racconto di Carver il pavone svolge lo stesso ruolo dell’elefante in quello di Hemingway, è cioè il simbolo visibile di qualcosa di nascosto sotto la superficie. Tuttavia, il racconto di Carver è più inquietante di quello di Hemingway, al punto da lambire i confini del genere horror: i denti di Olla sono mostruosi, il bambino sembra inumano, il pavone emette suoni alieni camminando sul tetto, in televisione viene mostrato un catastrofico incidente stradale. Sembra chiaro che l’alone di significati secondari nel simbolo di Carver è molto più ampio di quello di Hemingway, tanto da sfumare in un senso di minaccia generalizzato che travalica la storia personale di Jack e Fran. Carver, scrittore postmoderno, vive in un mondo senza più certezze, che si regge in equilibrio precario sull’orlo di un abisso. Ecco perché, come si può vedere dalla Figura 2, il significato profondo di cui il pavone (e i denti, e il bambino) è il significante non è più solamente un’entità univoca (le cose che Jack non ha dato a Fran), ma anche il terrore che si nasconde dietro la faccia quotidiana dell’America degli anni Settanta. Il simbolo è un meta-simbolo, il rapporto tra superficie e profondità si è parzialmente interrotto:
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Dopo aver preso in esame uno scrittore reduce da entrambe le guerre mondiali e uno che ha raccontato l’America del post-Vietnam, sembra coerente chiudere questa carrellata di animali con il lavoro di Phil Klay, veterano dei marines nato proprio nell’anno in cui Carver pubblicava Cattedrale, il 1983, che nel 2014 ha pubblicato una sorprendente raccolta di racconti di guerra intitolata Fine missione. Il racconto omonimo, che apre la raccolta, comincia così: «Sparavamo ai cani. Non per sbaglio. Lo facevamo di proposito, e la chiamavamo Operazione Scooby. Io amo i cani, per questo ci ho pensato parecchio». Come scrittore di racconti, Klay si inserisce molto chiaramente in quella tradizione consacrata all’essenzialità della prosa di cui Hemingway e Carver sono i principali esponenti, e la riga di apertura fa immediatamente scattare nel lettore abituale di short stories il riconoscimento di uno di quei conglomerati di senso chereggono la struttura di un racconto breve. Tuttavia il racconto di Klay prosegue per un lungo momento seguendo altre strade: il narratore, conclusa la sua missione, viene mandato a casa negli U.S.A. e durante il viaggio lui e i suoi compagni fanno scalo da qualche parte in Irlanda dove si ubriacano per la prima volta dopo molti mesi.
Alla fine però un altro cane compare, chiudendo almeno in apparenza il cerchio: tornato a casa dalla moglie, il narratore scopre che il cane che hanno adottato anni prima in un canile è anziano e malato, e per non farlo soffrire ulteriormente, quando si accorge che non c’è speranza di guarigione, lo porta in un campo e gli spara. Un cane ucciso apre il racconto, un cane ucciso lo chiude: a prima vista sembrerebbe un dispositivo semiotico dei più semplici, costruito su una semplice opposizione (sparare a un cane in guerra / sparare a un cane nella vita civile) la cui tensione narrativa deriva, come già in Hemingway e Carver, dal rapporto del protagonista con la moglie.
Una lettura più approfondita del racconto mostra però che nessuna di queste ipotesi è corretta. È vero che il protagonista e sua moglie devono affrontare delle difficoltà dopo il ritorno di lui dall’Iraq, ma queste difficoltà sono così esplicitate da Klay che la tensione narrativa è pressoché inesistente. Allo stesso modo, l’uccisione del cane Vicar nel finale viene direttamente associata dal protagonista alla tecnica di uccisione a cui sono addestrati i marines in guerra: è una scena potente, dolorosa, ma che non rimanda a nessuna “profondità nascosta” come nel caso di Hemingway e di Carver. In altre parole, il cane del racconto di Klay non solo non è un simbolo, ma nemmeno “sta per” qualcos’altro: qui l’iceberg di Hemingway è del tutto emerso. Non si tratta tanto di un’assenza del significato, come in certi quadri astratti, ma di una perfetta sovrapposizione del significato al significante, tanto che sarebbe più corretto dire che il cane nel racconto di Klayè un simbolo del cane. Questa particolare condizione del simbolo letterario nella narrativa contemporanea può essere schematizzata come nella Figura 3:
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Roland Barthes ha scritto, ne L’impero dei segni (1970), che la caratteristica fondamentale dell’haiku giapponese è «l’esenzione del senso», mostrando come in questa forma d’arte non esista profondità ma solo superficie e come, dunque, commentarla sarebbe impossibile: «parlare dello haiku sarebbe semplicemente ed esattamente ripeterlo». Qualcosa di molto simile si potrebbe dire per il cane di Klay. Dobbiamo concluderne che la narrativa occidentale si sta orientalizzando? Che dopo il postmoderno viene lo Zen? Non proprio.

La fine della profondità

Nel 2010 lo psicanalista Massimo Recalcati ha pubblicato L’uomo senza inconscio, nel quale adatta alcuni punti chiave del pensiero di Jaques Lacan alla clinica di quelli che definisce, sulla scorta dei lavori di Gilles Lipovetsky, «i tempi ipermoderni». Il punto centrale dell’argomentazione di Recalcati è semplice e potente: nel disagio psichico contemporaneo gioca un ruolo sempre meno importante il cosiddetto soggetto dell’inconscio, quell’entità desiderante che manifesta alla superficie le istanze inconsce attraverso i sintomi e altre forme simboliche di rappresentazione. A essere entrato in crisi è nientemeno che il modello tradizionale della psicanalisi freudiana, perché il conflitto non sorge più da un desiderio (inconscio) che si scontra con un ordine regolatore (di tipo sociale o individuale) manifestandosi alla coscienza sotto forma di sintomo (un segno, qualcosa che “sta per” qualcos’altro); al contrario il sintomo viene sostituito da «forme verticali di scissione», come ad esempio l’identità narcisistica che si compatta su sé stessa per difendersi dall’angoscia) in cui l’opposizione fondamentale non è più quella tra superficie e profondità.
Tra gli esempi portati da Recalcati (tossicodipendenze, anoressia) quello più calzante ai fini del nostro discorso sono i disturbi psicosomatici,  nei quali «il corpo espone una lesione muta, mostra un segno privo di significazione, un reale refrattario al potere del simbolico, una cifra che resta indecifrabile»: siccome manca «la natura simbolica del sintomo isterico», il fenomeno psicosomatico «anziché prendere la via della metafora s’incarna direttamente nel corpo, cortocircuita con il reale del corpo senza alcuna mediazione simbolica producendosi direttamente come lesione».
Senza entrare nel dettaglio dell’analisi psicanalitica, ci sono ancora due punti che mi sembra necessario sottolineare nel discorso di Recalcati. Il primo è la stretta connessione tra queste nuove forme di disagio e la tecnologia. Se infatti da un lato «Lacan assimilava, nella conferenza di Ginevra del 1975 dedicata al Sintomo, il fenomeno psicosomatico al numero», si capisce come mai l’uomo senza inconscio è la figura clinica per eccellenza in un tempo dove a regnare sono «il numero, la cifra, la comparazione quantitativa, la quantificazione scientista, la negazione del desiderio come impossibile da misurare»: perché, appunto, il soggetto dell’inconscio si manifesta nell’incontro con un Altro irriducibile alla dimensione razionale (Freud lo chiamava “il perturbante”) e scompare quando questa dimensione viene totalmente inglobata nel dominio della normazione scientifica. In secondo luogo Recalcati accenna una periodizzazione del fenomeno non solo quando identifica la nuova clinica in un quadro di passaggio dal postmoderno ai “tempi ipermoderni”, ma anche quando scrive che «la nostra idea di fondo è che, dagli anni Settanta a oggi, si è verificata una trasformazione inedita di quello che Freud definiva “Superio sociale” […]. Sino agli anni Settanta il comandamento del Superio sociale aveva assunto le forme del dovere morale […], la “morale civile” dell’uomo occidentale; il fulcro di questo comandamento prevedeva che l’accesso alla Civiltà […] avvenisse a condizione di un sacrificio di godimento».
Il risultato di questa trasformazione storico-psichica è per Recalcati che le nuove forme del disagio «s’impongono piuttosto come evidenze fuori discussione: il tossicomane è un tossicomane, l’anoressica è un’anoressica, il depresso è un depresso. La funzione enigmatica del sintomo metaforico viene sostituita da una nominazione identitaria assicurata dal sintomo stesso». Recalcati sostiene, in altre parole, che all’incirca dalla generazione dei nati negli anni Settanta in poi, e su forte spinta della tecnologia, la psiche dell’uomo occidentale abbia progressivamente perso contatto con il proprio inconscio appiattendo la propria dimensione esistenziale a livello della superficie, del significante o del corpo. Nel paragrafo precedente abbiamo visto come nel racconto di Phil Klay il cane “sta per” il cane, in una coincidenza di significato e significante che è anche elisione del simbolo in favore di un’evidenza situata tutta a livello della superficie (ciò che il lettore può effettivamente leggere, il racconto esplicito). Il parallelismo è abbastanza netto da farmi avanzare la prima delle due ipotesi alla base di questo saggio: che la letteratura dei tempi ipermoderni sia essenzialmente una letteratura senza inconscio. Nei paragrafi successivi cercheremo di capire cosa questo significhi nel concreto.

Corpi

Un’obiezione valida al discorso fatto fino a questo punto potrebbe essere la seguente: chi dice che il racconto di Klay non sia un’eccezione? Per un cane che “sta per” un cane ci saranno nella letteratura contemporanea decine di cani che “stanno per” qualcos’altro, che simboleggiano un referente profondo nascosto al di sotto della superficie del testo. Probabilmente questo è vero, ma nella narrativa contemporanea gli esempi di letteratura senza inconscio sono moltissimi. Eccone una lista:
– Nel racconto Dentophilia di Julia Slavin (1999) a una donna crescono denti su tutto il corpo; gli altri racconti della raccolta, intitolata La donna che si tagliò una gamba al Madison Club, sono all’incirca dello stesso tenore: una donna si taglia una gamba per sfuggire al prurito, un’altra ingoia intero il proprio giardiniere. La raccolta di Julia Slavin viene generalmente considerata l’apripista del Realismo Magico statunitense, una piccola corrente di cui fanno parte anche Aimee Bender e alcuni lavori di A. M. Homes. Nella raccolta di racconti Creature ostinate di Bender (2006) ci sono donne i cui figli sono ortaggi e bambini nati con un ferro da stiro al posto della testa; nel suo ultimo romanzo pubblicato in Italia, L’inconfondibile tristezza della torta al limone (2011), la protagonista Rose prova le emozioni di chi ha cucinato il cibo che mangia (e più avanti nel libro suo fratello Joseph si trasforma in una sedia). In tutti questi casi il simbolo prende forma nel corpo dei personaggi: è molto difficile dire cosa rappresentino i denti che crescono sul corpo della donna nel racconto di Slavin;
– Probabilmente il simbolo più potente di tutta l’opera di Jennifer Egan si trova in Il tempo è un bastardo (2010), quando di Rolph, morto suicida a ventotto anni, viene detto che aveva un corpo privo di segni perché «il segno era ovunque. Il segno era la giovinezza». La giovinezza (ma una giovinezza dalla quale non riesce a uscire, quindi anche la morte) si incide sul suo corpo nella forma dell’assenza di segno, di un’impenetrabilità del corpo alla trasformazione: siamo nello stesso territorio della «esenzione di senso» che Roland Barthes associava allo haiku. Ma siamo anche, al di là di ogni ragionevole dubbio, nel campo del corpo come «lesione muta, segno privo di significazione, cifra che resta indecifrabile» di cui parlava Recalcati in relazione al fenomeno psicosomatico;
– Il romanzo C di Tom McCarthy è in parte la storia del laborioso (e fallimentare) tentativo da parte di Serge Carrefax di conferire un senso alla propria storia personale attraverso una serie di indizi frammentari che emergono alla sua coscienza sotto forma di segnali cifrati (corporali e psichici, ma anche tecnici come i frammenti di messaggi radiofonici che capta attraverso un’antenna rudimentale). Da un altro punto di vista, C è un saggio critico sull’impossibilità di decifrare il senso del segno letterario, di svelare quello che altrove McCarthy ha definito «il segreto della letteratura». Infine C, che è la rielaborazione di un famoso caso clinico di Freud, è una riflessione sul fallimento della psicanalisi in tempi in cui il corpo, la mente e il linguaggio umani sono completamente colonizzati dal discorso tecnologico. L’epilogo di queste tre tracce sovrapposte è sempre lo stesso. Al momento della sua morte, Serge incontrerà finalmente la profondità che sottende la saturazione di significanti nei quali si è mosso per tutta la vita: quello che trova è un’interferenza, un rumore inintelligibile, la cacofonia di tutti i significanti sovrapposti che non producono alcun senso;
– Ma soprattutto l’esempio più importante, sia in termini di frequenza nelle ricorrenze che di rilievo letterario, è quello rappresentato dalla letteratura di testimonianza che dal 2000 a oggi ha ottenuto tanto successo. Non mi riferisco tanto al memoir, con cui comunque condivide molti aspetti, quanto a quella scrittura in cui l’autore che si pone come “testimone” di un fatto storico o di un particolare contesto (il mondo della prostituzione, il traffico di stupefacenti) normalmente non accessibile al lettore comune: William Vollman, ad esempio, o il suo seguace Roberto Saviano. Come ha scritto giustamente Giordano Tedoldi in un articolo[1] dedicato al premio Nobel a Svetlana Aleksievic, la letteratura di testimonianza è caratterizzata da una «ossessione per il corpo», e in quanto tale «è una letteratura di superficie», non prova interesse per la dimensione psichica perché essa è una dimensione della profondità, “non misurabile” direbbe probabilmente Recalcati. Il che solleva un punto importante nel nostro discorso: l’idea, veicolata dalla letteratura di testimonianza come da altre forme di scrittura personale, che ciò di cui posso fare esperienza fisica sia anche reale, anzi sia la Realtà, e in quanto tale abbia un valore letterario in sé. Ma siamo proprio sicuri che le cose siano così semplici?

Il Nuovo Realismo letterario come equivoco

Nel 2012 il filosofo Maurizio Ferraris ha dato alle stampe il Manifesto del Nuovo Realismo, libro con il quale ha popolarizzato la sua fortunata teoria per il superamento dell’impasse del pensiero postmoderno. L’argomentazione di Ferraris, riassunta ai minimi termini, è la seguente: con il suo accento sull’ermeneutica, il postmoderno ha progressivamente delegittimato il concetto di realtà aprendo la strada al populismo: il punto di non ritorno del cosiddetto “pensiero debole”, logica conseguenza della “fine delle grandi narrazioni” di cui aveva parlato Lyotard negli anni Settanta, sarebbe dunque un processo di interpretazione infinita nel quale a soccombere sono le idee illuministe di progresso e oggettività. Uscire dall’impasse postmoderna significa dunque per Ferraris recuperare quella base di realtà (l’ontologia) che rende i fatti «inemendabili», impossibili da correggere (o manipolare, o distorcere) tramite l’applicazione di categorie culturali.
La proposta di Ferraris è figlia dell’11 settembre, prova suprema che i fatti esistono al di là delle interpretazioni: “emendare” l’attacco alle Twin Towers è effettivamente problematico. Tuttavia si inserisce in un più ampio percorso di recupero del valore culturale della realtà anche in altri settori, come è facile constatare pensando al boom del reality e del memoir rispettivamente nelle forme audiovisive e in letteratura dagli anni Novanta in poi. Quello che a noi interessa maggiormente è però il concetto di «inemendabilità», che nella letteratura di testimonianza è stato interpretato come un fattore essenzialmente corporale: niente è più inemendabile delle cicatrici che mi sono provocato a Fukushima, a Chernobyl, nella guerra dei Balcani o nella lotta alla mafia. Un discorso che vale in larga parte anche per il memoir, visto che ancora meno emendabile di guerre e catastrofi sono la malattia personale, la morte di un parente, la discesa nelle spirali dell’alcol o della droga.
Non entro nel merito della questione filosofica. Mi limito a dire che in letteratura l’assunto per cui l’inemendabilitàè un attributo della realtàè quantomeno problematico, visto che stiamo parlando non dei fatti, ma della loro rappresentazione: per questo il realismo letterario, come ha detto Walter Siti, è «l’impossibile» per eccellenza. Ne consegue che l’appiattimento sulla superficie che abbiamo visto essere la caratteristica fondamentale della narrativa “ipermoderna” difficilmente, e con buona pace della letteratura di testimonianza (questo sia detto al di là dei meriti), potrà essere la realtà. Se del binomiotra realtà e rappresentazione solo uno dei due poli è destinato a sopravvivere, non c’è dubbio che nelle arti si tratterà del secondo: la letteratura senza inconscio, dunque (è la seconda tesi che sostengo) è anche una letteratura di pura rappresentazione.
Conclusione: autofiction e appiattimento dello sguardo

Quanto detto finora ci porta, per concludere, a un’ultima osservazione. Insieme al memoir e alla letteratura di testimonianza, un altro genere in cui questo “ritorno della realtà” si è fatto particolarmente sentire è quello della cosiddetta autofiction: romanzi e racconti che mescolano senza soluzione di continuità realtà e finzione. A differenza della letteratura di testimonianza, l’autofiction non afferma alcuno statuto di verità o autenticità: piuttosto gioca con l’assottigliamento dei confini e, in maniera postmoderna, con i mescolamenti di genere (Guarigione di Cristiano De Majo, ad esempio, gioca con il memoir, in un discorso tutto interno alla “letteratura della realtà”).
C’è voluto il libro di Ben Lerner, Nel mondo a venire (2014), per sradicare definitivamente il concetto di realtà come profondità dall’autofiction. Un libro scritto in prima persona come un memoir, da un autore che è in primo luogo un poeta, che riflette sulla letteratura citando un grande classico della fiction popolare come Ritorno al futuro: poche opere avrebbero potuto combinare meglio postmoderno e suo superamento. Nel mondo a venire dimostra meglio di qualsiasi altro lavoro letterario finora che l’autofiction non porta nessuna prova di “inemendabilità”, anzi sostiene implicitamente il contrario: anche ciò che appare inemendabile è in effetti in possesso di una natura ontologicamente instabile. Più precisamente l’autofiction fa un passo ancora successivo verso l’appiattimento della prospettiva comportandosi esattamente come si comporta il Google Glass o qualsiasi altro dispositivo per la realtà aumentata: include in uno stesso sguardo realtà e rappresentazione, mondo e commento sul mondo, significato e significante. E dunque, terza tesi sostenuta in questo saggio, non c’è letteratura senza inconscio più netta dell’autofiction.
Si tratta di un bene o un male per il futuro della letteratura? La sparizione del soggetto dell’inconscio è un problema per Recalcati, il ritorno del reale è un bene per Ferraris. Nel contesto del nostro discorso il fatto che il cane di Klay stia al posto del cane, che significante e significato si sovrappongano, non ha una connotazione morale: partecipa, come altre manifestazioni (la mappatura planetaria del territorio, ad esempio, o le sculture iperrealiste senza spessore di Ron Mueck) di un più generale processo di trasformazione a cui la cultura occidentale sta andando incontro e che rappresenta, mi sembra, una delle principali cifre distintive del XXI secolo.

[1] http://www.rivistastudio.com/standard/uno-scrittore-ti-salvera/

Testo ripreso da http://www.minimaetmoralia.it/  pubblicato giovedì, 28 gennaio 2016

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