10 marzo 2021

DON MILANI SEMPRE ATTUALE


LE LETTERE PUBBLICHE DI DON MILANI. LETTURE OBBLIGATORIE PER LE SCUOLE PER RAGGIUNGERE UNA IMMUNITÀ NON DI GREGGE, MA DAL GREGGE

di Federico Ruozzi *

La lettura quotidiana ad alta voce del giornale era diventata una abitudine da anni, in quella scuola. Il maestro e gli allievi, assieme, erano soliti commentare i fatti del giorno. Su una notizia, su un titolo, su un vocabolo, si innestava una lezione che poteva durare l’intera giornata o settimana.

In quella strana classe allestita nei locali della parrocchia, con un maestro che indossava una tonaca lisa esiliato alle pendici del Monte Giovi in Toscana, isolata da tutto e da tutti, con una stradina da poco sistemata e la luce elettrica che doveva essere ancora portata, tutto arrivava in ritardo: la posta, l’acqua e anche i giornali. E così, la mattina del 14 febbraio 1965, come al solito, don Lorenzo Milani stava sfogliando le prime pagine del quotidiano toscano La Nazione di qualche giorno prima, l’edizione del 12.

Non lo sanno ancora, ma il comunicato che avrebbero trovato e letto avrebbe stravolto per sempre le loro vite, il destino di quella scuola e del loro maestro. Qualche settimana dopo, Barbiana sarà infatti sulle cartine e nei radar informativi di tutto il mondo; il maestro, non più un semplice sacerdote, spedito al confino in un posto dimenticato da tutti per un libro che aveva scritto nel 1958 e che poi era stato ritirato dal commercio per volere diretto del S. Uffizio, ma diventa per tutti “don Lorenzo Milani”. Per quello che scriverà in quei giorni in risposta a quel comunicato verrà anche condannato. Solo la morte nel 1967 gli eviterà la galera. E quegli scolari, non saranno più semplici montanari che grazie a quella scuola si emancipavano da un destino che aveva già scritto la loro storia, ma diventeranno “gli allievi della scuola di Barbiana”, conosciuti in tutto il mondo, intervistati, studiati, istituzionalizzati in pagine di manuali di Storia della pedagogia alla ricerca del loro “metodo”.

Quella mattina, quando don Milani sfoglia il giornale un titolo cattura la sua attenzione: un comunicato dei cappellani militari in congedo della regione Toscana dell’11 febbraio, pubblicato il giorno dopo sul quotidiano toscano, in cui prendevano posizione su un tema caldo in quella stagione, non solo in Italia, usando parole chiare e forti: «Tributano il loro riverente e fraterno omaggio a tutti i caduti d’Italia […] che morendo si sono sacrificati per il sacro ideale della Patria. Considerando un insulto alla Patria e ai suoi caduti la cosiddetta “obiezione di coscienza” che, estranea al comandamento cristiano dell’amore, è espressione di viltà». Espressione di viltà, si chiedono? Inizia dunque una discussione. Come è possibile tacciare di vigliaccheria coloro che, per un ideale, erano disposti a pagare anche con la prigione!

Decidono così di prendere carta e penna e di rispondere assieme a quel comunicato. Sarà l’inizio della scrittura collettiva: «Da tempo – scrivono – avrei voluto invitare uno di voi a parlare ai miei ragazzi della vostra vita. Una vita che i ragazzi e io non capiamo. Avremmo però voluto fare uno sforzo per capire e soprattutto domandarvi come avete affrontato alcuni problemi pratici della vita militare. Non ho fatto in tempo a organizzare questo incontro tra voi e la mia scuola. Io l’avrei voluto privato, ma ora che avete rotto il silenzio voi, e su un giornale, non posso fare a meno di farvi quelle stesse domande pubblicamente. PRIMO perché avete insultato dei cittadini che noi e molti altri ammiriamo […]. SECONDO perché avete usato, con estrema leggerezza e senza chiarirne la portata, vocaboli che sono più grandi di voi».

È l’inizio di tutto. Un incipit che entrerà nella storia, anche in quella della letteratura visto la consacrazione avvenuta, per una scelta lungimirante di Renata Colorni, con l’inserimento di Milani nel prestigioso catalogo dei Meridiani (2017, 2 tomi). Un incipit che verrà ricordato e citato, come quello che scriveranno nel 1967, sempre collettivamente, come gli aveva insegnato Mario Lodi («Cara signora, lei di me non ricorderà nemmeno il nome. Ne ha bocciati tanti…»).

Il 21 febbraio scrivendo alla madre Alice Weiss, ebrea triestina cresciuta vedendo per casa Italo Svevo e James Joyce, la aggiornava sull’intenso lavoro: «sono impegnatissimo a preparare una lettera ai cappellani militari. […] Sparo a zero tanto non ho nulla da perdere». Sarà la Lettera ai cappellani militari, che verrà pubblicata da «Rinascita», il settimanale del PCI diretto da Luca Pavolini, amico di infanzia.L’8 marzo il cardinale di Firenze, Ermenegildo Florit, gli scrive in forma privata una dura lettera in cui, prendendo atto tra le altre cose che «ella afferma che la questione dell’obiezione di coscienza resta libera, e che non è stata decisa dalla Chiesa», lo invitava a sottoporgli ogni «eventuale scritto, prima di dargli pubblicità in qualsiasi modo» e che «qualora ella avesse a contravvenirvi, sappia che mi riservo, occorrendo, di sospenderla a divinis».

Don Milani fino a quelle settimane non era un nome nel dibattito sul pacifismo in Italia, come lo poteva essere lo scolopio, p. Ernesto Balduccio denunciato per apologia di reato nel 1963 per aver sostenuto la causa di Giusppe Gozzini, obiettore di coscienza cattolico. Milani agì in un contesto particolare, non certo isolato, che aveva assorbito. Sono gli anni del Concilio, ma in particolare è la città di Firenze guidata da Giorgio La Pira a essere centrale nel dibattito sulla pace e la nonviolenza in quegli anni. Il tema però a Barbiana non matura nell’ambito della riflessione sul pacifismo. È proprio il comunicato dei cappellani letto quella mattina di febbraio a rappresentare il casus belliche innesca la sua scrittura, una scrittura – va ricordato – sempre di denuncia, come sarà la bocciatura dei suoi allievi a dare il via a Lettera a una professoressa.

La grandezza di Milani però risiede nella capacità di trasformare casi singoli in riflessioni più ampie che ancora oggi toccano nervi scoperti nel dibattito pubblico. Perché rispondono ai cappellani militari? «Dovevo ben insegnare come il cittadino reagisce all’ingiustizia. Come ha libertà di parola e di stampa. Come il cristiano reagisce anche al sacerdote e perfino al vescovo che erra. Come ognuno deve sentirsi responsabile di tutto». È con queste parole che nella sua autodifesa spedita al tribunale di Roma, presso il quale avrebbe dovuto presentarsi per il processo per apologia di reato il 30 ottobre 1965 che gli costò la scrittura della risposta a quel comunicato, don Milani chiarisce il motivo della presa di posizione pubblica. È infatti gravemente malato e così, denunciato, decide di scrivere una lettera per difendersi, che diventerà celebre come “Lettera ai giudici”, tradotta in inglese, francese, tedesco, spagnolo e travalica gli stessi confini italiani.

Barbiana diventa meta di pellegrinaggi e giornalisti. Attivisti, amici e nemici (anche Pier Francesco Pingitore, il futuro autore televisivo de Il Bagaglino sale per una intervista falsa e piena di stereotipi) iniziano ad “arrampicarsi” sul monte Giovi. Diventa un simbolo della nonviolenza, ma quello è e rimane uno dei tanti modi di fare lezione in quella scuola tanto privata e cattolica (una scuola fatta da un prete) quanto libera e laica più di quella pubblica di quegli anni. È il testamento che lascia ai suoi ragazzi, diventato (purtroppo) anche uno slogan citato maldestramente: «L’obbedienza non è più una virtù».

È l’insegnamento centrale per fare dei suoi ragazzi cittadini sovrani, indipendenti, liberi, grazie agli strumenti (la lingua prima di tutto) che solo la scuola può dare: «Quando il povero saprà dominar le parole come personaggi la tirannia del farmacista, del comiziante e del fattore sarà spezzata». Avvertirà però in una intervista a una scuola di giornalismo: «Scrivendo come me non farete strada mai nella vita, in nessun posto. […] Chi vuol far carriera non scrive come me. Quando invece prende un nostro scritto, ogni due parole c’è una punzecchiata: ai patrioti, ai fascisti, ai militaristi, ai… al vescovo, ai preti, ai comunisti, ai liberali, ai laicisti».

Approfitta di una visita a Barbiana di una classe di ragazze delle medie salite per riflettere sull’opportunità di organizzare una festa da ballo a scuola, in occasione del carnevale di quell’anno, per ribadire il concetto dell’importanza della scuola e della formazione: «Avrai davanti responsabilità immense: licenzieranno una tua amica e tu dovrai decidere se scioperi o non scioperi per lei, se la difendi o non la difendi, se sacrificarti per lei o non sacrificarti, se andare in corteo davanti alla prefettura o davanti alla direzione o davanti alla curia, […] se dovrai rompere i vetri, rovesciar le macchine, oppure dovrai stare zitta zitta a chinar la testa e permettere che la tua compagna sia cacciata fuori a pedate dall’officina o dalla fabbrica. Tu dovrai decidere queste cose l’anno prossimo e per ora lo vuoi fare twistando?».

Le due lettere pubbliche, così chiamate la lettera ai cappellani militari e quella ai giudici, andrebbero inserite nei programmi scolastici, rese lettura fondamentale, al pari dei classici. Andrebbero lette e discusse per le questioni ancora fondamentali che esse pongono ai ragazzi di oggi, dando loro quella immunità non di gregge, ma dal gregge. Perché in un momento così importante e delicato, di dibattiti sterili sulla scuola, è alla formazione delle nuove generazioni che bisogna pensare, cercando di dare loro gli strumenti critici per comprendere la realtà in cui vivono. E solo la scuola (scuola a tempo pieno, come diceva Milani) può rompere il muro dell’indifferenza che non deve avvolgere i ragazzi, ma renderli curiosi. Occorre una scuola e un corpo docente che non abbiano paura di parlare, di stimolare, di problematizzare. Perché «sapete voi dove finiscono i ragazzi indifferenti in politica? – scriveva Milani – Finiscono fascisti. Il sottofondo del fascismo è l’indifferenza politica». E cosa era la politica per don Milani? «È riconoscere che “il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è avarizia”».

*Federico Ruozzi è ricercatore, storico del cristianesimo e curatore del Meridiano Don Milani. Tutte le opere

Articolo ripreso da    pubblicato mercoledì, 10 Marzo 2021 · 


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