30 marzo 2021

LE RADICI DEL CINEMA DI MARTIN SCORSESE


 

IL CINEMA E LE RADICI DI MARTIN SCORSESE

Pubblichiamo un pezzo uscito su Linus, che ringraziamoFonte immagine.

Tutto comincia nel cuore di Little Italy, in Elizabeth Street, alla fine degli anni quaranta. Sui sedici pollici di un RCA Victor, modello di televisore molto popolare, nell’America di quegli anni, scorrono ogni venerdì sera i capolavori del cinema italiano. Il rito settimanale vede riunirsi davanti al tubo catodico, collocato come un totem al centro di un due camere e cucina, una folta famiglia di origine siciliana.

Il più rapito, nel pubblico domestico, è un bambino di sei anni, minuto e asmatico: il suo nome è Martin Scorsese, e beve con gli occhi a quelle ombre baluginanti, spesso quasi da immaginare, mandate in onda su copie logore dalle emittenti più sensibili alle esigenze degli emigrati italiani. Eppure l’essenziale filtra, e tanto basta ad accendere l’immaginario di quel bambino, per sempre. Anche perché lo spettacolo non è solo quello offerto dal televisore. A colpire il piccolo Martin è anche la reazione emotiva del parentado, l’atmosfera di solenne ritualità che avvolge le visioni.

Per i suoi nonni, paterni e materni, arrivati in America all’inizio degli anni dieci, quella che si consuma sul piccolo schermo non è solo cinema. E’ un viaggio nello spazio e nel tempo, un’apertura transoceanica sulla terra d’origine, che allarga improvvisamente il loro mondo ristretto.

L’America, fuori dalla porta di casa, gli appare ancora troppo grande e indecifrabile, per smettere di fare paura. Persino avventurarsi fuori da Elizabeth Street è un’impresa da compiere solo in caso di ineluttabile necessità. Nati nell’ottocento, non parlano né italiano né americano, ma un dialetto ancora verghiano, e non otterranno mai la cittadinanza statunitense. Dalla Sicilia si sono portati dentro un dogma ancestrale: sentono che c’è poco da fidarsi, dello stato, della polizia, di qualsiasi forma di istituzione. Ai connazionali che hanno esportato la mafia, e che girano spavaldi per il quartiere, bisogna mostrare omertosa sottomissione, cercando di essere coinvolti il meno possibile dalla loro violenza. Farsi rispettare, senza diventare goodfellas, è un difficile, quotidiano, esercizio di equilibrismo. L’unico rifugio solido è la famiglia d’origine. Riunirsi davanti ai film italiani, è un modo per sentirsi ancora più vicini, riappropriandosi di un lessico familiare condiviso.

Quando vedono Anna Magnani correre disperata, prima di essere falcidiata da un mitra nazista, i parenti di Martin piangono amaro. Trafitti da uno scuro senso di colpa, per non esserci stati, in quell’Italia illusa e soffocata dal regime fascista, stuprata dalla guerra.

Erano già ad arrangiarsi e lottare, nel ventre agrodolce dell’America. Le immagini del neorealismo li compensano, in parte, di una vita italiana non vissuta. Il cinema è l’unico modo di costruirsi un passato, una patria spirituale. Di ritrovare un’identità.

Tanti anni dopo, davanti a Nuovomondo di Emanuele Crialese, Scorsese dirà di aver trovato un’immagine esatta della sospensione quasi sognante, in cui fluttuavano i suoi nonni. Di un’integrazione che rimarrà solo ipotetica, per tutta la vita. Guardare i film italiani insieme a loro, ha permesso a Martin di capirli, allargando improvvisamente il proprio mondo di bambino. Scoprendo, nel cinema, le proprie radici.

Cercando in quelle immagini un’indicazione, sul bivio che il suo quartiere impone: unirsi alle gang mafiose, o farsi prete. Lasciarsi sedurre dal potere dei guappi in Cadillac, che aprono le folle del Lower East side come il Mar Rosso, al loro passaggio. Oppure farsi stordire dall’incenso, innamorato del silenzio carico di mistero che respira in chiesa. Da quella liturgia spettacolare, di canti, tuniche e preghiere, oscuramente simile al rapimento della sala cinematografica.

Salute precaria, scarsa vocazione alla violenza fisica, flebile resistenza al peccato, avranno il loro peso nell’invenzione di una terza via, molto personale, segnata dalla magnifica ossessione del cinema. Il neorealismo, scoperto in televisione durante l’infanzia, diventa uno strumento di osservazione, per comprendere la realtà che lo circonda. Scopre che nei dettagli minimi può risuonare un macrocosmo, avviando la sua formazione da antropologo visuale.

Il primo film di cui Scorsese ha memoria è Paisà, del 1946, di Roberto Rossellini, viaggio in sei episodi nell’Italia percorsa dall’esercito alleato, durante la seconda guerra mondiale. Lo sguardo del regista si posa senza retorica su di un Italia ancora ferita dalla guerra, educa alla compassione. “Rossellini realizza una fusione potente di storia e cinema. Come una preghiera pubblica, nata dal desiderio che il mondo possa vedere il popolo italiano, e scoprirne l’umanità” rifletterà da adulto. A colpire lo Scorsese bambino sono i sacrifici estremi di figure che la storia seppellirà nell’anonimato. Come la ragazza siciliana che si immola contro i tedeschi, uccisori di quel soldato americano che le ha accarezzato il cuore, per un attimo. Un altro episodio che impressionò Scorsese è quello del soldato afroamericano, ubriaco perso nella Napoli malapartiana, in balia degli scugnizzi che lottano per accaparrarsi i suo dollari e le sue scarpe. Quando smaltisce la sbornia, e vuole vendicarsi del bambino che lo ha derubato, scopre che vive in una grotta per sfollati, a Mergellina, non troppo diversa dagli slum riservati agli afroamericani, negli Stati Uniti. La rabbia si scioglie in pietas.  Il seienne Martin, coetaneo dello scugnizzo, pensa che se la sua famiglia non fosse emigrata, probabilmente si sarebbe trovato in una situazione simile. Ma il cinema italiano non restituisce solo le asprezze della realtà, alimentando la sua vocazione al verismo.

C’è anche il sogno, la dimensione dell’epica sontuosa, di un paese dalla storia millenaria. Romanzata nei peplum italiani, imperniati sul conflitto tra il paganesimo dell’Impero e il cristianesimo nascente. Stregato da film come Fabiola, diretto nel 1948 da Alessandro Blasetti, senza nemmeno sapere cosa sia uno storyboard, Martin mette in cantiere il suo peplum, riempiendo fogli di inquadrature disegnate con prospettive esatte, mostrando i sintomi di un dinamismo e un senso della composizione che non lo abbandoneranno più.

Nel suo documentario Il mio viaggio in Italia, realizzato nel 1999, Scorsese afferma che, se il culmine dell’epica americana era l’O.k. Corral, l’Italia vantava secoli di conflitti sanguinosi, scontri tra popoli e civiltà, riproposti dagli italiani, nel loro cinema in saghe epiche feroci. Con grande naturalezza, come se fosse parte integrante della loro memoria collettiva. Ne La Corona di ferro, altra opera di Blasetti, a turbare il piccolo Martin sono i lampi luciferini, negli occhi di Gino Cervi. Un re perverso, degno di un incubo dei fratelli Grimm, animato da pulsioni sadiche e improvvisi scatti di violenza, elementi ricorrenti, nel futuro cinema scorsesiano.

Il bambino cinefilo cede il posto all’adolescente onnivoro: il giovanissimo Martin è affascinato anche dai capolavori del muto, come Cabiria. La fosca Cartagine inventata dal piemontese Giovanni Pastrone, non gli sembra nemmeno cinema, ma una porta segreta, aperta su di un mondo ancestrale, feroce come il presente. La stessa magia che ritroverà e cercherà di rubare, ne L’età dell’innocenza, a Luchino Visconti. Capace di rendere vivi, nel suo cinema, secoli di blasone e tutta la propria aristocrazia interiore, imprimendo su pellicola un passato autentico, “come uno Stendhal con la macchina da presa”.

Le geometrie magniloquenti, viscontiane, verranno poi squassate dalle nevrosi domestiche, suburbane di John Cassavetes: così Scorsese troverà le pietre angolari del suo linguaggio. Il cinema italiano rimarrà per lui un’ispirazione permanente, emotiva e formale, assorbita e declinata in diverse forme. Lo colpì molto l’Accattone pasoliniano, il pappone marginale toccato da una luce sacra, nell’ultimo istante di vita. Un Cristo vilipeso, riflesso della drammatica condizione umana. La spiritualità ritrovata inabissandosi a fondo, nella vita: eccola, l’ultima tentazione cristologica, a cui dedicherà un film, lasciando che attraversi sotterraneamente quasi tutta la sua filmografia.

Pasolini aveva sovrapposto la Passione secondo Matteo di Bach alla camminata indolente di Franco Citti nella periferia romana, suggerendo forse quanto somigliasse ad una via crucis rovesciata, Scorsese riproporrà la stessa colonna sonora per sottolineare l’esplosione dell’auto di un De Niro arido imprenditore del crimine, nella Las Vegas di Casino. L’ascesi del corpo di Sam Asso Rothstein, sulle note di Bach e sui titoli di testa del film, è pura ironia tragica: il mondo è cambiato, il criminale è sempre più asettico, non ha più nessuna parentela col povero cristo. Mantiene le mani pulite, delegando ad altri il sangue, la morte, la strada.

Della sua contorta idea di santità, Scorsese aveva visto la rappresentazione più incisiva nell’Ingrid Bergman rosselliniana, di Europa 51.In quella donna che, dopo una tragedia, abbandona la vuota borghesia di provenienza, per provare a trasformare il dolore in vita autentica. Rifiutandosi in blocco le leggi imposte dalla società, per immaginarsi parte di una comunità piena d’amore. Utopia presto strozzata dalla realtà.

Del cinema italiano, Scorsese assorbirà anche l’equilibrio impervio, tra commedia e tragedia. Capaci di mutare l’una nell’altra, nello stesso film, per una parola di troppo, per uno sguardo sbagliato. Come accadeva nella vita, a Little Italy. Una delle sue creature più folgoranti, è Joe Pesci, uno che ti atterrisce e ti scompiscia, da una sequenza all’altra, perfetto nella grammatica dei microgesti. Una recitazione che sembra debitrice di certe frenesie di Saro Urzì, nei film siciliani di Pietro Germi. Odi Paolo Stoppa, adorato da Scorsese, ne L’oro di Napoli. Dove recita la parte del vedovo inconsolabile, che tenta di scavalcare il balcone per un suicidio molto simulato, assicurandosi con una rapida occhiata che gli amici non siano troppo distanti, e possano abbrancarlo al volo. Lo stesso Stoppa prende il muro a capocciate, come farà De Niro in cella, in Toro scatenato, mostrando quanto il dolore più estremo possa diventare goffo, inopportunamente comico. L’esplosione del malessere familiare di casa LaMotta avviene in cucina, davanti a una bistecca troppo cotta, perché nei tinelli che emerge la verità umana, come Scorsese apprende osservando il pasto sontuoso di Luigi XIV, nella Presa del potere rosselliniana. In Goodfellas, i bravi ragazzi in galera tagliano l’aglio tagliano l’aglio con una lametta, per farlo sciogliere con pochissimo olio. Con un gangster agonizzante in macchina, trovano il tempo per una gustosa pasta al sugo dalla madre di Joe Pesci.

Interpretata dalla mamma di Scorsese, protagonista insieme al marito di Italian american, documentario scorsesiano del 1974, omaggio esplicito alla storia familiare, con diversi riferimenti gastronomici, sempre dispensati da mamma Catherine.Altre sincronie fra rituale preparazione del cibo e snodi esistenziali, ritornano ancora in Goodfellas, nell’articolato ragù finale di Ray Liotta, accordato sui tempi della sua ultima trasferta da corriere di cocaina.

In Scorsese è spesso presente l’uso della musica operistica, vera lingua comune italiana, molto prima dell’alfabetizzazione di massa.

Un’altra eredità viscontiana, ammirata soprattutto in Senso, nella sequenza del teatro, con ogni figura che si muove sul tempo emotivo de Il trovatore, senza risultare meccanica, come toccata dalla grazia.

Scorsese farà saltellare il suo Jake Lamotta, al ralenti, sul ring, avvolto in un accappatoio arioso come un mantello cavalleresco. Sulle note della tragedia della gelosia per eccellenza, Cavalleria rusticana, di Pietro Mascagni. Ma qui non ci sono austriaci e patrioti italiani, belle aristocratiche, indecise tra l’amore per la patria e gli abbandoni sensuali. Lamotta non è un eroe, ma un toro scatenato ottusamente bovino, con un grado di consapevolezza minimo, animalesco. Sale sul ring per punirsi di una colpa che non riesce a mettere a fuoco. Incassando allo sfinimento, affrontando gli incontri come se non meritasse di vivere una vita che gli appare troppo dura, per trovarci un significato. “Come accadeva ai miei nonni, mai integrati nello stile di vita americano. L’unico scopo era mantenere una loro idea di dignità, come per mio padre. Jake La Motta non era capace di attenersi nemmeno a quei valori semplici” .

Vive la tragedia dell’incomprensione, e della profonda solitudine che ne deriva. Con i suoi risvolti grotteschi, e la amarezza della grande commedia italiana. Come nel finale, con l’ex pugile ormai obeso, nel camerino in uno squallido cabaret, alle prese con monologhi e  brutte barzellette, quasi come il Tognazzi di Io la conoscevo bene. Dando l’ultimo, disperato, spettacolo di sé, in un’estrema invocazione d’amore.

E finalmente, forse, prova pietà per se stesso, smettendo di tormentarsi.

In Fellini, invece, Scorsese ritrova la sua giovinezza. Anche Little Italy, per assurdo, può essere una provincia come Rimini, che non vuoi abbandonare, terrorizzato al pensiero di lasciare casa e diventare adulto. Il tirar tardi, i tempi vuoti, gli scherzi feroci, le albe sfinite, le illusione perdute, tutto viene traslato in Mean Streets, aggiungendoci il peso di una malavita incombente.

Una giovinezza che, ne I Vitelloni, viene chiusa dalle disperate cinghiate paterne, riprese visivamente in Goodfellas.

La fluidità onirica dei piani sequenza di Otto e mezzo, con Mastroianni trai vapori termali e della memoria, perso tra produttori, sceneggiatori, alti prelati e muse ispiratrici, ricorda l’ingresso sognante di Lorraine Bracco al Copacabana, nirvana dei Goodfellas, di cui ancora non conosce le controindicazioni.

Una memoria cinematografica sterminata, legata al cinema italiano aureo, che Scorsese non ha mai tradito. Generoso, pronto a cimentarsi nelle imprese più anomale, pervaso dalla stessa energia curiosa che aveva negli anni quaranta, davanti al televisore di Elizabeth Street, anche adesso che le primavere sono quasi ottanta. Fedele solo al suo stare in bilico, da eterno outsider, tra il solido e rutilante artigianato hollywoodiano, e le pulsioni artistiche europee. Italiane, ad esser precisi.

Una posizione scomoda. Da artista vero.

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