04 marzo 2021

LEA MELANDRI, La complicità delle donne


 

La complicità delle donne

Lea Melandri
01 Marzo 2021

Ripensare oggi, con le straordinarie esperienze di mezzo secolo di femminismi, la “complicità” delle donne nel favorire un dominio profondo, che ha secoli di storia, il dominio degli uomini sulle donne, dovrebbe essere una acquisizione scontata, ma così non è. «Parlare di “complicità” femminile nella trasmissione dei pregiudizi degli stereotipi di genere, non può essere stigmatizzato come “colpevolizzazione” delle donne – spiega Lea Melandri – Tenuto conto del potere affettivo e materiale che ha chi si prende cura dell’uomo negli anni della sua maggiore dipendenza e inermità, non si può negare l’importanza della legittimazione che viene da una madre, rispetto a identità e ruoli di un sesso e dell’altro. L’ambiguità e l’impresentabilità di un dominio che passa attraverso le vicende più intime è purtroppo una delle principali ragioni della sua durata…»

Tratta da pixabay.com

La politica si è personalizzata, ma nella vita personale sembrano restare ancora confinate esperienze a cui non si riconosce il segno della storia e della cultura che vi è passata sopra. I corpi non sono più il rimosso della polis, ma le passioni che li attraversano rimangono congelate nell’immobilità delle leggi naturali. Un fenomeno come il femminicidio, che dovrebbe balzare al primo posto nella considerazione delle “emergenze” di un governo, di un parlamento, dell’informazione, perché le tocca il fondamento stesso di una civiltà, prima ancora che di un sistema, economico e politico, resta tuttora innominabile e la relazione tra i sessi solo il problema di uno “svantaggio da colmare”.

Nel suo discorso per il voto di fiducia al Senato, il 17 febbraio 2021, Mario Draghi ha parlato di “parità di genere”, precisando che “non significava un farisaico rispetto delle quote”, ma parità salariale, occupazione femminile, “carriera, competitività”, rafforzamento del welfare pubblico. Del fatto che nel nostro Paese può accadere che in un solo giorno vengano uccise tre donne da mariti, fidanzati, conviventi, uomini che hanno intrattenuto con loro rapporti intimi, e che la frequenza di tali delitti sia tale da essere paragonabile a una strage quotidiana, non un accenno, non una sola parola sulla cultura sessista che li alimenta, su istituzioni politiche, giuridiche, economiche, che ancora si reggono sulla “neutralità” del discorso maschile, sulla divisione sessuale del lavoro, ragione prima delle discriminazioni e delle disuguaglianze di genere che si dice di voler eliminare.

Ma ci sono altri silenzi che pesano forse di più, perché vengono dalla parte di cui si contano le vittime e da cui ci si aspetterebbe un segno di rivolta, più che di indignazione. Le donne oggi non mancano nella vita pubblica, nelle sue istituzioni, e in ruoli, sia pure non apicali, di potere. Ma dominante sembra l’asservimento e l’obbedienza a una visione maschile del mondo imposta e fatta forzatamente propria. Anche quando ne sono consapevoli, le donne tacciono, perché dissentire significa aprire conflitti e perdere opportunità.

La conquista del suo io

Quarant’anni fa un parte del femminismo ha esultato dicendo che il patriarcato era morto e le donne libere nella loro “differenza”. Né libere né differenti, purtroppo, se stiamo a quello che abbiamo davanti, a volte addirittura oppositrici quando si tratta di sostenere le istituzioni create da mezzo secolo di femminismo, come le Case delle donne e Centri antiviolenza.

Il femminicidio è solo l’apice del potere che una comunità storica di uomini esercita da millenni e di cui uno degli aspetti negativi più devastanti è la sottomissione non solo dei corpi ma anche della mente delle donne, che per sopravvivere hanno dovuto fare propria e trasmettere, loro malgrado, la legge dell’uomo.

Una coscienza femminile anticipatrice, quale è stata Sibilla Aleramo, all’inizio del Novecento scriveva:

“La donna non è mai stata una vera e propria individualità: o si è adattata a piacere all’uomo, non solo fisicamente ma anche moralmente, senza ascoltare i comandi del suo organismo e della sua psiche; o gli si è ribellata copiandolo, allontanandosi ancor di più dalla conquista del suo io”.

La ricerca di una “liberazione” si profilava perciò fin da allora lenta e faticosa, perché insieme alla coercizione e alla violenza di quei ruoli incorporati, c’era anche qualcosa in cui le donne avevano creduto e che avevano amato. “Tragicamente autonome”, scriveva sempre Aleramo.

Gesti eclatanti

Ripensare oggi, con maggiore consapevolezza e con l’esperienza di mezzo secolo di un femminismo attento alle problematiche del corpo, della sessualità e della vita psichica, la “complicità” delle donne, e poterlo fare attraverso una pratica collettiva, quale è stata l’autocoscienza, dovrebbe essere una acquisizione scontata, meno “tragica” di quanto apparisse un secolo fa. Purtroppo non è così. Dalle donne che sono in parlamento o che occupano ruoli ministeriali ci si aspetterebbe che, anziché lamentare la disparità di presenze tra maschi e femmine, alzassero la loro voce o decidessero di dimettersi in massa per denunciare un governo che tace sulla strage quotidiana delle loro simili e sulla cultura patriarcale di cui è vistosamente espressione. A che serve avere il cinquanta per cento di donne nei ruoli di potere se questo significa fare eco alla politica dominante? Non sarebbe forse una umiliazione in più? Per capire l’importanza di un gesto eclatante, capace di mettere allo scoperto la violenza maschile in tutte le sue forme, non solo manifeste come il femminicidio, basterebbe pensare a come reagirebbero i poteri maschili se un giorno si e uno no una donna uccidesse un marito, un amante, un fidanzato, un fratello. Far intravedere il mondo alla rovescia è sempre stato un grande evidenziatore per occhi e orecchie chiusi.

Ma ci sono resistenze anche più radicate, quando si tratta di aprire “sconnessure” nella identità considerata un portato “naturale” del femminile, quale è la maternità. Nei social non sono pochi i commenti che invocano la pena capitale per il femminicida, che ritengono vada “demonizzato”. Dire che si combatte una cultura patriarcale, di cui i singoli fanno parte, modelli di virilità che gli uomini hanno assorbito da millenni di storia alle loro spalle, indicare l’educazione fin dai primi anni di vita come strada da percorrere per la prevenzione della violenza, non trovano facilmente ascolto. Ancora più contrastata e “impresentabile” è l’idea che le costruzioni di genere, nella loro complementarietà e gerarchia alienanti, sono una gabbia per uomini e donne, in quanto strutturano rapporti di potere e di amore, una ambiguità che ha bisogno di essere indagata, “compresa”, come direbbe Aleramo, “per virtù di analisi”. “Capire” da dove ha origine la violenza, non dovremmo stancarci di ripeterlo, non significa “giustificare” e non riconoscere la responsabilità individuale. Allo stesso modo, parlare di “complicità” femminile nella trasmissione dei pregiudizi degli stereotipi di genere, non può essere stigmatizzato come “colpevolizzazione” delle donne. Tenuto conto del potere affettivo e materiale che ha chi si prende cura dell’uomo negli anni della sua maggiore dipendenza e inermità, non si può negare l’importanza della legittimazione che viene da una madre, rispetto a identità e ruoli di un sesso e dell’altro. L’ambiguità e l’impresentabilità di un dominio che passa attraverso le vicende più intime è purtroppo una delle principali ragioni della sua durata.


Testo ripreso da https://comune-info.net/la-complicita-delle-donne/. Già pubblicato su Il Riformista del 2 marzo 2021 e qui con l’autorizzazione dell’autrice.

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