24 agosto 2013

NOSTALGIA DEGLI ANNI 70...


                                                         Milano anni '70. La Festa di Parco Lambro


Anni '70, tanta politica, ma soprattutto tanta voglia di vivere esperienze nuove, di allargare l'area della propria coscienza critica. Si faceva con i volantini, il cinema, la musica, qualche canna e il viaggio. Dove andavamo? Verso noi stessi, come in ogni viaggio che conta. E come in ogni viaggio, qualcuno è arrivato, qualcuno viaggia ancora e tanti (purtroppo) si sono persi o fermati lungo il percorso.

Emanuele Giordana -Viaggio all'Eden. 40 anni dopo 

Un viaggiatore, liceale negli anni Settanta, ripercorre oggi la strada per l'Oriente cercando di far ordine tra appunti, i ricordi e le inevitabili trasformazioni

In origine fu Luca detto «Paglia». Con un maggiolino prima, mezzi di fortuna poi, aveva raggiunto Kabul via terra facendo all'inverso la stessa strada che gli australiani battevano da anni verso l'Europa. Sì, perché erano stati i giovani australiani a iniziare un grande viaggio che attraversava l'Asia per raggiungere il vecchio continente, con un percorso che prevedeva tappe e lentezza verso le radici delle famiglie d'origine.

Negli anni Settanta quel percorso «à rebours» invece iniziarono a farlo gli inglesi, i francesi, gli italiani. Luca era stato uno dei primi del nostro giro e, già all'università, veniva all'uscita del Carducci, liceo milanese fuori dalla cerchia dei Navigli (il che gli dava, come classico, un'aurea proletaria di periferia) a esibire magliette ricamate, pipette, scatoline argentate comprate nel bazar della capitale afgana: «Come in Afghan shop my friend... cheap price for you...», cantilenava a noi giovani liceali disposti a sognare la trasformazione delle nostre vite di militanti a tutto tondo in qualcosa che andasse oltre la Resistenza, la lotta per il diritto allo studio, le manifestazione per il Vietnam. Restavamo confusi da quegli stracci colorati, dagli stemmi della famiglia reale, dal richiamo di strade polverose che andavano verso Oriente. La meta però non era Canberra. Era Kathmandu.

La febbre del viaggio era cresciuta in tempo reale. Fabrizio tornava da Wight dove il neonato Festival del rock era stato sospeso nel 1970 dopo solo due edizioni, Marco andava e veniva da Amsterdam, Luca e Adriano raccontavano di Istanbul, la Porta d'oro, prima tappa del Viaggio all'Eden (titolo della prima guida dedicata, uscita nel '73, curata da Marco Amante e Lugi Buffarini Guidi). I preparativi erano una sorta di filo rosso che si dipanava in città: nei licei, nei primi corsi all'università, nel servizio notturno alle Poste che, all'epoca, assumeva precari per tre mesi, pagava un discreto stipendio e forniva la prima vera base di massa del tesoretto necessario per partire. I ritrovi serali andavano per quartiere.

Milano anni '70
















Noi di zona Loreto ci trovavamo in un baretto che forse non arrivava a 15mq. Per aumentare lo spazio vitale il «Gino», padre padrone del Bar Erika, vagamente claudicante e dotato di una moralità gesuitica, ma anche di una flessibilità ante litteram, si serviva di una botola sotto il bancone dove teneva i liquori. Magari stavi ordinando uno «spruzzato» (bianco con bitter e seltz, versione milanese dello spritz) e quello improvvisamente spariva nella botola per riemergerne con una bottiglia di Campari, una Vecchia Romagna e un richiamo alla marmaglia: «Maledeti capeloni....». Era veneto il Gino, e dunque - all'opposto dei sardi - disdegnava le doppie, ma in compenso ci conosceva uno per uno e, seppur raramente, dispensava buoni consigli: «Con quella roba farai una brutta fine....». Alludeva all'eroina il Gino, la polvere grigiastra che iniziava a circolare. Sugli «spinelli» era tollerante, ma andavano fumati girato l'angolo. Il bar doveva restare pulito.

I bar erano i luoghi dove scambiarsi indirizzi, consigli, strade più o meno percorribili. A una cert'ora ci muovevamo per andare dal ritrovo del quartiere a quello cittadino più in voga al momento: il Magenta, vicino alla stazione Nord, che serviva panini con pancetta sino a tarda notte ed era frequentato dai «grandi» - gli universitari - soprattutto del Movimento studentesco. Il «baretto» di Sant'Eustorgio, dietro piazza Vetra a Porta Ticinese, che aveva poi preso il sopravvento grazie allo spazio antistante e prezzi contenuti.

Non così lo storico Giamaica di Brera, oggi Jamaica, troppo caro per le nostre tasche come il «Tombon de San Marc»: ci avresti lasciato troppi dei risparmi che servivano al grande viaggio. A Sant'Eustorgio ci trovavi quelli del liceo Manzoni o del Berchet, i più arrabbiati degli istituti tecnici, le prime bande infagottate nei giubbotti di pelle anche a fine luglio. Il bar era un luogo di aggregazione dove ai discorsi sul calcio si era sostituita l'organizzazione di picchetti e presidi, o dove ci scambiavamo dritte per comprare il fumo o su quella trattoria che praticava prezzi popolari e il cui vino non era veleno.

E poi, con l'arrivo dell'estate, i primi racconti: i posti dove andare a dormire ad Atene, i prezzi del Magic bus da Istanbul a Delhi, le dritte sui privilegi neocoloniali che resistevano nella beata incoscienza della Guerra fredda. In India, ad esempio, i «bianchi» di qualsiasi nazionalità avevano diritto a posti riservati su tutti i treni di grande percorrenza. Non c'era nemmeno da fare la fila, ma dovevi saperlo altrimenti ti toccava, come a tutti, un viaggio in cui lottare per stendere le gambe o appoggiare le chiappe su un sedile. Quel paese, a sentirselo raccontare, non sembrava diverso da quello che Kipling aveva fatto attraversare al suo Kim.

La voglia del viaggio, nella seconda metà degli anni Settanta, era diventata un contagio febbrile, irrefrenabile e trasversale. In Oriente ci andava il fricchettone o l'hippy (c'era una distinzione tutta politica tra i due soggetti), il «katanga» della Statale (appellativo guadagnato sul campo menando i poliziotti ai cortei), quelli di Lotta continua ma anche i più seriosi militanti di Avanguardia operaia. «Quelli del manifesto» ma anche un tipo che si era nominato «anarco-sioux», riflessione nobile e autoreferenziale nell'evoluzione di un movimento così variegato in cui avevano trovato posto persino i nazi-maoisti. Anche quelli in qualche modo finiti sulla rotta d'Oriente.

Milano. Festa di Parco Lambro















La febbre si curava con dosi massicce di informazioni più o meno virtuali: le prime edizioni di Herman Hesse, I Ching, i classici della beat generation, dove ancora non sapevi se vagolare per Milano ti faceva assomigliava ai protagonisti de «I sotterranei» o se la spasmodica attesa della partenza non ricordasse i preparativi di «Sulla strada», due classici di Kerouac che erano pane quotidiano trascorsa l'epoca della lettura obbligata di Marx e Lenin.

Musica a tutto volume nelle serate a casa di amici, scambi di vinili e, più avanti, delle prime cassette. I film di culto in qualche cinemino. Venivano proiettati nei «cinema d'essai» o in sale corsare come il Nobel o, dietro la Stazione Centrale, il mitico Abanella. Visto che all'epoca al cinema si poteva fumare, alate circonvoluzioni di denso fumo aromatico avvolgevano pellicole passate alla Storia come «Woodstock», meno noti lungometraggi del nuovo cinema americano («Punto zero», road movie del '71 di Richard Sarafian), per non parlare della più mitica tra le mitiche pellicole dell'epoca: «Cavalieri selvaggi» di John Frankenheimer, girato in Afghanistan nel '72, meta intermedia - e intanto virtuale - del viaggio all'Eden.

Dell'Afghanistan sapevamo poco. Ignoravamo che il Viaggio all'Eden, la cui meta finale era la valle di Kathmandu in Nepal, avrebbe compreso una sosta in questo paese sospeso su un abisso imminente che ancora dura.

La febbre, il contagio, la peste si diffondeva intanto a macchia d'olio. Arrivata a Varese, si incuneava a Genova, risaliva verso Cremona, si alimentava dei racconti di abili napoletani che contraffacevano i biglietti del treno con copie di una matrice da 100 lire trasformata in 10mila, si spandeva nella capitale dove si arricchiva di nuovi racconti.

Milano anni '70

















Quando noi milanesi «scendevamo» a Roma, che allora ci sembrava un immenso affascinante suk se paragonata alla statica geometria funzionalista di Milano, passavamo ore nella romanissima Campo de' fiori dove oggi nemmeno più la «vineria» è rimasta proprietà di un autoctono. Sorseggiando una birra dal Nolano, l'unico locale dove il cliente ha a disposizione una «mazzetta» che comprende il manifesto, da quell'epoca sembra passato un secolo. In effetti erano quarant'anni fa. Chissà che ne è a Milano della Bocciofila Martesana, ritrovo per anziani eletto a domicilio dei sognatori dell'Eden. Resiste il bar del «Pino» in via Cerva, ora ristorante elegante gestito dai figli che hanno conservato quel fascino d'antan. E più o meno quei prezzi. Non quelli della Martesana, dove il pasto completo veniva 500 lire e dove il conto mentale era quanto ti era rimasto per prendere il Direct Orient da Parigi, via Milano, sino a Istanbul. Già Orient Express dal 1833, il suo ultimo viaggio fu nel maggio del '77.

Esiste ancora il Bar Magenta, esiste il Jamaica, è scomparso l'Erika. Prima trasferitosi nell'angolo di fronte lasciando il posto a un negozio di abbigliamento, alla fine è stato ceduto. Oggi a sostituire la funzione aggregativa dei bar - a Milano e altrove - esistono i centri sociali, oppure gli appuntamenti con gli aperitivi «mangia e bevi» di cocktail e stuzzichini. A Milano resiste il bar Basso, il luogo deputato all'aperitivo, oggi come allora, per la mano felice dei suoi barman: Campari shakerato, Bellini, Negroni «sbagliato» e via discorrendo sino all'invasione della caipirinha o di altre miscele esotiche.

A metà tra il bar proletario, quello «su» e il locale notturno, gli anni Settanta avevano visto nascere, crescere e poi passare di mano il primo locale della sinistra alcolica. Si chiamava Punto rosso ed era stato aperto da quattro giovinastri i cui nomi, da soli, erano un programma: l'Ocio (contrazione di HoChiMinh), Spratt, il Carletto e il conte Balbo, «erikesi» doc e ben ammanigliati con tutta la sinistra extraparlamentare. Tanto ammanigliati da far paura anche alla mala milanese, che già non era più quella dei Turatello ma voleva comunque metter le mani su tutto quel che si muoveva dopo le nove.

Una sera i balordi chiedono il pizzo e i quattro gli fanno capire che questa roba «non la paghiamo». I balordi danno un appuntamento per far valere il loro rispetto e i quattro fanno un paio di telefonate. Così all'appuntamento si presenta buona parte del servizio d'ordine di Lotta Continua e il clan del Casoretto, circolo politico menatosto di zona Loreto, alcuni di «Rosso» o di PotOp. Inutile dire che era tutta gente dell'Erika. Solidarietà trasversale. I balordi vedono la truppa, capiscono l'antifona e girano i tacchi. Vittoria: il Punto rosso è zona franca. Già raro Folk Club, il «Punto», che era ufficialmente un circolo Endas, aveva raggiunto il suo apice in un anno con 4500 tesserati (la tessera era imposta dell'Ente di Azione sociale che soci di un club non ne aveva mai visti così tanti). Ballo che dura una sola stagione. Il locale passa di mano. Diventa Chicote (come l'omologo di Madrid) e poi Ciucaté (ubriacone). Tre dei quattro si ritirano, l'Ocio si ingrandisce e apre con altri un «Punto rosso» discoteca, tendone che annuncia anche a sinistra la Milano da bere, ballabile e meno militante.

Milano anni '70















Nascono locali a bizzeffe ma per ritrovare quell'atmosfera c'è forse ancora un posto che la trasmette, in via Castelmorrone: La Belle Aurore, con gli inossidabili Adele e Fiorenzo in cucina e al bancone. Ex del Teatro Officina, un luogo storico della Milano anni Settanta, tengono in vita oltre al locale anche quel che resta di una gloriosa stagione. Che Fiorenzo, se conquistate la sua simpatia (il che può non essere facilissimo), potrebbe rinverdire tra un prosecco e un vodkamartini.

Intanto il viaggio all'Eden era per molti già cominciato. Dopo i pionieri della fine degli anni Sessanta (come i primi «capelloni» accampatisi su indicazione della rivista Mondo Beat alla periferia di Milano e che il Corsera aveva ribattezzato Barbonia City) e degli inizi dei Settanta - mentre iniziava la stagione dei raduni rock organizzati da Re Nudo - stava per cominciare l'esodo di massa. Un primo nucleo era partito per Matala, a Creta, dove potevi dormire nelle grotte e iniziare a sognare la strada verso la Porta d'oro.

Era il 1972 e la Milano da bere, il riflusso, i socialisti, gli anni Ottanta erano di là da venire. Sacco in spalla e autostop fino a Bari e poi nave per Igoumenitsa. Orient Express via Sofia. Autostop sull'Autosole. L'arte del viaggiare, su cui ognuno ha da dire la sua, iniziava di prima mattina con gli esami alle spalle e il bagliore dell'Asia sullo sfondo del Pirellone.
(1 - continua)

(Da: Il Manifesto del 20 agosto 2013)

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