“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
28 marzo 2025
LEONARDO SCIASCIA SULLA COSTITUZIONE
«Capisco che ci sia, da parte dei fanatici, la esigenza di etichettarmi una volta per tutte o come rivoluzionario o come reazionario. I fanatici hanno bisogno di star comodi. Per mia parte, dico di essere semplicemente, in questo momento, un conservatore. Voglio conservare, di fronte allo Stato che se ne è svuotato, la Costituzione. Voglio conservare la libertà e la dignità che la Costituzione mi assicura come cittadino; e la libertà di cui ho goduto come scrittore, e la dignità che come scrittore mi sono guadagnata. Questa libertà e dignità sento oggi che sono in pericolo. In quanto cittadino capisco - ma non approvo - che molti siano disposti a barattare libertà e dignità per un po' di ordine pubblico, di sicurezza: in quanto scrittore mi batterò affinché questo baratto non si compia. Metto in conto la sconfitta, e anzi la prevedo: ma non posso che battermi, finché avrò un margine, sia pur piccolo, sia pure insicuro. Il ripristino dell'ordine pubblico, da noi è sempre stato pagato caro: a prezzo di un più vero e profondo disordine, che corrode anche le menti più lucide e le coscienze più nette. Ed è già cominciato, a guardar bene».
Leonardo Sciascia, La palma va a nord, Gammalibri, Milano 1982 (brano tratto da un articolo su Panorama, Aprile 1978).
27 marzo 2025
LE CLASSI DIRIGENTI EUROPEE SONO IMPAZZITE
"Alla Commissione Europea ci hanno spiegato che dobbiamo armarci fino ai denti perché incombe la minaccia di un'invasione da parte della prima o seconda potenza nucleare del pianeta.
Poi ci hanno raccomandato di tenere scorte necessarie per 72 ore (perché 72 e non 48 o 96? Boh.)
Fino a questo punto c'erano tutti gli elementi per credere che stessero prendendo maledettamente sul serio una minaccia che il buon senso comune reputa del tutto remota.
Ma poi, ecco che arriva un video.
Protagonista, da attrice consumata, la Commissaria Europea Hadja Lahbib (Commissaria specificamente per la parità, la preparazione e la gestione delle crisi, dunque non una che passava di là).
Il video è assolutamente sconcertante.
Il tono è lieve, salottiero, con un sottofondo da piano bar con aperitivo; si succedono umorismo e garbatezza; e si squaderna un incredibile pressapochismo in tutto ciò che viene detto (se qualcuno avesse la tentazione di prenderlo sul serio).
Infatti - esattamente come nel caso di minaccia bellica - se qualcuno volesse davvero "prepararsi a una crisi" deve prepararsi a una crisi specifica.
Viene meno il riscaldamento? L'elettricità? Il tetto sulla testa? C'è un'alluvione? Un terremoto? Un bombardamento? Una perdita di gas? Una contaminazione radioattiva? Sei vicino al mare o in montagna o in pianura? Devi poterti muovere a lungo o stare in un luogo? In un centro urbano o in una periferia agricola? Perché non una coperta termica? Perché non un binocolo? Perché non una corda? Perché non un asciugamano come nella Guida Galattica per Autotoppisti? Ecc. ecc.
Semplicemente NON ESISTE il "prepararsi ad una crisi" quale che sia. Devi sapere quale tipo di imprevisto, quale crisi.
E invece no, con quell'aria serena di chi casca sempre in piedi e può ironizzare su tutto, con il tono di simpatia paternalistica di chi si abbassa a spiegare alla mesta plebe alcune chicche da "survivalist" la nostra commissaria procede nella sua narrazione.
Ecco i documenti di identità, ecco l'accendino, ecco le carte da gioco per distrarsi. Quando ha estratto con aria maliziosa il suo "special friend" ci si aspettava, coerentemente con il contesto, che comparisse un dildo.
Il discorso sulla borsetta della resilienza si conclude con un momento di serietà, in cui ogni speranza che si trattasse di cabaret, svanisce:
"The EU is preparing its strategy to be sure that every citizen is safe in case of crisis. Be prepared, be safe."
[L'UE sta preparando la sua strategia per garantire che ogni cittadino sia al sicuro in caso di crisi. Siate preparati, siate al sicuro.]
Ora, di fronte ad un video del genere fluttua l'eterna drammatica questione:
"Ci sono o ci fanno?"
Qualcuno potrebbe azzardare un'interpretazione machiavellica, pensando che un video del genere sia una semplice operazione di distrazione pubblica: ci fanno discutere di video demenziali mentre cose più importanti e drammatiche covano nelle segrete stanze. Forse, ma improbabile. I palazzi di Bruxelles, nonostante la trasparenza degli edifici, sono il luogo più opaco del mondo, e non c'è bisogno di ulteriori distrazioni che facciano da copertura.
No, credo che l'interpretazione possibile sia una sola, tragica: questa gente è davvero così completamente sprovveduta, vacua, impreparata come sembra; è così scollegata dalla realtà, da non percepire l'assurdità dei propri gesti. La sicurezza da ricchi che promana da ogni gesto è quella della Contessa Serbelloni Mazzanti Vien dal Mare che invita i ragionieri alla polentata.
E il problema, naturalmente, non sono i video involontariamente umoristici, ma lo sguardo che ci consentono di gettare su istituzioni da cui dipende il funzionamento delle nostre scuole o del servizio sanitario, da cui dipendono i rapporti internazionali, da cui dipendono occupazione o disoccupazione, da cui dipende la produzione industriale, da cui dipendono guerra e pace.
In questo momento, come un lampo che squarcia le tenebre notturne, per un istante si riesce a vedere cosa si agita dietro le quinte e si mettono in fila con coerenza i tappi di plastica che non si staccano, le politiche green di autoevirazione industriale, i contratti miliardari per la fornitura di 10 vaccini a testa fatti via sms (e distrattamente cancellati), e la sfida in leasing alla Russia (si finalizza nel 2030, intanto paghiamo le rate), ecc. ecc.
A morte il tedioso principio di realtà: finalmente la fantasia al potere.
Tanto il conto è a carico vostro.”
Andrea Zhok
CON DANILO DOLCI PER LA PACE
IL COSTANTE IMPEGNO DI DANILO DOLCI
PER LA NONVIOLENZA e LA PACE NEL MONDO
Danilo Dolci, con Aldo Capitini e Bertrand Russell, sono stati forse gli uomini più impegnati del 900 a promuovere il valore della nonviolenza e a difendere la Pace nel mondo.
Come è noto il massimo teorico italiano della nonviolenza è stato Aldo Capitini (1899-1968) e si sa che il pensiero e l’opera del filosofo perugino sono stati un modello costante per Dolci. Fin dal principio, infatti, Danilo ha trovato in Capitini un fondamentale punto di riferimento. A partire dal suo primo digiuno del 1952 a Trappeto, nel lettino del bambino morto d’inedia, al famoso “sciopero alla rovescia” del 1956, Danilo ha trovato nell’autore de Il potere di tutti (1969) uno dei suoi principali sostenitori. Danilo è rimasto fedele allo spirito del suo insegnamento persino quando ha dissentito da alcune sue posizioni. Basti ricordare, per tutti, il modo in cui Danilo accolse nel 1958 il Premio Lenin per la Pace conferitogli dall’ URSS di N. Krusciov. (CONTINUA)
FEDERICO SANGUINETI CI HA LASCIATI
Una grave perdita per la letteratura italiana contemporanea. Non ero sempre d'accordo con lui ma apprezzavo tanto il suo spirito critico ed eretico. Ci mancherà. (fv)
UN GENIO INDIMENTICABILE
"Se si domanda a Tizio, che non ha mai studiato il cinese e conosce bene solo il dialetto della sua provincia, di tradurre un brano di cinese, egli molto ragionevolmente si meraviglierà, prenderà la domanda in ischerzo e, se si insiste, crederà di essere canzonato, si offenderà e farà ai pugni.
Eppure lo stesso Tizio, senza essere neanche sollecitato, si crederà autorizzato a parlare di tutta una serie di quistioni che conosce quanto il cinese, di cui ignora il linguaggio tecnico, la posizione storica, la connessione con altre quistioni, talvolta gli stessi elementi fondamentali distintivi. Del cinese almeno sa che è una lingua di un determinato popolo che abita in un determinato punto del globo: di queste questioni ignora la topografia ideale e i confini che le limitano".
ANTONIO GRAMSCI, Passato e presente. QUADERNI DEL CARCERE
IN DIFESA DEI PACIFISTI SENZA SE E SENZA MA
Modesta difesa del pacifismo
Di fronte al concreto rischio di un allargamento del conflitto si assiste a una paradossale criminalizzazione delle istanze pacifiste.
Silvano Fuso
Conservo gelosamente una lettera autografa di Carlo Cassola (1917-1987), datata 9 luglio 1982. Il grande scrittore, molto cortesemente, rispose a un mio quesito che gli posi in quanto all’epoca era presidente della Lega per il Disarmo Unilaterale, alla quale mi ero iscritto da qualche tempo.
Avevo oramai deciso che sarei stato obiettore di coscienza nei confronti del servizio militare cui ero destinato dallo Stato. Per la legge dell’epoca, per essere riconosciuto obiettore, avrei dovuto sostenere un colloquio presso la locale caserma dei carabinieri che avrebbe dovuto accertare le reali motivazioni della mia scelta.
Per legge era necessario dichiararsi non violenti e qui nasceva un mio dubbio morale sul quale chiedevo consiglio a Cassola. Sono sempre stato un tipo pacifico e contrario alla violenza, però la non violenza intesa in senso assoluto mi sembrava eccessiva. Tanto per fare un esempio, di fronte a un pazzo che dà in escandescenza e che non sente ragione, l’uso della forza mi pare inevitabile. Da qui il mio dubbio morale giovanile nel dovermi dichiarare non violento tout court. Cassola, senza esitazione mi rispose testualmente: “Caro Fuso, La consiglio di mentire: qualsiasi sotterfugio è lecito per evitare la fine del mondo”.
Seguii il suo consiglio, sostenni il colloquio, la mia domanda di obiezione venne accettata e feci il mio servizio civile sostitutivo di quello militare (26 mesi: 18 perché ero di Marina + 8 mesi “punitivi” cui andavano incontro gli obiettori all’epoca).
La mia scelta antimilitarista era maturata da tempo, grazie alle mie letture e a due autori in particolare: Albert Einstein (1879-1955) e Bertrand Russell (1872-1970).
Di Einstein mi aveva entusiasmato questa frase:
Questo argomento mi induce a parlare della peggiore fra le creazioni, quella delle masse armate, del regime militare voglio dire, che odio con tutto il cuore. Disprezzo profondamente chi è felice di marciare nei ranghi e nelle formazioni al seguito di una musica: costui solo per errore ha ricevuto un cervello; un midollo spinale gli sarebbe più che sufficiente. Bisogna sopprimere questa vergogna della civiltà il più rapidamente possibile . L’eroismo comandato, gli stupidi corpo a corpo, il nefasto spirito nazionalista, come odio tutto questo! E quanto la guerra mi appare ignobile e spregevole! Sarei piuttosto disposto a farmi tagliare a pezzi che partecipare a una azione cosi miserabile. Eppure nonostante tutto, io stimo tanto l’umanità da essere persuaso che questo fantasma malefico sarebbe da lungo tempo scomparso se il buonsenso dei popoli non fosse sistematicamente corrotto, per mezzo della scuola e della stampa, dagli speculatori del mondo politico e del mondo degli affari. (E. Einstein, Come io vedo il mondo, 1934).
E di Russell quest’altra:
Si dà per scontato che una nazione che non si oppone alla forza con la forza debba essere mossa da viltà, e debba perdere tutto ciò che di prezioso c’è nella sua civiltà. Entrambe queste supposizioni sono illusorie. Opporsi alla forza con la disobbedienza passiva richiede più coraggio e molto probabilmente conserverebbe gli aspetti migliori della vita nazionale. E inoltre sarebbe più efficace nello scoraggiare l’uso della forza. Sarebbe la via della saggezza pratica se gli uomini fossero indotti a credervi. Ma temo che essi siano troppo legati alla convinzione che il patriottismo è una virtù e troppo smaniosi di dimostrare la propria superiorità agli altri in un contesto di forza. (B. Russell, “War and Non-Resistance”, Atlantic Monthly, 1915. Testo integrale: http://fair-use.org/atlant…/1915/08/war-and-non-resistance)
Questi due brani mi sono venuti inevitabilmente in mente fin dal 24 febbraio, giorno dell’ignobile attacco russo all’Ucraina. All’epoca della mia scelta di obiezione di coscienza lessi molta letteratura pacifista, antimilitarista e non violenta condividendola quasi in toto (eccezion fatta per alcune derive estremiste della non violenza da cui nasceva il dubbio che espressi a Cassola).
Nei decenni successivi mi occupai molto meno della questione. Ingenuamente pensavo che certe idee pacifiste e antimilitariste fossero oramai divenute patrimonio del comune modo di pensare. Per fare un paragone, fin da ragazzo sono sempre stato molto sensibile ai diritti delle persone LGBT+ e, nel corso dei decenni, ho effettivamente osservato, con soddisfazione, che la società ha fatto significativi progressi nel loro riconoscimento (anche se molto resta ancora da fare). Ingenuamente, dicevo, mi illudevo che progressi analoghi fossero stati fatti anche per quanto riguarda i problemi della pace e della guerra. Purtroppo ho dovuto constatare con estrema amarezza che non è affatto così.
Di fronte alle atrocità della guerra in Ucraina e al concreto rischio di un allargamento del conflitto su scala globale (con inevitabile catastrofe collettiva), purtroppo da più parti (anche le più insospettabili) si assiste infatti a una paradossale criminalizzazione delle istanze pacifiste.
In maniera più o meno esplicita i pacifisti vengono accusati di vigliaccheria, di tradimento, di simpatie filo-Putin, ecc. Inoltre vengono incolpati di auspicare la resa e la sottomissione dell’Ucraina. Personalmente rimango allibito da simili accuse che, secondo me, denotano solamente, da parte di chi le formula, una totale ignoranza della cultura pacifista e della nutrita letteratura che la rappresenta. Pacifismo infatti non significa affatto assoggettarsi al prepotente di turno. Al contrario implica ricercare altre forme di lotta e di resistenza che non siano il conflitto armato. Consapevoli del fatto che quest’ultimo produrrà null’altro che distruzione, morte e sofferenza a tutte le parti in gioco e non solo.
Questo punto fondamentale confuta a priori ogni accusa di vigliaccheria, codardia, arrendevolezza a carico dei pacifisti. Come afferma chiaramente Bertrand Russell nel brano sopra riportato, “opporsi alla forza con la disobbedienza passiva richiede più coraggio” che non impugnare un’arma. E non si tratta di posizioni utopistiche da “anime belle” che si sentono moralmente superiori (altra accusa rivolta ai pacifisti). Ma di sano realismo derivante anche da un’obiettiva analisi storica.
La storia insegna infatti che le guerre non hanno mai risolto nulla (e paradossalmente questo viene talvolta retoricamente affermato anche da molti di coloro che poi accusano i pacifisti). Non mancano invece esempi che mostrano come la lotta non armata, la resistenza passiva e la disobbedienza civile possano ottenere risultati significativi. Senza scomodare il Mahatma Gandhi (1869-1948), si potrebbero citare, tra i tanti casi significativi, la resistenza norvegese e danese contro l’occupazione tedesca durante la seconda guerra mondiale.
Gli insegnanti norvegesi scioperarono, col pieno appoggio di genitori, alunni e chiese, contro l’introduzione nel nuovo statuto didattico voluto dai tedeschi. Alla fine le scuole riaprirono, senza alcuna adozione dei programmi nazisti[1].
In Danimarca i nazisti proclamarono le leggi razziali imponendo ai negozianti ebrei di porre la scritta “Jude” sulle loro vetrine. Tutti i negozianti, anche non ebrei, apposero la scritta. Analogamente, quando venne imposto agli ebrei di cucire sui vestiti la stella gialla, tutti i cittadini, sovrano compreso, si munirono di stella gialla creando sconcerto tra i nazisti[2].
Naturalmente in entrambi i casi la resistenza non armata non fu indolore. Molti vennero torturati, uccisi e deportati. Ma il confronto va necessariamente fatto con le perdite che si sarebbero avute in caso di resistenza armata. La Danimarca, ad esempio, ebbe la più bassa percentuale di deportati nei lager di tutti i paesi coinvolti nella seconda guerra mondiale.
Ovviamente affinché questo tipo di resistenza non armata abbia successo, la popolazione deve essere adeguatamente preparata, cominciando ad attuare una concreta diffusione della cultura pacifista e promuovendo la coesione sociale. Anziché investire cifre folli in armamenti e nell’addestramento di personale militare, si potrebbero investire risorse in tal senso.
Naturalmente questo richiede un radicale cambiamento di paradigma culturale. Noi viviamo tutt’ora sotto il paradigma dell’«occhio per occhio». Le reazioni dei paesi occidentali all’aggressione dell’Ucraina lo hanno ampiamente confermato. Ma come diceva Gandhi, questo paradigma conduce inevitabilmente a un mondo di ciechi.
Senza contare poi che la mentalità militarista educa i cittadini a una totale abdicazione di ogni senso critico (il classico dogma militarista è “gli ordini non si discutono”). Mentre un’educazione al pacifismo, alla disobbedienza e alla resistenza passiva contribuirebbe allo sviluppo del senso critico, del pensiero libero e razionale e dell’autonomia di giudizio.
Il paradigma militarista e guerrafondaio (ogni distinzione tra offensivo e difensivo è del tutto superflua) va ovviamente a totale danno delle classi sociali più deboli. Sorprende che a ricordare una simile ovvietà sia dovuto intervenire il capo di un’istituzione che non ha certo mai brillato nella difesa di posizioni progressiste: il Papa, che ha affermato categoricamente che “i potenti decidono e i poveri muoiono”. Sorprende ancora di più che una parte della sinistra abbia invece sposato il perverso paradigma militarista, criticando aspramente le istanze pacifiste.
Tornado a Cassola, viene in mente la lettera aperta rivolta all’allora Presidente della Repubblica Sandro Pertini (1896-1990), che lo scrittore pubblicò sul secondo numero del primo anno (1980) del mensile antimilitarista L’Asino, che dirigeva insieme a un giovane Francesco Rutelli, ben diverso da quello attuale (mensile che da ragazzo leggevo avidamente). Nella lettera, intitolata “Ma chi svuota questi arsenali?”, Cassola manifestava tutta la sua delusione per la politica dell’epoca e concludeva con questa supplica:
[…] On. Pertini, lei può fare davvero qualcosa per la causa della pace. Non dubito che questa parola susciti un’emozione in lei, come la parola antimilitarismo, che è lo stesso della parola socialismo. Lei ha detto di voler essere il presidente di tutti gli italiani. Ma d’italiani ce ne siamo di tutti i colori, cominciando da quella che è la distinzione fondamentale, tra fascisti e antifascisti. Io mi auguro che voglia essere il Presidente solo di questi ultimi; solo di quella parte di italiani, che poi sono la grande maggioranza, i quali si richiamano ai valori del socialismo, vale a dire della pace. Essi vogliono essere protetti, innanzitutto, da una politica demenziale che assicura una cosa sola: la fine del mondo. So quello che lei può obiettarmi, che questa politica demenziale è già cominciata e tanto vale attenersi ai suoi dettami. Ma se questi dettami sono suicidi? Noi intendiamo chiamare a raccolta tutti coloro che non si rassegnano a un così fallimentare esito politico: cominciando dall’antimilitarista e socialista on. Pertini”.
Se partiamo dall’ovvia verità che “i potenti decidono e i poveri muoiono”, non possiamo certo aspettarci che l’auspicato cambio di paradigma provenga da chi detiene il potere. Vengono in mente i versi di due cantautori. Il primo, Fabrizio De André (1940-1999), nel 1968 cantava: “Se verrà la guerra […] chi ci salverà?/Ci salverà il soldato che non la vorrà/Ci salverà il soldato che la guerra rifiuterà”. Il secondo, Boris Vian (1920-1959), prima di lui nel 1954 aveva affermato: “Ma io non sono qui egregio presidente/per ammazzar la gente più o meno come me/io non ce l’ho con lei sia detto per inciso/ma sento che ho deciso e che diserterò”.
La diserzione, considerata infamante dal perbenismo militarista, va intesa a 360 gradi come rifiuto delle armi e della violenza da qualunque parte provenga, sia dal proprio Stato di appartenenza (ricordiamolo, assolutamente casuale) che obbliga a combattere, sia da parte del cosiddetto nemico che semplicemente indossa, per citare ancora De André, “la divisa di un altro colore”, a sua volta obbligato a combattere.
Anziché infamante questa diserzione è manifestazione di grande eroismo e amore per l’umanità ed è l’opposto della codardia. Anche questa naturalmente non si improvvisa, ma si raggiunge con l’educazione. E dovrebbero essere proprio le forze culturali progressiste a impegnarsi per diffonderla. Tomaso Montanari (una delle poche voci contemporanee lucidamente pacifiste) in una recente intervista televisiva ha dichiarato di aver sempre pensato che l’università dovrebbe avere il compito di promuovere la diserzione. Ed è motivo di grande conforto che a pronunciare simili parole sia il rettore di una università italiana. Chiunque operi nel mondo della formazione dovrebbe porsi questo obiettivo.
Dicevamo che esiste una vasta letteratura pacifista che va da Aldo Capitini (1899-1968) a Danilo Dolci (1924-1997), passando per Stéphane Hessel (1917-2013), Don Lorenzo Mila1ni (1923-1967), lo stesso Carlo Cassola e molti altri. Una certa sinistra dovrebbe riscoprire e promuovere questa cultura. Prima di tutto per documentarsi ed evitare di dire falsità sui pacifisti. Secondariamente perché tutti i valori della sinistra sono incarnati nel pacifismo. Mentre gli pseudovalori del militarismo non possono che essere patrimonio delle destre, del capitale e delle forze più reazionarie e oscurantiste.
[1] Si veda: L. Odini, “«La propaganda è respinta a scuola»: la resistenza degli insegnanti norvegesi”, Pedagogia oggi 1, 108-115, 2021: https://ojs.pensamultimedia.it/index.php/siped/article/view/4780/4141;
[2] M. Boato, “La vittoriosa resistenza nonviolenta danese ai nazisti”, Volere la Luna, 27 aprile 2022: https://volerelaluna.it/rimbalzi/2022/04/27/la-vittoriosa-resistenza-nonviolenta-danese-ai-nazisti/ e B. Lidegaard, Il popolo che disse no, Garzanti, Milano 2014.
(credit foto Paul Zinken/dpa)
Silvano Fuso
Chimico e divulgatore scientifico.
Documento ripreso da https://www.micromega.net/modesta-difesa-del-pacifismo
16 maggio 2022
TERRA MATTA AL TEATRO BIONDO di PALERMO
Vincenzo Pirrotta porta in scena una nuova edizione dell’adattamento teatrale di Terra matta, l’eccezionale autobiografia di Vincenzo Rabito, contadino siciliano analfabeta che ha lasciato un’appassionata testimonianza della storia del Novecento italiano attraverso emozionanti e suggestive pagine dattiloscritte, pubblicate nell’omonimo libro edito da Einaudi.
Classe 1899, Rabito visse gran parte della sua vita in condizioni drammatiche: fin dalla prima infanzia si dedicò al faticoso lavoro nei campi per mantenere sei fratelli e la madre vedova, passando poi per le trincee durante la Prima Guerra Mondiale, sopravvivendo alle bombe della Seconda, alla fame atavica del Sud contadino, fino all’improvviso benessere della «bella ebica» del boom economico.
A rendere unica questa minuziosa autobiografia, dettata dalla necessità di far fronte a un’estrema battaglia quotidiana portata avanti giorno dopo giorno dal 1967 al 1970, è la lingua: un misto di parole inesistenti, neologismi ricchi di figure retoriche utili a rendere emozioni e sentimenti di una «molto desprezzata e maletrattata vita».
Pirrotta riprende in mano il dattiloscritto di Rabito, custodito dal 1999 all’Archivio Diaristico Nazionale di Pieve Santo Stefano, per dare voce, e nuova vita, a quella che è stata definita una straordinaria epopea dei diseredati.
UNA FAMIGLIA SU QUATTRO A RISCHIO POVERTA'
Cinzia Arena, Redditi corrosi dall'inflazione:
una famiglia su quattro è a rischio povertà,
Avvenire, 27 marzo 2025
L’onda lunga dell’inflazione continua a corrodere i redditi delle famiglie italiane, spingendo una fetta sempre più consistente verso la povertà e l’esclusione sociale. Quasi un nucleo su quattro, il 23,1% con un lieve incremento dello 0,3% rispetto all’anno prima, si è trovato in difficoltà economica. Il report dell’Istat sulle condizioni di vita e di reddito delle famiglie diffuso oggi non è una doccia fredda ma semmai la conferma di un continuo e consistente impoverimento del ceto medio. L’Italia, ha detto appena qualche giorno fa l’Ilo, è maglia nera tra i Paesi del G20 quando si parla di perdita di potere d’acquisto dei salari, pari alll’8,7% rispetto al 2008. Dato confermato dall’Istat che certifica come anche in tempi recenti la situazione non sia cambiata. Se i redditi familiari in termini nominali sono cresciuti del 4,2% l’indice dei prezzi al consumo (Ipca) ha fatto un balzo del 5,9% traducendosi in una perdita di valore dell1,6%, analoga a quella precedente. Un effetto che è maggiore per i lavoratori autonomi o dipendenti mentre è più attenuato per i pensionati.
Reddito medio sale a 37.500 euro Il reddito medio nel 2023 è di 37.500 euro, ma il valore mediano scende a poco più di 30mila euro. Le differenze a livello geografico sono ampie, con il Nord-Est più ricco e il Mezzogiorno più povero, così come quelle legate al numero di figli con le famiglie numerose che hanno in media redditi inferiori a quelli di chi ha uno o due figli. Penalizzati gli stranieri che possono contare in media di 5400 euro in meno.
Quasi una famiglia su quattro a rischio povertà ed esclusione sociale Le condizioni di vita sono praticamente invariate: la popolazione a rischio è pari a 13,5 milioni (il 23,1%) le persone con un picco del 39,2% nel Mezzogiorno. La quota di persone in condizione di grave deprivazione materiale e sociale rimane stabile (dal 4,7% al 4,6%) così come quella degli individui a rischio povertà (18,9%), in aumento invece coloro che vivono in famiglie a bassa intensità di lavoro (meno di un quinto del tempo): sono 9,2% rispetto all’8,9% dell’anno precedente. Tra loro spiccano gli under 35 e i genitori soli mentre sono le coppie senza figli quelle ad avere meno problemi.
Redditi diseguali: i più poveri hanno un quinto della ricchezza dei più ricchi. Il rapporto segnala un aumento la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi, parametro calcolato ordinando in cinque fasce di reddito la popolazione. Il primo quinto comprende il 20% degli individui con i redditi equivalenti più bassi, l'ultimo quinto il 20% di individui con i redditi più alti. Il rapporto fra il reddito equivalente totale ricevuto dall'ultimo quinto e quello ricevuto dal primo quinto (rapporto noto come s80/s20) fornisce una misura sintetica della disuguaglianza. Se si fa riferimento alla distribuzione dei redditi equivalenti netti senza affitti figurativi, nel 2023, l'indicatore è pari a 5,5, in lieve peggioramento rispetto al 2022 (quando era pari a 5,3), ma al di sotto del valore pre-pandemia del 2019 (5,7).
Nel 2023 il 21% dei lavoratori è a basso reddito. Cresce il numero di lavoratori poveri: quelli che hanno lavorato almeno un mese nell’anno e hanno percepito un reddito netto da lavoro inferiore al 60% della mediana della distribuzione individuale sono pari al 21% del totale, un valore pressoché invariato rispetto all’anno precedente. Il rischio di essere un lavoratore a basso reddito è decisamente più alto per le donne rispetto agli uomini (26,6% contro 16,8%), per gli occupati appartenenti alle classi di età più giovani (29,5% per i lavoratori con meno di 35 anni contro un valore minimo pari al 17,7% per quelli nella classe 55-64), per gli stranieri rispetto agli italiani (35,2% contro 19,3%). La condizione di basso reddito è associata anche a bassi livelli di istruzione a determinati settori (come quello dell'assistenza alla persona). Nel periodo pre-crisi 2007 era pari al 16,7%.
https://www.ilsole24ore.com/art/nuovi-poveri-fenomeno-crescita-aiuto-concreto-dall-8xmille-chiesa-cattolica-AFBjjzsC
LA TRIESTE DI SABA, JOYCE e SVEVO
Adriano Sofri, La Trieste di Saba, Joyce e Svevo, Il Foglio, 27 marzo 2025
Circola in ogni cosa / un’aria strana, un’aria tormentosa, / l’aria natia”. Le città hanno un’aria, e i poeti per dirla. Trieste ha Saba. “Trieste ha una scontrosa / grazia”: proprio così, pensa il viaggiatore, che cercava le parole per dirlo. Pubblicata nel 1912, la poesia diceva però: “La città dove vivo ha una selvaggia grazia”. E continuava: “… che adulta serba il bello e il rozzo / d’un ragazzaccio con le mani troppo / grandi per dare un fiore”. Nel 1921 era rimasta “selvaggia”, e aveva continuato “ai miei occhi piace / come un bel ragazzaccio…”. Nel 1945 prese la forma finale: scontrosa, e: “Se piace / è come un ragazzaccio aspro e vorace / con gli occhi azzurri e mani troppo grandi / per regalare un fiore; come un amore / con gelosia”. E l’ultimo verso era a sua volta passato da una “vita contemplativa” alla “mia vita / pensosa e schiva”. Alla fine, Saba dichiarò le “alcune asprezze delle precedenti versioni” qui tolte, o appianate, “con mano eccezionalmente felice”. Era successo che Saba, cinquantenne, lasciasse Trieste dedicandole un “Distacco”, chiamandola “mia città così aspra e maliosa”, e poi: “La tua scontrosa grazia saluterò”. Gli parve che alla grazia di Trieste si addicesse meglio l’aggettivo “scontrosa”, e lo recupererò, e ora faremmo fatica a rassegnarci all’originario “selvaggia” – troppo, per la città, e anche per il suo selvatico Carso.
Domenica parlavo con Mauro Covacich della sua “Trilogia triestina. Svevo Joyce Saba” (La nave di Teseo): sono i testi di tre puntate al Politeama Rossetti, e rivendicano a Trieste i suoi tre maggiori – “Tre corone”, fiorentine, furono presto dichiarati Dante Petrarca e Boccaccio, e poi, dal 1945 in poi, per qualche decennio, Carducci-Pascoli-D’Annunzio in un’antologia scolastica Mondadori. Di Joyce triestino Covacich ricorda l’esilarante lettera spedita da Parigi a Svevo, per chiedergli di recuperare delle sue carte e fargliele recapitare: “Dunque, caro Signor Schmitz, se ghe xe qualche d’un de Sua famiglia che viaggia per ste parti la mi faria un regalo portando nel fagotto che non xe pesante gnianche per un omo poiché, La mi capisse ze pien de carte che mi go scritto pulido, co la penna e qualche volta anche col ‘bleistiff’ quando no iera la pena. Ma ocio a no sbregar el lastico /occhio a non rompere l’elastico/, poiché allora nasarà confusion fra le carte”… Il prodigioso Joyce ha imparato il triestino, non l’italiano. E il suo allievo d’inglese, il Signor Schmitz, Italo Svevo, ebreo, padre tedesco, che parla in triestino e, dice Saba, “poteva scrivere bene in tedesco, preferì scrivere male in italiano”. Covacich ha un cognome sloveno, ha parlato triestino, scrive bene in italiano, sta a Roma così può tornare a Trieste, fa sul serio con la letteratura. Nel recente corpo a corpo con Kafka (2024, per la stessa editrice) prova ad ascoltare fino in fondo la famosa raccomandazione di K ventenne: “un libro dev’essere l’ascia per il mare ghiacciato dentro di noi”. Kafka, ebreo boemo scrive nel tedesco non suo, e da allora bisogna fare i conti col suo tedesco.
Giornata di coincidenze, domenica. Nella nostra conversazione è intervenuto un frequentatore di quella Trieste, di Anita Pittoni e di Giotti e Stuparich… Di mattina era uscita una rigogliosa intervista di Cazzullo a Claudio Magris, nella quale il professore aveva fatto scivolare un giudizio che sarà suonato alla compagnia dei joyciani ingiurioso quanto a me l’attentato a Ventotene: “Io ho letto prima Victor Hugo di Scipio Slataper o di Italo Svevo. Anche se poi mi sono reso conto che Svevo è grandissimo. Al confronto, Joyce è un autore di serie B”. (In passato era stato meno drastico: “Per molti versi non è certo meno grande di Joyce”). Magris può, e vale la pena di pensarci. Ricorda di nuovo la “grandiosa” mezza pagina di Svevo – l’ultima, secondo Maier: il vecchio che a mezzanotte ride del diavolo commesso viaggiatore senza clienti. (Oggi, è l’ultima pagina di Zeno che torna a imporsi: “L’occhialuto uomo inventa gli ordigni fuori del suo corpo e se c’è stata salute e nobiltà in chi li inventò, quasi sempre manca in chi li usa. Gli ordigni si comperano, si vendono e si rubano e l’uomo diventa sempre più furbo e più debole. Anzi si capisce che la sua furbizia cresce in proporzione della sua debolezza. /…/ Sotto la legge del possessore del maggior numero di ordigni prospereranno malattie e ammalati. Forse traverso una catastrofe inaudita prodotta dagli ordigni ritorneremo alla salute. Quando i gas velenosi non basteranno più, un uomo fatto come tutti gli altri, nel segreto di una stanza di questo mondo, inventerà un esplosivo incomparabile, in confronto al quale gli esplosivi attualmente esistenti saranno considerati quali innocui giocattoli. Ed un altro uomo fatto anche lui come tutti gli altri, ma degli altri un po’ più ammalato, ruberà tale esplosivo e s’arrampicherà al centro della terra per porlo nel punto ove il suo effetto potrà essere il massimo. Ci sarà un’esplosione enorme che nessuno udrà e la terra ritornata alla forma di nebulosa errerà nei cieli priva di parassiti e di malattie”.
Ne “La città interiore” (2017) Covacich racconta un proprio azzardato esame con Magris. Lui conta sul corso monografico, Magris gli rivolge la prima lunga domanda in tedesco. “Al mio primo farfugliare nella lingua di Goethe, il professore mi ha guardato e, creando con le sue stesse parole, italiane, uno scarto di dimensione tale da offrirmi una via d’uscita in una specie di universo parallelo, ha detto: Adesso chiudo gli occhi e lei sarà stato solo un sogno”. Magnifico. Mi sono ricordato di Kafka a casa Brod che senza volere sveglia il padre di Max addormentato sul divano e gli dice: “Mi consideri un sogno”. Magris: “La considero un sogno”.
(L’intervista ha poi avuto un’appendice in cui il Caffè Libreria San Marco ha confermato all’intervistatore come bisogni essere cauti con lo spirito triestino, e specialmente con un personaggio così squisitamente sveviano come una giovane cameriera).
Non abbiamo avuto il tempo di misurarci sulla gallina. La gallina è una figura cruciale nella poesia di Saba. Covacich racconta Saba che, aspettando Lina andata a fare la spesa, scrive di getto “A mia moglie”, le dà della pollastra, della giovenca, della cagna, della coniglia. Lei rientra, lui entusiasta gliela legge, lei, tutta piena di pacchi e pacchetti, non la prende benissimo… Lui non rinuncerà mai: scriverà, tardi, “Povera, vecchia e stanca, gallina”. A differenza di Saba, e di me, Covacich ha una ripugnanza per le galline e gli uccelli in genere - fra un pollaio e una gabbia di leoni, entrerebbe nella seconda. Nello spettacolo ha messo La gallina di Cochi-Renato-Jannacci, che “non è un animale intelligente”. Di sé, delle sue poesie, Saba scrisse: “Il buon Carletto / Cerne, l’amico e collaboratore e poi erede della Libreria/ mi diceva: ’Vedo / che proprio deve farle’. Devo come / La gallina fa l’uovo. Questo un giorno / me lo disse mia figlia /…/ Immaginava / suo padre in una gabbia”.
Un altro grande, Mario Lavagetto, dedicò una lettura psicanalitica a “La gallina di Saba”, il suo animale sacro. Sull’altra sponda c’è un verso dell’inno a Oberdan – Saba era nel grembo materno quando Guglielmo Oberdan fu impiccato: “Morte a Franz, viva Oberdan! / Vogliamo formare una lapide / di pietra garibaldina; / a morte l’austriaca gallina, / noi vogliamo la libertà”. Così l’aquila bicipite. Oggi, l’amministrazione Trump si è appellata al Veneto per l’importazione delle uova.
26 marzo 2025
UN NUOVO LIBRO DEDICATO A FRANCESCO CARBONE
MERCOLEDI' 9 APRILE 2025, ore 17, al CENTRO CULTURALE BIOTOS di Palermo, via XII GENNAIO n.2,
ALDO GERBINO e FRANCO VIRGA presenteranno il libro.
Seguirà pubblico dibattito.
INGRESSO LIBERO
FANTOZZI: UNA MASCHERA ITALIANA
Diventare Fantozzi
di Claudio Giunta
Professore di Letteratura italiana all’Università di Torino
The Belliner n.31
*Estratto dall’omonimo articolo presente nella raccolta «Una sterminata domenica. Saggi sul paese che amo» edito da Mulino e consultabile sul blog di Claudio Giunta (claudiogiunta.it)
Negli ultimi quarant’anni si è certamente potuto ridere di cose più intelligenti (anche se si è spesso riso di cose meno intelligenti), ma se si guarda semplicemente alla quantità, al numero, di niente e di nessuno si è riso più che di Fantozzi.
I residui di queste risate, oltre che ben fermi nella memoria, sono tutti visibili nel linguaggio che adoperano gli italiani nati tra gli anni Cinquanta e gli Ottanta. Quando Giorgia Meloni (classe 1977) dice in parlamento (29 aprile 2013) che c’è «un leggerissimo problema di copertura finanziaria», quel leggerissimo pronunciato calcando sulla prima sillaba, lég-gerissimo, viene da Fantozzi («ho una leggerissima sudorazione»). Quando Paola Cortellesi (classe 1973) annaspa nello sketch della doppiatrice (Magica Trippy), quell’annaspare – bocca spalancata, palpebre a mezz’asta – viene da Fantozzi.
E poi merdaccia, coglionazzo, vadi, venghi, dichi, fogna di Calcutta, puccettone, salivazione azzerata, mani due spugne, fronte imperlata di sudore, la poltrona in pelle umana, la nuvola da impiegato, il direttore galattico, il megadirettore naturale, il Dir. Gen. Lup. Mann. Gran Farabut: tutto questo lessico della disperazione e del sopruso, il lessico usato e subito da chi sopravvive non solo ai piani bassi dell’organigramma aziendale ma ai piani bassi della vita, è diventato ormai – e stabilmente – lessico famigliare degli italiani, quasi senza distinzioni di ceto, istruzione, provenienza geografica.
Si può infatti trovare detestabile sia il linguaggio sia l’immaginario di Fantozzi, ma non si può non prendere atto della loro efficacia, un’efficacia superiore a quella di qualsiasi romanzo o saggio, e paragonabile soltanto o pochi o pochissimi prodotti della TV o del cinema contemporaneo. La corazzata Potëmkin di Villaggio è proverbiale come i tre anni di militare a Cuneo di Totò, ma è ancora più interclassista e interregionale (Totò, al nord, lo vedono, rivedono e citano a memoria soprattutto gli intellettuali); e ‘fantozziano’, ‘fare come Fantozzi’, sono diventate espressioni d’uso comune non in quanto designano uno stile o un modo di vedere il mondo (e insomma non merce per intellettuali come ‘felliniano’ o ‘lynchano’ o ‘kafkiano’) ma in quanto isolano, ritagliano e battezzano un determinato pezzo di mondo: la situazione fantozziana c’era già, solo che mancava la parola per definirla, e dunque nessuno l’aveva ancora messa bene a fuoco. Dal 1971 la parola c’è, e questo ha fatto sì che sia diventato impossibile tollerare senza vergogna – per sé o per altri – situazioni fantozziane.
Che cos’è dunque, in che consiste, una situazione fantozziana?
Da un lato, in una certa inadeguatezza rispetto alle richieste, esplicite o implicite, dell’ambiente nel quale ci si trova ad agire. In questo senso, Fantozzi è l’archetipo dell’uomo medio sensuale, quello che vorrebbe starsene in casa a guardare la partita ma viene trascinato dalla vita e dalle convenienze in posti impensati come il cineclub (al quale Fantozzi è culturalmente inadeguato) o il campo da tennis (al quale Fantozzi è fisicamente inadeguato) o un ricevimento elegante (al quale Fantozzi è inadeguato per ragioni di censo e di maniere). ‘Fantozziano’ è, qui, il nome della frizione tra un uomo semplice e le infinite trappole che la vita moderna, o la vita tout court, semina sul suo cammino: fantozziano è il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con il mondo, e fantozziane le punizioni che il mondo gli infligge.
Dall’altro lato, il mondo all’interno del quale Fantozzi agisce è il mondo di una grande azienda, perciò ‘fantozziano’ è soprattutto il rapporto che il rag. Ugo Fantozzi ha con i suoi colleghi e con i suoi superiori. Proprio qui sta uno dei tratti più originali di Fantozzi. Perché nei film e nei libri sul lavoro girati e scritti prima di Fantozzi il nemico era facile da riconoscere: era il padrone, o era il meccanismo inumano della produzione, dinanzi al quale i lavoratori erano, come si dice, tutti nella stessa barca. Ma Fantozzi vive al crepuscolo dell’età della produzione industriale. I suoi uffici sonnolenti, le sue gite aziendali, i suoi impiegati che giocano a battaglia navale annunciano già l’età del post-industriale, del terziario, e insomma di tutta la fuffa che per un certo numero di anni ha fatto credere un po’ a tutti che fosse davvero possibile restare la quinta o sesta potenza industriale liquidando le industrie. Fantozzi lavora già in un’azienda-ministero che non produce nulla. E da questo pseudo-lavoro (che cosa fa, veramente, Fantozzi?) ricava più mortificazione che stress.
Quando si pensa a libri che parlano del mondo del lavoro si pensa a Donnarumma all’assalto o a Memoriale, non a Fantozzi, il che è comprensibile, è anche giusto, perché quelle di Villaggio, a differenza di quelle di Ottieri o di Volponi, non sono rappresentazioni realistiche, sono parodie. Nel mondo reale non ci sono direttori che si fanno chiamare Dott. Ing. Grand. Uff. Lup. Mann. o che hanno in ufficio poltrone in pelle umana e un acquario in cui nuotano gli ex dipendenti. Ma basta solo citare queste trovate deliziose per capire che Villaggio ha saputo darci qualcosa che prima non c’era: non la sottomissione e l’ossequio, che sono dei luoghi comuni dai tempi del Travet di Bersezio; e nemmeno l’aria irrespirabile dell’ufficio, la guerra silenziosa tra impiegati, che è già un motivo di Gogol’; ma qualcosa di simile a ciò che Bachtin ha chiamato lo ‘scoronamento dell’eroe’. Nei libri e nei film dedicati al lavoro i padroni si possono disprezzare o odiare come nemici, ma sono sempre nemici seri. Nei libri e nei film di Fantozzi, invece, i padroni e i dirigenti, prima di essere padroni e dirigenti, sono soprattutto degli imbecilli: gente ignorante, incapace, superstiziosa, meschina, puerile, piena di tic e di manie assurde, a cui nessuna persona sensata affiderebbe la direzione di una bocciofila, figurarsi un’azienda.
Fissando l’attenzione sui lati ridicoli del mondo del lavoro, Villaggio gli ha tolto un po’ di quell’aura sacrale che lo circondava nel giornalismo e nella letteratura engagée. Ha fatto per l’ufficio qualcosa di simile a ciò che Fellini ha fatto per la scuola in Amarcord. Sono parodie, certo, ma parodie che introducono nel ritratto un elemento di verità. Esiste un prototipo del capitano d’industria? E a chi assomiglia di più, al Ciro Nasàpeti delle Mosche del capitale o al Catellani di Fantozzi, il patito di biliardo che venera la vecchia madre? Al primo, certamente. Ma i Catellani esistono. Esiste la catellanità.
Il Sole 24ore, 23 marzo 2025
fantozzi, il nostro pinocchio novecentesco
Arcitaliano/1. Il ragioniere, nato dai libri di Paolo Villaggio e consacrato poi dai film, aveva un’inconsapevole vocazione profetica: sapeva in anticipo da che parte avrebbe soffiato il vento
Giuseppe Lupo
Capita raramente che un personaggio letterario diventi una figura in cui un’intera nazione possa specchiarsi e ritrovare i suoi caratteri identitari. Il primo pensiero non può non andare a Pinocchio, la cui vicenda, non a caso, prende avvio in coincidenza con il processo di unificazione ottocentesca. Ma lo stesso discorso vale anche per il ragionier Ugo Fantozzi, che nasce come un funambolo dai libri di Paolo Villaggio nel 1971 e subito si consacra in versione cinematografica, inanellando una serie di pellicole tanto esilaranti quanto fortunate proprio quando il Novecento ha impresso una direzione aziendalistica ai destini del Paese.
Quest’uomo dagli improbabili congiuntivi e il basco calcato in testa, questa sagoma dai modi goffi e burleschi perfino quando sta alla guida dell’automobile Bianchina sembra uscita per ventura dai titoli di coda della commedia dell’arte, forse pure una certa parentela con i fescennini del teatro di Plauto e si candida a rappresentare quel ceto medio un po’ guascone e un po’ parassita, ma comunque pur sempre intriso di una visione borghese che fatica a scrollarsi di dosso il ruolo di comprimario rispetto alle sorti della politica e della storia: uno stipendio poco dignitoso nonostante il diploma, un capo che si diverte a mortificarlo, moglie e figlia poco rispondenti ai canoni di un femminismo barricadero urlato nei cortei da chi indossava pantaloni a zampa di elefante. Anche da questi elementi passa la condizione della sua tragica modernità.
È lui il vero volto di un’Italia che in quegli anni restava aggrappata al mito del posto fisso nonostante l’austerity avesse minato le sicurezze dell’economia occidentale, lui che si trova perennemente in ostaggio di desideri repressi e occhieggia il mondo dei ricchi eppure non prova rabbia e nemmeno invidia perché sa che il suo è un destino da perdente e, nel declinare in chiave capitalista quel che rimaneva vivo degli antichi rapporti di vassallaggio, alla svolta di un secolo che invece si era presentato come rivoluzione vittoriosa del Quarto Stato, si candidava a erede di una tradizione più avvezza a subire i soprusi che a combatterli. Siamo alle solite: non era bastato il Novecento per riscattare gli ultimi, il lavoro continuava a essere vissuto come una liturgia che pretendeva le sue vittime e stavolta non toccava agli operai offrirsi in olocausto, ma agli impiegati negli uffici, quei dipendenti di cui troppo poco si è occupata la narrativa aziendale, ai quali veniva data la libertà di escogitare trucchi fantasiosi per sottrarsi all’ingerenza dei vertici: il naso chiuso da una molletta dei panni, la patata in bocca, la testa infilata in una pentola, l’accento svedese.
Non abbiamo mai capito cosa producesse la ditta per conto della quale il nostro antieroe ogni giorno parcheggiava l’auto di sguincio e correva a timbrare il cartellino. Oggetti di lusso? Beni di consumo? Servizi? Chissà. Ma questo passa in second’ordine. L’importante era fingere di stare alla scrivania, aspettare le ferie agostane e scansare la gara ciclistica o il cineforum con annesso dibattito. Poi via libera al grottesco, all’iperbole: la figlia che sposa uno scimmione, il carro funebre che finisce nel corteo dei gitanti, il vescovo con il mignolo tranciato invitato a fare bim bum bam durante il varo della nave. Non si ride mai senza malinconia: sta qui il punto di forza del nostro personaggio che non obbedisce ad alcuna ideologia, non ha un pensiero politico e anticipa di gran lunga le aspirazioni a un’esistenza senza impegni che sarà l’immagine più convincente del successivo decennio. Può sembrare anomalo, ma in un’Italia dove le tute blu si illudevano di abbattere i muri della fabbrica per guadagnare l’accesso all’aldilà – La classe operaia va in paradiso di Elio Petri è del 1971 – le peripezie del ragionier Fantozzi significavano che era inutile ostinarsi a lottare, inutile ricorrere al furore delle piazze. Nessuna protesta, nessuno sciopero, nemmeno i sindacati che alzavano la voce, l’unica velleitaria forma di rivincita sarebbe stato inveire contro il film di ?jzenštejn e probabilmente, in quegli anni di animosità politica, qualcuno avrà perfino sospettato traccia di qualunquismo. Ma Fantozzi aveva un’inconsapevole vocazione profetica. Sapeva già in anticipo da che parte avrebbe soffiato il vento del futuro e non possedeva nulla del “borghese piccolo piccolo”, il personaggio violento e vendicativo che sarebbe venuto fuori dalla penna di Vincenzo Cerami, nel 1976. Il ceto medio italiano era uno, ma le scelte di vita diverse e con Cerami siamo esattamente agli antipodi del fantozzismo: i ministeri, il terrorismo, il farsi giustizia da sé.
L’Italia di Paolo Villaggio, invece, è ancora propensa a credere nelle favole del successo pur inseguendolo con modi alla buona. Sarebbe stato necessario aspettare gli anni Ottanta per vederle realizzate, queste favole, una per una: l’ascesa della borghesia, l’aspirazione a godersi la vita, l’irruzione del lusso nelle abitudini quotidiane, i Mondiali di calcio finalmente vinti. In quel clima di generale leggerezza chi si sarebbe ricordato della corazzata Potëmkin?
P.S. Devo fare ammenda perché nel 2013, nell’allestire con Giorgio Bigatti la prima antologia della letteratura industriale, Fabbrica di carta, avrei potuto inserire qualche pagina dei libri di Villaggio nel capitolo sugli impiegati. Non l’ho fatto ed è stata l’ennesima umiliazione patita dalla sua creatura. Dovessi ristamparla, ora direi: «Venghi, venghi, ragionier Fantozzi!».
25 marzo 2025
NON ABBIAMO DIMENTICATO FRANCESCO CARBONE
DOMENICA 13 APRILE 2025, ore 17, AL CASTELLO di MARINEO
PAOLA BISULCA, ROSELLA CORRADO, VALERIA SARA LO BUE e FRANCO VIRGA
RICORDERANNO GODRANOPOLI E L'OPERA GENIALE DI FRANCESCO CARBONE.
Nell'occasione il pianista MASSIMILIANO LO PINTO eseguirà alcune sue composizioni.
INGRESSO LIBERO
23 marzo 2025
Gonul Tol
La Turchia ora è una vera e propria autocrazia
Foreign Affairs, 21 marzo 2025
Pochi giorni prima che il principale partito di opposizione turco scegliesse il suo prossimo candidato alla presidenza, il principale contendente, il sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, è stato arrestato e incarcerato, di fatto escludendolo dalla corsa. In questo sfacciato atto di repressione politica, il governo turco ha compiuto un passo importante verso un'autocrazia a tutti gli effetti.
Il piano per mettere fuori gioco Imamoglu era calcolato e approfondito. Martedì, l'alma mater di Imamoglu, l'Università di Istanbul, ha revocato il suo diploma (per legge, i candidati alla presidenza turca devono possedere titoli universitari) citando presunte violazioni delle norme dell'Higher Education Board. Il giorno dopo, Imamoglu è stato arrestato con l'accusa di corruzione e terrorismo. Queste sentenze del tribunale non solo fanno deragliare le sue ambizioni presidenziali, ma lo estromettono anche dalla sua posizione di sindaco della più grande città e potenza economica della Turchia.
Per anni, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha rimosso i controlli sul suo potere e manipolato le istituzioni statali per dare al suo partito vantaggi elettorali, ma fino ad ora l'opposizione turca è stata in grado di schierare candidati validi per contestare il suo governo. A Imamoglu, i gruppi di opposizione pensavano di aver trovato un candidato che avrebbe finalmente potuto sconfiggere Erdogan in una corsa testa a testa. Costringendo il sindaco di Istanbul a uscire dalla politica, il governo ha oltrepassato la linea che separa il competitivo sistema autoritario della Turchia da una completa autocrazia in stile russo in cui il presidente sceglie personalmente i suoi avversari e le elezioni sono puramente per spettacolo.
LA STRADA VERSO L'AUTOCRAZIA
Durante i suoi oltre due decenni al potere, Erdogan ha smantellato le istituzioni democratiche della Turchia, consolidando il suo controllo in un sistema di governo monocratico. Dopo un fallito tentativo di colpo di stato da parte di ufficiali militari nel 2016, che Erdogan e il suo partito hanno collegato a un movimento i cui membri popolavano altri rami del governo e istituzioni pubbliche, Erdogan ha portato la magistratura sotto la sua autorità epurando migliaia di giudici e sostituendoli con lealisti che approvano automaticamente le sue repressioni. I media sono stati imbavagliati; oltre il 90 percento dei media turchi è di proprietà di aziende filogovernative e i giornalisti indipendenti vengono regolarmente incarcerati.
Il paese tiene ancora le elezioni, ma il sistema è altamente distorto. È un caso da manuale di regime autoritario competitivo, che imita la democrazia mentre sistematicamente inclina il campo di gioco a favore del partito al governo. I partiti di opposizione sono attivi, ci sono veri dibattiti pubblici sulla politica e i titolari a volte perdono. Tuttavia, con il governo che controlla la magistratura, soffoca i media indipendenti e trasforma le istituzioni statali in armi per indebolire i suoi oppositori, la competizione elettorale è tutt'altro che equa.
Tuttavia, il governo di Erdogan rimane vulnerabile finché i candidati dell'opposizione possono partecipare alle elezioni. Il suo margine di vittoria, in genere, è relativamente ristretto; nel ballottaggio delle elezioni presidenziali del 2023, Erdogan ha vinto con il 52 percento dei voti. A volte ha fatto ricorso a misure più estreme per mantenere in vantaggio sé stesso e il suo partito. Nelle elezioni municipali del 2019 a Istanbul, quando Imamoglu ha sconfitto il candidato del partito di Erdogan, le autorità hanno annullato il risultato e costretto a una ripetizione, solo per far vincere di nuovo Imamoglu con un margine più ampio. La tattica più pericolosa di Erdogan, tuttavia, è quella di incarcerare i suoi rivali più forti. Selahattin Demirtas, il carismatico politico curdo che ha sfidato Erdogan nelle elezioni presidenziali del 2014 e del 2018, è dietro le sbarre dal 2016 (ha condotto la sua seconda campagna dal carcere) con dubbie accuse di terrorismo. Imamoglu è stato anche condannato a una pena detentiva, nel 2022, per accuse di insulto a pubblico ufficiale. Ma poiché il caso è ancora in attesa di appello, la sentenza non ha impedito al sindaco di candidarsi di nuovo.
Erdogan non vuole solo proteggere la sua presidenza: vuole anche riprendersi Istanbul.
Nell'ultimo anno, Erdogan ha rimosso diversi sindaci eletti appartenenti ai partiti di opposizione e li ha sostituiti con altri nominati dal governo. Giornalisti, politici, attivisti per i diritti umani, persino il principale gruppo imprenditoriale del paese sono diventati bersagli di casi giudiziari fasulli. Ma l'arresto di Imamoglu questa settimana è un'escalation significativa. Le accuse di terrorismo e corruzione sono molto più gravi e quindi comportano conseguenze molto più gravi delle accuse nel suo caso pendente del 2022. E a differenza di Demirtas, che era popolare ma non è mai stato altro che un candidato di un terzo partito, Imamoglu rappresenta una minaccia diretta alla presidenza di Erdogan. Rimuovendo questo rivale dal campo, Erdogan ha dimostrato di non essere interessato a mantenere la facciata di elezioni competitive. Invece, cerca il tipo di sistema autocratico che ha il presidente russo Vladimir Putin, uno senza una vera opposizione e senza sorprese elettorali.
Erdogan è ora pericolosamente vicino a raggiungere ciò che vuole e sta seguendo un percorso simile a quello intrapreso da Putin in Russia per arrivarci. Due decenni fa, la Russia non era l'autocrazia strettamente controllata che è oggi. L'economia del paese era in forte espansione e Putin era genuinamente popolare, quindi tollerò una certa opposizione e lasciò intatte parti del sistema democratico. Ma dopo la crisi finanziaria del 2008, mentre la crescita economica si bloccava e scoppiavano proteste antigovernative, Putin rispose con la repressione. E nel 2020, consolidò pienamente il suo governo come autocrate incontrastato. Furono approvati emendamenti costituzionali che consentirono a Putin di rimanere al potere fino al 2036. Il suo regime andò in overdrive arrestando, esiliando o mettendo a tacere anche i suoi critici più marginali. Nell'agosto 2020, gli agenti del Cremlino avvelenarono l'attivista Alexei Navalny, il più feroce oppositore di Putin, nel tentativo di ucciderlo. (Navalny morì in seguito in una colonia penale russa nel 2024.) Oggi, le elezioni russe sono una mera formalità. I veri sfidanti sono banditi mentre Putin seleziona alcuni avversari simbolici per creare l'illusione della competizione. Il risultato non è mai in dubbio.
Proprio come quella di Putin, la repressione di Erdogan si è intensificata man mano che la sua popolarità è calata. I principali elettori, tra cui i giovani turchi, stanno diventando sempre più disillusi. Frustrati dalle politiche sempre più autoritarie di Erdogan e dalla mancanza di opportunità economiche, molti giovani turchi stanno pensando di emigrare. Sta crescendo una reazione nazionalista contro le politiche del governo che consentono a milioni di rifugiati siriani di vivere in Turchia.
La fiducia di Erdogan nella sua posizione in patria potrebbe essere mal riposta.
Il più grande grattacapo di Erdogan è l'economia malata del paese. La Turchia sta lottando contro l'inflazione e il deterioramento economico dal 2018. Dopo anni di politiche non ortodosse sostenute da Erdogan, politiche che molti economisti sostenevano stessero peggiorando la crisi, un nuovo ministro delle finanze ha abbandonato il vecchio approccio ma finora non è stato in grado di risollevare l'economia. Il principale gruppo imprenditoriale del paese, la Turkish Industry and Business Association, ha apertamente criticato il nuovo programma economico; in risposta, Erdogan ha accusato il gruppo di indebolire il governo. Nel frattempo, l'approvazione di Erdogan ha subito un colpo. Nelle elezioni municipali del 2024, nonostante Erdogan abbia utilizzato tutto il potere statale a sua disposizione per aiutare il suo partito a vincere, il partito al governo ha subito la sua più grande sconfitta di sempre.
La crescente repressione dell'opposizione da parte di Erdogan nell'ultimo anno è stata un tentativo di fermare questo slancio. E questo significa fermare Imamoglu. Un outsider politico prima di entrare nella corsa a sindaco nel 2019, Imamoglu ha scioccato l'establishment ponendo fine ai 25 anni di controllo del partito al governo su Istanbul, la città in cui Erdogan ha lanciato la sua carriera. Nonostante gli instancabili sforzi di Erdogan per spodestarlo, Imamoglu ha vinto facilmente la rielezione l'anno scorso, dimostrando il suo ampio appeal oltre la tradizionale base laica del suo partito. Con il suo partito pronto a sostenere la sua candidatura presidenziale (le prossime elezioni sono previste per il 2028, ma potrebbero essere indette prima), Imamoglu è diventato un formidabile sfidante del governo di Erdogan.
Le mosse di questa settimana, se reggono, bloccherebbero fermamente l'avanzamento di Imamoglu. L'annullamento del suo diploma squalifica Imamoglu dalla corsa alla presidenza e l'accusa di terrorismo lo rimuove dall'ufficio di sindaco. Erdogan non vuole solo proteggere la sua presidenza, vuole anche riprendersi Istanbul. Perdere la città a favore dell'opposizione nel 2019 non è stato solo un insuccesso politico, ma anche un colpo finanziario. Ha tagliato fuori Erdogan dalle vaste risorse della città, che hanno alimentato la sua rete di clientela per decenni. Riconquistare Istanbul potrebbe aiutare a mantenere in funzione la sua macchina politica in un momento di difficoltà economica. La rimozione del sindaco consente a Erdogan di installare al suo posto il governatore di Istanbul, un nominato scelto a mano.
CHI PRENDE RISCHI
Erdogan sta giocando una partita ad alto rischio e alta ricompensa. Se ci riesce, si presenterà alle prossime elezioni contro un avversario che ha scelto lui stesso, assicurandosi di fatto il suo governo a vita. Questa presa di potere suggerisce che crede di poter agire impunemente. Potrebbe avere ragione. I partiti di opposizione e le istituzioni politiche non hanno i mezzi per limitarlo. E sebbene molte persone in Turchia siano arrabbiate, anche l'opinione pubblica ritiene di avere poche risorse contro il presidente. L'ultima volta che Erdogan ha dovuto affrontare proteste di massa è stato nel 2013 e lo Stato ha risposto brutalmente: le forze di sicurezza hanno ucciso diverse persone, ne hanno ferite migliaia e hanno effettuato arresti di massa. Da allora, Erdogan ha represso gli assembramenti pubblici per garantire che le dimostrazioni non raggiungano mai più la stessa portata.
Il leader turco sta anche sfruttando un ambiente internazionale eccezionalmente permissivo. Il ritorno del presidente degli Stati Uniti Donald Trump alla Casa Bianca ha incoraggiato Erdogan; non teme una rappresaglia degli Stati Uniti ora che Trump sta attivamente minando la democrazia statunitense e non mostra alcun interesse nel ritenere responsabili gli autocrati stranieri per la loro repressione. Le aperture di Trump a Putin hanno anche scosso i leader europei, costringendoli a impegnarsi nuovamente con la Turchia nella speranza di rafforzare le loro difese contro l'aggressione russa, e sono molto probabilmente disposti a ignorare la crescente autocrazia di Erdogan se ciò significa assicurarsi il sostegno di Ankara.
Ma la fiducia di Erdogan nella sua posizione in patria potrebbe essere mal riposta. L'ultima volta che ha cercato di mettere da parte Imamoglu, si è ritorto contro in modo spettacolare. La ripetizione forzata delle elezioni del sindaco del 2019 a Istanbul, vinte di misura da Imamoglu, ha fatto infuriare molti elettori, che l'hanno vista come un'ingerenza ingiustificata da parte del governo. Nella seconda votazione, Imamoglu ha vinto con un margine più ampio, il più ampio per un sindaco di Istanbul da decenni.
Ancora più importante, Erdogan potrebbe aspirare a essere come Putin, ma la Turchia non è la Russia. A differenza della Russia, che prospera sulla ricchezza delle risorse, l'economia della Turchia è profondamente dipendente dagli investimenti esteri. Gli investitori stanno già fuggendo mentre il paese diventa più autoritario, e una scivolata verso una completa autocrazia difficilmente li riporterà indietro. L'economia turca rimarrebbe impantanata nella crisi. E persino un uomo forte deve produrre risultati per mantenere la sua presa sul potere.
LA GRANDE PROLETARIA SI MUOVE
Gianluca Modolo
La mossa della Cina: "Disposta a schierare caschi blu in Ucraina"
la Repubblica, 23 marzo 2025
PECHINO – La Cina “sonda il terreno” per capire come potrebbe essere accolta da parte degli europei una proposta del genere. Le truppe di Xi Jinping in Europa per mantenere la pace in Ucraina dopo un cessate il fuoco nella guerra con la Russia? Sulla possibilità di un invio di forze di peacekeeping da parte di Pechino nei circoli diplomatici di mezzo mondo se ne parla da oltre un mese. Ora la questione sembra prendere forza, stando all’aggiornamento della Welt am Sonntag. Per il giornale tedesco, che cita fonti europee, «la Cina starebbe valutando la possibilità di partecipare a eventuali forze di pace in Ucraina. I diplomatici cinesi avrebbero sondato a Bruxelles se un tale passo sia concepibile e forse anche auspicabile dal punto di vista Ue. Il coinvolgimento della Cina in una “coalizione dei volenterosi” potrebbe aumentare l’accettazione delle forze di pace in Ucraina da parte della Russia. In ogni caso, la questione è delicata».
Delicata al punto che la diplomazia cinese non ha mai finora affermato in modo diretto se Pechino sarebbe pronta a mandare forze di peacekeeping, ma ha comunque lasciato intendere che, nel caso, sarebbe pronta. Lo scorso 7 marzo fu il ministro degli Esteri Wang Yi a dire che «siamo disposti a continuare a svolgere un ruolo costruttivo nella risoluzione finale della crisi e nella realizzazione di una pace duratura». L’Ucraina però potrebbe non essere entusiasta dell’idea dato il sostegno di Pechino a Mosca.
Finora il Dragone sulla crisi ucraina sembra ai margini. «Le truppe cinesi potrebbero guidare un’operazione di mantenimento della pace in Ucraina, se venisse lanciata. Ma la Cina sta aspettando che la situazione si calmi prima di rendere pubblica una simile offerta», scriveva l’Economist a fine febbraio. «Qualsiasi dispiegamento dovrebbe essere effettuato nell’ambito delle Nazioni Unite», emergeva negli stessi giorni sul South China Morning Post.
L’invio di forze di peacekeeping cinesi farebbe fare un discreto “salto di qualità” all’immagine di Pechino negli affari globali. In un mondo scosso dai cambiamenti di rotta della politica americana durante questo inizio di secondo mandato di Donald Trump, Pechino vuole essere percepita come una forza di “stabilità”, una “potenza responsabile” e affidabile, che di fronte a grandi cambiamenti «porta certezza in un mondo incerto», come ebbe a dire proprio Wang. La Cina potrebbe sperare di trarre vantaggio cercando di riparare i suoi rapporti con l’Europa. E se si dovesse raggiungere un accordo di fine delle ostilità che regga, ne può approfittare incoraggiando le proprie aziende a cercare profitti nella ricostruzione dell’Ucraina. E proprio oggi in Arabia Saudita dovrebbe cominciare un nuovo round di colloqui tra Usa e Ucraina che dovrebbe essere seguito, nei prossimi giorni, sempre a Riad, da incontri tra americani e russi.
L' ITALIA DI MELONI COMINCIA A BALBETTARE
Si fa presto a dire Andreotti. Che, volendo, non era neppure doroteo. La Democrazia cristiana ha governato il nostro paese per quarant'anni. Sembra che lo abbia fatto sempre procrastinando le decisioni, cambiando le cose il meno possibile, procedendo a piccoli passi. Eppur si muove. Con quella classe dirigente che aveva al suo interno figure di grande rilievo e spessore l'Italia è diventata una democrazia industriale moderna e perfino laica, in una certa misura. Temporeggiando temporeggiando da che parte va la fatina bionda? Perfino Eisenhower che parlava del complesso militare-industriale era un uomo di progresso rispetto a Trump. Dove va Giorgia Meloni? In braccio a Musk? Scommettiamo che non ce la fa, perché non ce la può fare? Scommettiamo.
Marco Damilano
Meloni e la deriva andreottiana dell'infinito tirare a campare
Domani, 23 marzo 2025
... Una distopia cui partecipano anche intellettuali liberali, disposti a discettare sui punti del Manifesto di Ventotene e a bendarsi gli occhi davanti a ciò che rappresenta la fiamma nel simbolo del Msi. O chi contrappone De Gasperi a Spinelli, dimenticando che entrambi sognavano un’Europa antifascista e antinazionalista, o che Spinelli fu nominato commissario europeo nel 1970 dal democristiano Aldo Moro su suggerimento del socialista Pietro Nenni. Quello che ieri ha fatto sbottare Romano Prodi: «Ma il senso della storia ce l’avete?».
La legislatura che per Meloni doveva raggiungere due obiettivi, cambiare verso all’Europa, riscrivere la Costituzione con il premierato, si sta risolvendo nel nulla. L’Europa si è spostata a destra, ma in questa Europa stritolata dalla morsa Trump-Putin l’Italia di Meloni balbetta, non ha un ruolo credibile su nessuna sponda. Il premierato è finito nel tempo del mai, sul binario morto di qualche commissione, in ritardo come sono tutti i treni in questo periodo. Anche per Meloni la stagione delle grandi riforme è precocemente finita.
Meglio così. Ma resta l’amministrazione del potere, feroce e spietata, anche se a beneficiarne sono figure mediocri. Resta la guerra ideologica, che serve a fomentare i più scalmanati, per chiudere l’antifascismo in una parentesi della storia. E restano i provvedimenti più pericolosi, come l’articolo 31 del ddl Sicurezza appena approvato che impone a scuole e università, ma anche ospedali e editori in regime di concessione e autorizzazione, come il servizio pubblico Rai, di consegnare ai servizi di intelligence, se richiesti, anche i dati più sensibili. Un obbligo inquietante perché arriva da un governo che ancora non è riuscito a imbastire una versione credibile sui giornalisti, attivisti e preti monitorati e spiati.
FRANCO FORTINI E ROSSANA ROSSANDA
Massimo Raffaeli
Una feconda amicizia con note dissonanti
il manifesto, 12 marzo 2025
Arrivederci tra dieci anni? Il carteggio Fortini-Rossanda (1951-1993) (Firenze University Press-USiena Press, pp. 146, euro 21.85, ma scaricabile gratuitamente in pdf), con un saggio di Monica Marchi, nella puntuale curatela di Giuseppe Ferrulli.
... Fortini e Rossanda si incontrano nell’immediato dopoguerra quando l’uno, ex partigiano e appena reduce dal Politecnico, iscritto al Psi, è consigliere della Casa della Cultura a Milano, mentre l’altra, storica dell’arte entrata nella Resistenza da allieva di Antonio Banfi, giovanissima dirigente del Pci, la dirige.
L’esordio del rapporto, o meglio il primo punto di frizione, è una disputa all’interno della Casa della Cultura (diretta fino al ‘63 da Rossanda con risolutezza e aperture impensabili in anni di Guerra fredda e zdanovismo) che si conclude nel dicembre del ’51 con le dimissioni di Fortini dal consiglio direttivo della Casa, quando in una lettera accusa i militanti del Pci (e dunque, di riflesso, la direttrice medesima) di essere dei «comunisti piccoli», agenti di un mediocre machiavellismo nei confronti dei compagni e soprattutto dei socialisti.
LA NATURA, la postura stessa del rapporto tra Fortini e Rossanda, qui sono dati una volta per sempre: di solito Fortini porta l’affondo ironico ovvero aggressivo, additando gli spettri di una umanità ferita e irredenta, ridotta allo stato di perenne parzialità, sia pure ritrovata nel pensiero poetico, in immagini la cui drammatica scomposizione lascia tuttavia intravedere un possibile riscatto, il disegno utopico della totalità e, pertanto, di un’umanità risarcita. (A una simile oltranza dell’immaginario, corrisponde il riflesso psicologico di un carattere ombroso, insofferente e refrattario a gesti di conciliazione: la sua interlocutrice un giorno lo definirà di carattere «infiammabile», un altro citerà le parole di don Abbondio a proposito del cardinal Federigo: «Oh che sant’uomo! ma che tormento!»).
ROSSANDA HA PROFILO e carattere antipodi, in lei ogni gesto istintivo coincide con l’incipit di una riflessione e così la sua ricerca di una mediazione non è mai rifiuto del conflitto ma un rilancio del discorso su un piano ulteriore, più largo e magnanimo: la scrittura le somiglia, ha un passo lungo e avvolgente prima di approdare alla fermezza di una conclusione.
L’uno in una celebre poesia (Il Comunismo, nella raccolta Una volta per sempre, 1963) dovrà ammettere la difficoltà di vivere l’eguaglianza con i propri compagni nella comune negazione dell’esistente («Non si può essere comunista speciale./ Pensarlo vuol dire non esserlo»), l’altra in una lettera ormai tarda, del gennaio 1981, gli si rivolgerà nella sgomenta convinzione che il comunismo non è il traguardo ma la via, terribilmente accidentata, per raggiungerlo: «La mia identità è di essere comunista, e non lo sono; non me ne importa di niente altro, per rapporto a quel che ho capito un giorno del ’43 e rispetto al quale ho collezionato soltanto cammini faticosi approdati in vicoli ciechi».
SONO DINAMICHE riavviate ad ogni passaggio di fase del loro rapporto, scandito dalla storia grande del secondo Novecento e dall’avvicendarsi dei gruppi intellettuali e politici che lo costellano. Prima c’è l’indimenticabile ’56 (con una sfuriata di Fortini contro la Casa della Cultura, rea di ignorare il rapporto Krusciov e di ridurre – con una conferenza dello psicoanalista Cesare Musatti – la critica dello stalinismo ad una eterna lotta col padre), poi gli anni del Miracolo economico e la lunga stagione delle lotte che culmina nel ’68-’69 e apre il decennio antagonista, con la radiazione dal Pci del gruppo del manifesto e la successiva fondazione, nel 1971, del quotidiano.
Fortini ne sarà una prima firma (i suoi articoli sono ora nei due volumi di Disobbedienze, manifestolibri 1997-’98) ma con aspri dissensi prima sulla scelta di inglobare il quotidiano nel Pdup poi, dagli anni ottanta, sulla progressiva ai suoi occhi «americanizzazione» nei gusti, nello stile e nel linguaggio del giornale che egli vorrebbe, scrive nella lettera del 18 dicembre ’74, concentrato sulla critica «che smonta e spiega il processo produttivo della cultura circostante e cerca di farci capire come funziona e non soltanto quale ideologia indossi e propagandi».
Ma il contrasto diventa frattura irreparabile quando nel ‘79, recensendo il Doppio diario postumo di Giaime Pintor, Fortini estrapola la figura dello scrittore e martire antifascista per farne un caso di ceto privilegiato e di classe, la stessa che a cadenza rifornisce lo Stato dei suoi Grand Commis: l’articolo non esce e Rossanda, sdegnata, si schiera immediatamente dalla parte di Luigi Pintor, offeso nel profondo. Ci vorranno anni per ripristinare la collaborazione di Fortini al giornale e un qualche rapporto con la sua interlocutrice ma prevarranno d’ora in poi il senso di stanchezza per la vecchiaia incipiente, i silenzi, e le reciproche omissioni.
ANCHE NEI TESTIMONI terminali del carteggio la postura rimane immutata e, rileva Monica Marchi, «da una parte c’è Fortini che orgogliosamente rivendica il suo isolamento dall’altra parte, invece, c’è Rossanda che al contrario difende il suo essere parte di qualcosa». In altri termini, con gli stereotipi che ogni tanto il carteggio rilancia, da una parte c’è il poeta scismatico e comunista «speciale», dall’altra l’intellettuale prediletta da Palmiro Togliatti e Jean-Paul Sartre, la compagna dell’indimenticabile K. S. Karol.
Quegli ultimi documenti sono gesti di omaggio che l’antico discidium, retrospettivamente, carica di senso e destino. Rossanda scrive in occasione del pensionamento di Fortini dall’Università di Siena lo stupendo saggio (anche autobiografico) che si intitola Le capre ostinate mentre il poeta le conferma una definitiva adesione nell’epigramma Per Rossana R. (in Poesie inedite, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, Einaudi 1997): «Gente, la rima non ripaga/ corta è la vita lunga la piaga./ Finché un’ora più vera non viene/ la Rossana a me va bene».
AL CENTRO CULTURALE BIOTOS di PALERMO IL LIBRO DEDICATO A FRANCESCO CARBONE
MERCOLEDI' 9 APRILE 2025, ore 17, al CENTRO CULTURALE BIOTOS DI PALERMO, via XII Gennaio n.2,
ALDO GERBINO e FRANCESCO VIRGA
presenteranno un libro dedicato alla memoria della geniale opera di FRANCESCO CARBONE.
20 marzo 2025
LA MELONI SI E' TOLTA LA MASCHERA
Eric Josef, Ma così Meloni ha rinnegato le radici antitotalitarie
La Stampa, 20 marzo 2025
Nei suoi due anni e mezzo alla guida del governo italiano, Giorgia Meloni era riuscita a limare il suo passato di giovane militante post-fascista ma anche, dialogando con Bruxelles, a eclissare le posizioni ultra-nazionaliste e anti-europeiste di quando era all’opposizione. Ieri, alla Camera dei deputati, additando il “Manifesto per un Europa libera e unità” scritto nel 1941, ha dileggiato tre confinati antifascisti di estrazioni ideologiche diverse, Altiero Spinelli, Ernesto Rossi e Eugenio Colorni, ma ha soprattutto riaperto la questione del suo rapporto con l’Europa. Estrapolando dal loro contesto passaggi del [manifesto] di Ventotene, la premier italiana ha cercato infatti di fare passare il [documento] per un’apologia di regimi autoritari e rivoluzioni marxiste snaturandolo da quel che è, un ragionamento con limiti e contraddizioni ma con l’incredibile forza d’immaginare in un continente sottomesso alla dittatura nazifascista [la] possibilità di un’Europa pacificata, libera, federale e democratica. Ed è vero che dalle pagine emana una visione socializzante della società futura, ma era allora un’ispirazione talmente diffusa che pure la Costituzione italiana del 1948 inizia proclamando la Repubblica “fondata sul lavoro”. Questo però, lungi dal fare del Manifesto un Libretto Rosso ante-litteram, lo rende un testo fondativo dell’idea di Europa unita.
Tuttavia, al di là della strumentalizzazione politica di alcuni passaggi, la polemica aperta da Giorgia Meloni presenta un merito. Nell’affermare «non so se questa è la vostra Europa ma certamente non è la mia» la presidente del Consiglio pone il Manifesto di Ventotene come la discriminante tra due visioni radicalmente distinte dell’Europa, oggi più che mai. Quella cioè di chi ne trae ispirazione per proiettarsi verso un’Unione antinazionalista, anti-imperialista e sempre più federale, e l’altra di chi, sull’onda del premier ungherese Viktor Orban o del ministro Salvini, afferma la propria fede europeista (servendosi dello slogan di Elon Musk “Make Europe Great Again”) impiantandola su un continente tradizionalista, bianco e cristiano, vicino al “Dio, patria e famiglia” di Giorgia Meloni.
DARE TERRA E PACE AI PALESTINESI
Mi chiamo Mahmoud, sono un prigioniero politico
Mahmoud Khalil
19 Marzo 2025
Foto di Jewish Voice for Peace: il 14 marzo un centinaio di persone sono state arrestate a New York durante la protesta per l’occupazione della Trump Tower promossa per chiedere il rilascio di Mahmoud Khalil, lo studente palestinese della Columbia University trattenuto dalle autorità per l’immigrazione degli Usa. Gran parte dei fermati indossavano magliette rosse con la scritta “Gli ebrei dicono di smetterla di armare Israele”. C’è vita oltre Trump
Mi chiamo Mahmoud Khalil e sono un prigioniero politico. Vi scrivo da un centro di detenzione in Louisiana, dove mi sveglio al freddo del mattino e trascorro lunghe giornate a testimoniare le silenziose ingiustizie in atto nei confronti di moltissime persone a cui è preclusa la tutela della legge.
Chi ha il diritto di avere diritti? Non sono certo gli esseri umani ammassati in queste celle. Non è l’uomo senegalese che ho incontrato e che è stato privato della sua libertà per un anno, con la sua situazione legale in un limbo e la sua famiglia a un oceano di distanza. Non è il detenuto ventunenne che ho incontrato, che ha messo piede in questo paese all’età di nove anni, per poi essere deportato senza nemmeno un’udienza.
La giustizia sfugge ai contorni delle strutture di immigrazione di questa nazione.
L’8 marzo sono stato preso da agenti del Department of Homeland Security che si sono rifiutati di fornire un mandato e hanno avvicinato me e mia moglie mentre tornavamo da una cena. Il filmato di quella notte è stato reso pubblico. Prima che mi rendessi conto di ciò che stava accadendo, gli agenti mi hanno ammanettato e costretto a salire su un’auto senza contrassegni. In quel momento, la mia unica preoccupazione era la sicurezza di [mia moglie] Noor. Non sapevo se sarebbe stata portata via anche lei, visto che gli agenti avevano minacciato di arrestarla per non avermi abbandonato. Il DHS non mi ha detto nulla per ore: non sapevo la causa del mio arresto né se rischiavo la deportazione immediata. Al 26 di Federal Plaza ho dormito sul pavimento freddo. Nelle prime ore del mattino, gli agenti mi hanno trasportato in un’altra struttura a Elizabeth, nel New Jersey. Lì ho dormito per terra e mi è stata rifiutata una coperta nonostante la mia richiesta.
Il mio arresto è stato una conseguenza diretta dell’esercizio del mio diritto alla libertà di parola, mentre sostenevo la necessità di una Palestina libera e la fine del genocidio a Gaza, che è ripreso in pieno nella notte di lunedì (17 marzo). Con il cessate il fuoco di gennaio ormai infranto, i genitori di Gaza stanno di nuovo cullando sudari troppo piccoli e le famiglie sono costrette a scegliere tra fame e sfollamento e le bombe. È nostro imperativo morale continuare a lottare per la loro completa libertà.
Sono nato in un campo profughi palestinese in Siria da una famiglia sfollata dalla propria terra durante la Nakba del 1948. Ho trascorso la mia giovinezza in prossimità ma lontano dal mio paese. Ma essere palestinese è un’esperienza che trascende i confini. Vedo nelle mie circostanze analogie con l’uso da parte di Israele della detenzione amministrativa – imprigionamento senza processo o accusa – per privare i palestinesi dei loro diritti. Penso al nostro amico Omar Khatib, che è stato incarcerato senza accusa né processo da Israele mentre tornava a casa dopo un viaggio. Penso al direttore dell’ospedale di Gaza e pediatra Dr. Hussam Abu Safiya, che è stato fatto prigioniero dall’esercito israeliano il 27 dicembre e che oggi rimane in un campo di tortura israeliano. Per i palestinesi, l’imprigionamento senza un giusto processo è una prassi comune.
Ho sempre creduto che il mio dovere non sia solo quello di liberarmi dall’oppressore, ma anche di liberare i miei oppressori dall’odio e dalla paura. La mia ingiusta detenzione è indicativa del razzismo anti-palestinese che sia l’amministrazione Biden sia quella di Trump hanno dimostrato negli ultimi sedici mesi, quando gli Stati Uniti hanno continuato a fornire a Israele armi per uccidere i palestinesi e hanno impedito ogni intervento internazionale. Per decenni, il razzismo anti-palestinese ha guidato gli sforzi per espandere le leggi e le pratiche statunitensi utilizzate per reprimere violentemente i palestinesi, gli arabi americani e altre comunità. È proprio per questo che sono stato preso di mira.
Mentre attendo decisioni legali che tengono in bilico il futuro di mia moglie e di mio figlio, coloro che hanno permesso che venissi preso di mira rimangono comodamente alla Columbia University. I presidenti Shafik, Armstrong e il rettore Yarhi-Milo hanno gettato le basi perché il governo degli Stati Uniti mi prendesse di mira, disciplinando arbitrariamente gli studenti filopalestinesi e permettendo che la delazione virale – basata sul razzismo e sulla disinformazione – si svolgesse senza controllo.
La Columbia mi ha preso di mira per il mio attivismo, creando un nuovo ufficio disciplinare autoritario per aggirare il giusto processo e mettere a tacere gli studenti che criticano Israele. La Columbia si è arresa alle pressioni federali divulgando i dati di studenti e studentesse al Congresso e cedendo alle ultime minacce dell’amministrazione Trump. Il mio arresto, l’espulsione o la sospensione di almeno 22 studenti di Columbia – ad alcuni è stata tolta la laurea a poche settimane dal diploma – e l’espulsione del presidente della Student Workers of Columbia, Grant Miner, alla vigilia delle trattative contrattuali, ne sono chiari esempi.
Se non altro, la mia detenzione è una testimonianza della forza del movimento studentesco nello spostare l’opinione pubblica in favore della liberazione della Palestina. Studenti e studentesse sono stati a lungo in prima linea nel cambiamento: hanno guidato la carica contro la guerra del Vietnam, sono stati in prima linea nel movimento per i diritti civili e hanno guidato la lotta contro l’apartheid in Sudafrica. Anche oggi, sebbene l’opinione pubblica non l’abbia ancora compreso appieno, sono studenti e studentesse a guidarci verso la verità e la giustizia.
L’amministrazione Trump mi sta prendendo di mira come parte di una strategia più ampia per reprimere il dissenso. I titolari di un visto, i titolari di una green card e i cittadini saranno tutti presi di mira per le loro convinzioni politiche. Nelle prossime settimane, studenti, sostenitori e funzionari eletti devono unirsi per difendere il diritto di protestare per la Palestina. In gioco non ci sono solo le nostre voci, ma le libertà civili fondamentali di tutti.
Sapendo che questo momento trascende le mie circostanze individuali, spero comunque di essere libero di assistere alla nascita del mio primo figlio.
Questa lettera è stata dettata per telefono dal centro di detenzione ICE (l’agenzia federale per il controllo dell’immigrazione e delle dogane) in Louisiana, da Mahmoud Khalil, dove si trova dopo l’arresto dell’8 marzo. Khalil, nato in Siria da rifugiati palestinesi, è stato figura chiave nelle proteste alla Columbia University contro la guerra a Gaza nella primavera del 2024. Traduzione di Connessioniprecarie (che ringraziamo).
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