24 agosto 2013

VIAGGIO NELL' EUROPA CHE NON C'E' PIU'...






Anni Settanta e ritorno: la Jugoslavia di Tito e l'isola di Mljet, il ponte di Mostar, Matala e poi la Grecia fino a Istanbul, prima sosta verso Kathmandu

Emanuele Giordana - Profumi d'Oriente


Atene non sembra più la stessa. Ma non per via dei cortei che assediano il palazzo del governo, l'aumento dei mendicanti, i titoli dei giornali che strillano di default, troika, disoccupazione o delle atrocità di Alba dorata. Non è più la stessa di quarant'anni fa quando, prima tappa verso l'India, era una meta obbligata per l'adepto del «Viaggio all'Eden», il mitico tragitto che menava a Kathmandu, in Nepal.

Quarant'anni fa la Grecia era ancora in mano alla dittatura anacronistica dei Colonnelli che avevano dimissionato il re ed eretto uno stato di polizia durato otto anni. Era un Paese povero e sottomesso ma incredibilmente accogliente, come se i Greci vedessero in queste frotte di giovani col sacco in spalla una sorta di riscatto possibile: l'annuncio che l'Europa non si era dimenticata di loro. Paese agricolo e incontaminato, intriso di una civiltà antica e fortemente ospitale, aveva il suo grande bazar ad Atene, città di servizi, sporca e caotica. Tutto fuorché affascinante se si escludeva il Partenone, meta obbligata persino per chi considerava la Grecia solo un luogo di passaggio.

Oggi però, crisi o non crisi, Atene è assai più affascinante del suo recente passato. E' sull'orlo dell'abisso ma esibisce ricchezza e pulizia. Sulla grande strada che da Syntagma porta a Plaka, l'aria fredda dei condizionatori invade una strada pedonale dove ammiccano le grandi firme della moda a prezzi accessibili: resiste solo qualche negozio di sandali a ricordare un passato artigianale ed esotico che va scomparendo ma la cui atmosfera si continua a respirare al Pireo, il grande e suggestivo porto del Sud Europa, sospeso tra Occidente e Oriente Medio. Levantina nello sguardo, occidentale nel midollo, la Grecia era e resta una nazione che aveva già inventato tutto: ricchezza e povertà, schiavitù e rivolta, democrazia e dittatura, pace e guerra. Dunque passerà anche questa sembrano dire i greci, abili nell'arte della conversazione forbita e raffinata sino alla chiacchiera inutile e fine a se stessa della taverna. Stesso sapore nei ristorantini disseminati nel quartiere ai piedi dell'Acropoli: frotte di turisti spulciano compulsivamente le guide, tracannano birrette, divorano insalate di pomodori, feta e cetrioli.

Come la madeleine di Proust, a noi deve per forza toccare l'intramontabile greek salad con retsina Kourtaki, tappo corona e un sapore rimasto immutato nel tempo che prevede a fine pasto un metrio, denso e aromatico caffè con acqua ghiacciata a fianco.

Mostar


E in effetti è col caffè greco che cominciava la scoperta della diversità del mondo nel Viaggio all'Eden. Al di là della frontiera greca si chiamava caffè turco. Ma appena prima, in Jugoslavia, dove era perfettamente identico a quello greco o turco, guai a chiamarlo in quel modo. E adesso, dopo il disastro della guerra che ha dissolto la Federazione, ognuno ha il suo: bosanski, se lo bevi a Sarajevo, serbski se lo ordini a Belgrado. A Mostar, dove il ponte è stato ricostruito e dove anche il centro storico ha adesso l'aspetto di un museo, si vive in parte di «turismo di guerra». È un'utile lezione vedere quelle macerie riassettate. E ragionare decifrando la declinazione etnica del caffè.

In effetti Grecia, Jugoslavia e, subito dopo, la Porta d'oro della magica Istanbul, città turca con nome greco (eis ten polin), erano gli antipasti del grande viaggio a Kathmandu. Avevi finalmente passato la frontiera e tutto era già alle spalle: famiglia, amori avvizziti, esami di maturità o di riparazione, riunioni estenuanti e, per chi l'aveva, l'ossessione di pagare l'affitto durante un'assenza che si prevedeva di lunga durata. C'era gente di tutti i tipi: chi era partito per 15 giorni, chi per un mese, chi invece si apprestava al Grande viaggio e dunque in agenda di mesi ne aveva cinque o sei. Chi «non posso, quest'anno, compagni, c'è il rischio di un golpe...» (che Junio Valerio Borghese tentò davvero). Chi, investito dai moralismi, si sentiva colpevolmente fuggiasco «in India e in Turchia» fingendo - cantava Giorgio Gaber - di essere sano.

Chi invece era partito buttando nel cestino la cartolina con cui ti chiamavano a fare il soldato. Allora non era troppo complicato. Potevi varcare il confine slavo con la sola carta di identità pur se al ritorno, per quelle bizzarrie della burocrazia diplomatica, l'Italia voleva vedere il passaporto anche se ti aveva fatto uscire senza, il che ti obbligava a rientrare via Austria. Ma se tornare non volevi, il tam tam segnalava che a Istanbul un passaporto si poteva rimediare. Forse anche ad Atene. E sennò qualcosa di meglio si sarebbe potuto trovare a Kabul o a Delhi. Vendere un passaporto poteva fruttare 50 dollari e dunque più lontano andavi, maggiore era l'offerta visto che, aumentando il numero di quelli rimasti senza soldi, il preziosissimo libretto diventava un'ottima risorsa. Per venditore e compratore. Quello italiano era molto ambito. Si vendeva bene, si comprava meglio.

In Grecia per far soldi c'era un altro sistema: dare il sangue a Salonicco. Ma era una pratica che di solito si faceva al ritorno, quando, per la verità, più che per la grana del tuo zero positivo ti allettava la bistecca regolarmente pagata a fine prelievo. In Grecia, nonostante i Colonnelli, c'era tolleranza per l'allegra comitiva della rotta indiana ma non era così nei paesi del socialismo reale. Lasciando stare l'Albania, dove alla frontiera ti tagliavano i capelli, sorvolando sulla Bulgaria, che era solo una fermata dell'Orient Express da Parigi a Istanbul, anche in Jugoslavia non c'era troppo da scherzare. Tito non amava molto questi zazzeruti figli dei fiori, ancorché «compagni» che pur avevano per la Jugoslavia un rispetto ormai non più tributato all'Urss proprio per lo «strappo» titino da Mosca. Belgrado temeva forse il contagio libertario che già potevi percepire a Mljet, davanti Dubrovnik, la città veneziana di abbacinante marmo bianco da cui un piccolo traghetto ti proiettava nel primo paradiso oltre confine.

Mljet

Mljet (Meleda) era ed è un parco naturale rimasto incontaminato proprio grazie a Josip Broz: forse croato, chissà se sloveno, pare addirittura di origine italiana, Tito aveva mantenuto un inviolabile riserbo sui suoi natali conoscendo la pasta di cui son fatti gli Slavi del Sud, cui qualche agitatore riesce sempre ad appiccare il sacro fuoco della purezza etnico religiosa. Per non sbagliare aveva eletto una serie di residenze private nei luoghi più geograficamente (ed etnicamente) diversi del Paese, tra cui Mljet.

In questo piccolo paradiso dell'Adriatico è vietata la pesca e l'uso del motore, almeno nella teoria di laghi salati che, uno dentro l'altro, sono avvolti dall'isola in un abbraccio dal sapore di rosmarino selvatico e macchia mediterranea. C'era un campeggio dove si faceva tappa e che accoglieva anche i primi timidi frikkettoni jugoslavi. Facevi amicizia con questi aitanti giovani serbi, croati, macedoni o bosniaci che, solo vent'anni dopo, la guerra nata dalla dissoluzione della Repubblica federale avrebbe trasformati in vittime o, chissà, in carnefici. Non parlavano se non qualche parola di inglese e quelli di Belgrado se la tiravano rispetto agli altri. Ma erano, nonostante le regole ferree del socialismo reale, più avanti di noi in tanti comportamenti. Facevano l'amore senza troppi problemi e erano, quei ragazzi, più distanti dai loro pope di quanto non lo fossimo noi dai nostri curati. Purtroppo il sogno di un Viaggio all'Eden restava per loro un'utopia quasi senza speranze, così come erano rarefatte quelle di avere un passaporto. Noi invece eravamo pronti per il grande balzo che, al momento, era solo sogno, racconti altrui o letture.

Mljet

















Per quanto leggessimo avidamente tutto quello che il mercato ci offriva, ignoravamo gran parte delle avventure raccontate su quel percorso da decine di viaggiatori e scrittori poco o nulla tradotti, quindi sconosciuti. E non solo penne come quella di Chatwin, poi diventato un'icona del viaggio in Oriente, ma nemmeno grandi osservatori e scrittori come lo svizzero Nicolas Bouvier che nel 1953 si era imbarcato su una Topolino Fiat (oggi avreste paura ad andare con quell'auto da Milano a Bergamo!) per raggiungere Sri Lanka attraversando India e Afghanistan e, ovviamente, anche i Balcani. Bouvier, scrittore, fotografo e giornalista, aveva del viaggio la teoria opposta a quella che aveva guidato il lavoro dell'assai più noto reporter polacco Kapuscinski. Tanto quest'ultimo studiava prima di partire per avere già in mano qualche chiave di lettura, quanto Bouvier faceva l'opposto: teorizzava la tabula rasa che andava riempita di impressioni, note, scatti, taccuini. Solo dopo, a casa, digerito il viaggio con la complicità del tempo e della distanza, colmava i vuoti, aggiustava il tiro, comparava spiegazioni.

Ci sarebbe piaciuto e non era l'unico: ignoravamo ad esempio che quel viaggio pazzesco, attraverso il passo di Khyber o le pianure dell'Anatolia, lo avevano fatto altri due svizzeri, anzi svizzere. E negli anni Trenta! Ella Maillart, cui proprio Bouvier aveva chiesto consiglio, partì con Annemarie Schwarzenbach a bordo di una Ford V8 lasciando poi del suo viaggio all'Eden il resoconto di una discesa agli inferi, percorso più interiore che geografico come riferisce il titolo del suo La via crudele. Due donne in viaggio dall'Europa a Kabul. Per fugarne i timori di neofita, Ella aveva detto a Nicolas: «In qualsiasi luogo vivono gli uomini, può vivere un viaggiatore». Del resto anche Cartier-Bresson la pensava così: «Non viaggiavo, vivevo nel Paese». Senza saperlo seguivamo le indicazioni di quei maestri.

Mljet era un tappa per chi aveva scelto la Jugoslavia per arrivare in Turchia e si era affidato a traghetti o ferrovie locali. L'Orient Express aveva comunque prezzi accessibili. Il viaggio era lungo e apparentemente faticoso, un buon viatico per quel che ti aspettava in Pakistan, in India o anche in Turchia. Un vecchio taccuino del 1974 recita: Milano-Istanbul 21mila lire. Traghetti? 9mila Dubrovnik-Ancona. 30 dinari (a 45 lire per dinaro) da Dubrovnik a Mljet. E ancora 25 dollari da Belgrado a Istanbul (forse in bus?). Altre notarelle: Jugoslavia no visa. Cinque dollari invece per quello bulgaro: tremila lire.

Matala


Matala era un'altra delle tappe alla periferia del viaggio all'Eden. Col tempo è diventata una delle mete turistiche più importanti di Creta ma all'epoca era frequentata da una vasta colonia di frikkettoni che, almeno in parte e se la polizia non ti sloggiava, dormiva nelle grotte rupestri di antichissima epica memoria affacciate sulla spiaggia. In quel consesso libertario e internazionale, dove incontravi gli abitanti della comune danese di Christiania, svizzeri senza orologio di Neuchâtel, mistici ispirati di ritorno dall'India o giovani liceali in partenza per l'Oriente, si respirava l'aria magica della terra di nessuno. E si aspiravano le prime canne. Uno dei «guru» di quel disomogeneo consesso in rapido movimento era un italiano alto due metri e sopra i cento chili che si faceva chiamare Giasone. Vestiva come i pastori cretesi - che ancora usavano gli abiti tipici isolani - calzava sandali e, effettivamente, faceva il pecoraio. Ma al suo imponente arrivo, per partecipare a qualche prolungata fumata collettiva, calava un rispettoso silenzio e Giasone dispensava qualche perla di saggezza, lui che aveva lasciato la civiltà per il silenzio delle montagne cretesi. Lo ritrovammo anni dopo a Milano in cerca di eroina, a un passo dal collasso cardiaco che se lo portò via. Anche il viaggio all'Eden aveva i suoi martiri.

Dal porto principale di Creta, Heraklion, si poteva, via Pireo, raggiungere Istanbul con un viaggio di due giorni e mezzo che favoriva amori marittimi, amicizie imperiture, condivisione di pomodori. Altrimenti c'era la strada che da Salonicco, via Kavala, arrivava al confine turco in quella fetta di Grecia dove vivono turcofoni poco visibili e che annunciava, alla nostra beata ignoranza, la complessità delle frontiere e la spietatezza del righello della Storia che taglia in due popoli, culture, a volte persino campi e abitazioni. Più in là avremmo visto anche di peggio.

(2 )

(Da: Il Manifesto del 21 agosto 2013)





Nessun commento:

Posta un commento