18 agosto 2013

SUL RITORNO DI IGNAZIO BUTTITTA





      Ignazio Buttitta è stato uno dei nostri maestri. Anche per questo l'abbiamo voluto ricordare a Marineo qualche anno fa. Oggi torniamo a parlarne prendendo spunto dalla ristampa di uno dei suoi libri che segnarono una svolta nella sua produzione poetica:


Matteo Collura  - Buttitta, il garzone nato per essere poeta

Il poeta Ignazio Buttitta è scomparso nel 1997 e come tutti i grandi autori italiani del XX secolo era nato nell'Ottocento; più esattamente era, come lui amava definirsi, un «ragazzo del 99», vale a dire uno di quegli italiani mandati a combattere giovanissimi sul finire della Prima guerra mondiale. Era un poeta dialettale siciliano, Buttitta; e questo va specificato, perché è la Sicilia a spiegare Buttitta ed è Buttitta a spiegare la Sicilia. Senza l'una non ci sarebbe stato l'altro.

Fatta questa premessa, ne va fatta un'altra: come appare la poesia di Buttitta, lui morto da sedici anni? Per essere più chiari: può la sua parola scritta essere gustata appieno, priva, per dirla con Gianfranco Contini, della «esecuzione fisica» dell'autore? Chi ha l'età per ricordare sa che questo è difficile e che comunque nella «sola» lettura dei versi del poeta di Bagheria si perde qualcosa che è di per sé materia poetica.

Queste riflessioni ci sono venute imperiose allorché ci è arrivato tra le mani uno dei libri più significativi di Ignazio Buttitta, ora riproposto da Sellerio (La peddi nova, pagine 213, 14, a cura di Salvatore Silvano Nigro). Importante segnalare subito — come del resto Nigro puntualmente fa — che il titolo della raccolta, pubblicata per la prima volta da Feltrinelli nel 1963 con prefazione di Carlo Levi, è farina del generoso sacco di Pier Paolo Pasolini, che di Buttitta seguì il percorso poetico e politico (trattandosi di Buttitta, politica e poesia non sono separabili) con un'attenzione che oggi può rivelarsi illuminante.

Una cosa che ricordiamo di Ignazio Buttitta (e, nel rileggere quanto ne scrisse Pasolini, il ricordo si fa vivissimo) è il suo essere poeta nella propria figura umana. Era un poeta, Buttitta, nel parlare, nel muoversi, nel gesticolare, nel vivere. Non sapremmo dire meglio: ci sono persone che, nel vederle, viene spontaneo dire: «Questo è un poeta». Non si atteggiava a essere il cantore degli umili, dei verghiani «vinti», Buttitta; era la loro voce, la loro rabbia, il loro dolore. Non recitava, viveva il dramma della Sicilia; quella dei poveri, dei bastonati, di coloro che non avevano e non hanno neanche le briciole dei privilegi spettanti ai pochi che si avvantaggiano dei benefici della sciagurata autonomia regionale. Per questo, con il suo amico cantastorie Ciccio Busacca conquistò il pubblico del Piccolo Teatro di Milano (erano gli anni Sessanta); per questo chi ha avuto il beneficio di ascoltare la sua voce non la dimentica.

«Nun lu sapi a genti/ca sugnu gnuranti/e a morti non mi voli» scrisse Ignazio Buttitta in un epigramma risalente al 1983, a commento della laurea ad honorem in Lettere conferitagli dall'Università di Palermo («Non lo sa la gente/che sono ignorante/e la morte non mi vuole»). E volle dire che la sua poesia fatta di sangue e di carne, di vita vissuta e non di accumulazioni libresche lo metteva al riparo da illusori successi, da glorie effimere. Ce ne voleva per sradicare i suoi piedi da terra. Chi ha letto qualche sua poesia e chi ha avuto il privilegio di ascoltarlo in qualcuno dei suoi innumerevoli recital in giro per l'Italia (con lui a volte, il già citato Ciccio Busacca e la straordinaria Rosa Balisteri) sa di che cosa è fatta la sua poesia e quali strade percorse la sua vita. La laurea ad honorem Buttitta aveva cominciato a guadagnarsela da bambino, da quando aveva cominciato a lavorare come garzone di bottega. E così era andato avanti verso quella laurea, fino ad affondare gli scarponi nel fango del Carso.

«La mia vita vorrei scriverla cantando» dichiarò il poeta nella raccolta intitolata La paglia bruciata (1968). Cantando, è vero, ma nello stesso tempo urlando di rabbia e piangendo, così come ci capitò di assistere durante una visita nella sua casa-balcone sul mare dell'Aspra, presso Palermo. Non potrebbe capirlo chi non ha sofferto, chi non ha ferite nell'anima. Quando Buttitta parlava del suo passato, della sua infanzia, si doveva essere vaccinati contro le storie che avvelenano il sangue. Lui parlava di un padre analfabeta — il suo — di una marina brulicante di poveracci, di sarde salate, pomodori e cipolle, il pasto di un lavoratore della terra di allora e di lui ragazzo costretto a starsene dietro il bancone di una «putia» di generi alimentari.

Lasciamo sia lui a raccontare: «Cominciai a quindici anni: ero bello io a quindici anni dietro il banco, pettinato alla moda e col grembiule bianco; alle donne piacevo. Entravano in bottega: "Cento grammi di salame". "Cento grammi di formaggio". Tagliavo il salame, il formaggio e mi tagliavo le mani. Ho ancora le cicatrici. Guardavo le signore, non il coltello. Sbagliavo peso e misura».

(Da: Il Corriere della Sera del 5 Agosto 2013) 

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