07 marzo 2021

NEL GELO BOSNIACO

 


Nel gelo bosniaco

Alessandra Vendrame
07 Marzo 2021

La singolare procedura interna della Bosnia Herzegovina vieta di portare aiuto ed assistenza all’esterno dei campi profughi dove però servirebbero almeno altri 3500 posti. Una norma pensata per costringere i migranti a restare all’interno dei campi. Adesso che il freddo è enorme e i campi hanno una capienza insufficiente, la situazione diventa sempre più insostenibile, mancano cibo, legna, vestiti, spiega Daniele Bombardi, coordinatore della Caritas nei Balcani. Il campo di Lipa, distrutto poco prima di Natale da un incendio, è soltanto la punta più visibile di un iceberg sommerso. L’emergenza si può risolvere solo con un intervento strutturale, ma si continuano solo a mettere pezze. Senza tener conto della possibilità di una forma di accoglienza diffusa, dai numeri contenuti. “Nei dintorni di Bihać ci sono circa 2.100 profughi. Stanno nei boschi. Cercano di occupare qualcosa che somigli a una tenda. Non abbiamo nessuna possibilità di portare loro la minima assistenza. Se lo facciamo rischiamo che ci venga impedito di intervenire all’interno dei campi profughi”, aggiunge il coordinatore. Caritas italiana continua intanto a tener alta l’attenzione e l’allarme chiedendo l’intervento di Ue e governi per garantire almeno gli standard minimi per il rispetto della dignità umana

Igironi dell’inferno sotto la neve dei migranti in Bosnia-Herzegovina che cercano di arrivare in Europa lungo la rotta balcanica. Tra campi profughi con capacità di accoglienza ormai dai numeri fuori da ogni controllo. E la conta dei dimenticati delle baraccopoli di pezza che spuntano come funghi in mezzo ai boschi, in balia del ghiaccio che avanza. Il campo di Lipa distrutto lo scorso 23 dicembre da un incendio è soltanto la punta visibile di un iceberg per lo più sommerso. Quello delle condizioni disumane dei migranti intrappolati nell’inverno bosniaco. Intanto Caritas italiana continua a lanciare l’allarme chiedendo l’intervento di Ue e governi per garantire almeno gli standard minimi per il rispetto della dignità umana: “Si contano 9.000 migranti in Bosnia. Mentre il numero dei posti letto nei sette campi profughi esistenti non supera i 5.500 posti. Significa che ci sono almeno 3500 persone che non possono essere accolte all’interno dei campi strapieni – spiega Daniele Bombardi, coordinatore di Caritas italiana nei Balcani – In mancanza d’altro i luoghi di fortuna dove trovare rifugio improvvisato si moltiplicano. Case, edifici, stazioni diroccate”. Dai palazzi abbandonati alle baraccopoli nel bosco le condizioni disumane alla frontiera tra Bosnia e Croazia sono di casa.

“Secondo la procedura interna della Bosnia Herzegovina è vietato portare assistenza fuori dai campi profughi – mette in evidenza Bombardi – E’ il paradosso della normativa locale, fatta in modo tale da obbligare i migranti a rimanere all’interno dei campi. Ma adesso che i campi sono strapieni e il freddo è enorme, si dovrebbe almeno consentire di poter intervenire per portare loro cibo, legno, vestiti, coperte o trovare un’alternativa all’assistenza”.

L’inferno di Bihać

Città di confine con la Croazia, 25 mila abitanti, distrutta durante la guerra dei Balcani, porta di ingresso all’Unione Europea, avamposto della politica dei respingimenti. Dagli anni ‘90 ancora le cicatrici della guerra qui sono visibili tra gli scheletri delle case. “Nei dintorni di Bihać ci sono circa 2.100 profughi. Stanno nei boschi. Cercano di occupare qualcosa che somigli a una tenda. Non abbiamo nessuna possibilità di portare loro la minima assistenza. Se lo facciamo rischiamo che ci venga impedito di intervenire all’interno dei campi profughi”. Che intanto continuano a scoppiare di persone: “I campi più grandi vicino a Sarajevo sono sovraffollati. Potrebbero far posto al massimo a 2.200 persone. Oggi ne accolgono 3.500 – continua Bombardi – “A Blazuj stanno tutti ammassati e con la pandemia la preoccupazione cresce. Da qualsiasi parte ti giri l’iceberg emerge. L’equilibrio è fragile e il rischio è alto”.

All’addiaccio nell’inverno di Sarajevo

Sarajevo, città olimpica invernale nell’84: non doveva essere una sorpresa l’arrivo del gelido inverno. Meno dieci gradi nelle città. Meno quindici in montagna. L’emergenza ghiaccio e neve doveva essere messa in conto: “Nevica molto e l’inverno qui è lungo. E’ la normalità da queste parti – continua il responsabile di Caritas italiana nei Balcani – In queste condizioni gli interventi umanitari mirano a rispondere ai bisogni di base. Il cibo, l’acqua per bere e per lavarsi, i kit igienici per la sopravvivenza. Poi si cerca di migliorare la situazione dentro i campi attivi in situazioni indescrivibili, compreso il supporto psicologico necessario per elaborare i traumi”.

La lunga fila dei minori non accompagnati

Si contano 470 minori dentro l’inferno dei profughi in Bosnia. I più grandi hanno al massimo 15, 16 anni. Ragazzi afgani, pakistani, iraniani in viaggio da soli. Se tutto va bene accompagnati da adulti conterranei. Il sistema bosniaco prevede campi profughi per soli uomini adulti da una parte e per le famiglie e minori dall’altra. In caso di minori senza genitori il comune della città dove si trovano provvede ad assegnare loro un tutor: “Con l’arrivo dell’inverno l’emergenza esplode. Il 2020 ha rallentato il flusso migratorio a causa del lockdown. Poi la migrazione post-lockdown ha ripreso a passo spedito, includendo anche i mancati arrivi dei mesi precedenti. L’emergenza si può risolve solo con un intervento strutturale. Ma per adesso si continuano a mettere pezze. Senza tener conto della possibilità di una forma di accoglienza diffusa, dai numeri contenuti. Se in una città di 30 mila abitanti ci sono 3.500 persone che trovano riparo in posti abbandonati, non si può non pensare che i primi non comincino ad incattivirsi”.

Gli invisibili del gelido inverno bosniaco

E’ bastato unire uno ad uno i puntini per tratteggiare l’emergenza dei migranti in balia della neve. E Lipa non è stata altro che l’ultima goccia caduta nel vaso. Traboccato in un crescendo di tensione. Partito con la denuncia dei respingimenti violenti al confine con la Croazia. Ma ora anche quei migranti “invisibili” iniziano ad avere un volto.

Ed è stata forse “merito” della pandemia fornirci la lente per cominciare a tenerne conto: “L’emergenza Covid-19 ci ha costretti a rimanere per lungo tempo in casa e ora comincia a renderci più capaci di solidarietà nei confronti di chi è costretto a vivere nell’emergenza – conclude Daniele Bombardi – Ci ha resi capaci di creare una maggiore capacità di empatia con i protagonisti di drammatiche vicende. Abbiamo iniziato ad aprire gli occhi. Anche gli anni scorsi abbiamo iniziato a denunciare l’emergenza, ma quest’anno la risposta di solidarietà da parte di semplici cittadini e associazioni è stata gigantescaLa pandemia ha scavato dentro di noi”.

Fonte : Cartadiroma.org

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