“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
07 marzo 2025
NINO CANGEMI RICORDA GIOVANNI MELI
GIOVANNI MELI, IL POETA CHE ISPIRO' PURE LEOPARDI E GOETHE
Antonino Cangemi
Per molti Giovanni Meli -di cui ricorre l'anniversario della nascita - è il maggiore poeta vernacolare siciliano. Giudizio non condiviso da chi precisa come l’isola vanti più di un poeta dialettale di rilievo, a cominciare, nel Cinquecento, dal monrealese Antonio Veneziano, per finire, nel Novecento col bagherese Ignazio Buttitta. Dispute oziose, basate su valutazioni soggettive, che lasciano il tempo che trovano. Piuttosto è un dato oggettivo che il Meli è, tra i nostri poeti dialettali, quello che ha goduto e gode di maggiore notorietà fuori dalla Sicilia. Lo testimoniano i riconoscimenti tributatigli in Italia e la considerazione che ebbero di lui Johann Wolfgang Goethe (le cui Affinità elettive richiamano lessicalmente e nell'esaltazione del senti-mento amoroso il suo saggio Discorso sulle attrazioni elettive adombrate nella mitologia degli antichi poeti), Ugo Foscolo, Giacomo Leopardi. Meli fu infatti accolto dalle più importanti accademie d'Italia (quella di Siena e di Messina, in particolare) e, nel 1815 - poco prima che morisse -, Leopoldo di Borbone fece coniare in suo onore una medaglia che lo consacrò «Anacreonte siculo». Foscolo tra-dusse in italiano alcune pagine del suo poemetto eroicomico Don Chi-sciotti e Sanciu Panza, nel Sabato del villaggio di Leopardi si sente l'eco dei versi de La Fata Galanti «Di che ornarsi e petto, e collo, e crine / Qui troveria qual è la più schizzinosa».
Meli nacque a Palermo il 6 marzo 1760 da una famiglia modesta: il padre, Antonio, faceva l'orefice, la madre, Vincenza Torriquas, era di origini spagnole. Rivelo presto la sua vocazione alla poesia: a soli quindici anni con i suoi versi si fece notare nei cenacoli letterari palermitani e a vent'anni scrisse il poe-metto Lu trionfu di la ragiuni in cui si riflette la cultura illuminista dell'epoca, che segnò con lo studio dei classici latini la sua formazione, e la tendenza - figlia di quella cultura - a tradurre in letteratura il pensiero filosofico. Tutto ciò gli consenti di divenire giovanissimo socio prima dell'Accademia del Buon Gusto e, dopo, della più esclusiva Accademia della Galante Conversazione. Conclusi gli studi di Medicina, l'esercizio dell'attività di medico a Cinisi, dove vivrà per alcuni anni, non lo escluse dagli ambienti elitari palermitani, e anzi il vezzo di indossare gli abiti talari gli fecero guadagnare il titolo di abate pur non essendo un sacerdote. Nel 1787 gli fu assegnata la cattedra di Chimica all'Università di Palermo. Conversatore brillante e assiduo nei salotti aristocratici, mostrò particolare attenzione verso il gentil sesso (almeno così si vociferava), attenzione ricambiata probabile mente anche per l'attrazione esercitata dall'abbigliamento sacerdo-tale ditra parte Meli è cantore del fascino femminile che si armonizza con quello della natura, come risal-ta in molte sue poesie. Un esempio su tutti, l'assai nota Lu labbru in cui il miele delle api è associato a quel-lo delle labbra dell'amata Nicia:
«Dimmi, dimmi, apuzza nica,/ unni vai cussi matinu?/ [...] Cerchi meli? E s'iddu è chissu,/ chiudi l'ali e 'un ti stracciari; /ti lu 'nzignu un locu fissu / unni ài sempre chi sucari/lu canusci lu miu amuri,/ Nici mia di l'occhi beddi?/ Ntra ddi labbri c'è un sapuri/ ma ducuzza chi mai speddi:/ tra lu labbru culuritu/ di lu caru amatu beni/ c'è lu meli chiù squi-situ./ suca, sucalu, ca veni».
A proposito dell'ode Lu Labbru scrive Francesco Flora: «Questa non è una piccola poesia, è un canto in cui confluisce un'umanità affettuosa per un accordo di molti sentimenti: la vaghezza dell'amore, la gentilezza verso le creature dell'aria, il sen-so vivo del mondo naturale, l'eleganza sorridente d'un'arte allusiva analogica».
Come osserva Giorgio Santangelo che del poeta palermitano è stato il più profondo conoscitore (sua la curatela dell'opera omnia, Rizzoli 1965-1968), «il Meli visse in piena età di transizione arcadico-illuministica, di cui rispecchia i fondamentali motivi e atteggiamenti»: dell'Arcadia fa proprie la vi-sione idilliaca della natura e il gusto classico, dell'Illuminismo l'interesse per la filosofia, il razionalismo, e certo spirito satirico presente in alcune sue opere. È con le Favuli morali, la sua ultima opera, che Meli raggiunge gli esiti estetici più ap-prezzabili: in esse supera taluni astratti estetismi dell'Arcadia e, tramite l'allegoria favolistica condita - di sobrio umorismo, dà voce a una critica sociale in cui racconta l'ingiustizia e le sopraffazioni di cui sono vittime i più deboli.
La sua fortuna è legata anche all'uso del dialetto che vivacizza il suo dire poetico: un dialetto non corrispondente a quello parlato, letterario ma mai artificioso, che il Santangelo ricollega alle istanze culturali della stagione in cui visse ponte tra l'Arcadia e l'Illuminismo: «La lingua del Meli va [..] giudicata nell'ambito della cultura arcadi-co-illuminista venuta già a contatto della poetica neoclassica».
Come prima evidenziato, nel 1815, ad attestare il suo spessore di poeta, il Principe di Salerno coniò una medaglia recante la sua effigie. La medaglia gli fu consegnata corredata da una lettera scritta dallo stesso Leopoldo di Borbone in cui, tra l'altro, si legge: «Preferisco di unire i miei desideri a quelli di tutti i buoni, perché viviate lungamente alla virtù, e delle Lettere di cui siete la delizia e l'ornamento». Un augurio di lunga vita che oggi, rileggendolo, suona come una beffa. Infatti, pochi mesi dopo, il 20 dicembre, il poeta, ammalatosi, si spense.
ANTONINO CANGEMI, Giornale di Sicilia, 6 marzo 2025
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