23 luglio 2021

DONNE D'AVANGUARDIA



Claudia Salaris, Donne di avanguardia.

di Ivana Rinaldi

È da poco uscito in libreria Donne d’avanguardia, (Il Mulino2021) di Claudia Salaris, tra le più grandi esperte e studiose italiane di Futurismo, autrice di Storia del Futurismo (Editori Riuniti, 1985) e di Le Futuriste (Edizioni delle donne, Milano, 1982). In questo volume dava spazio alle letterate,  alle artiste, alle polemiste, fornendo un quadro della presenza femminile in uno dei più significativi movimenti di avanguardia dei primi anni Venti del secolo scorso. Una ricerca avviata con Pablo Echaurren, suo compagno di vita, appena usciti dai “fortunali” della politica per entrare negli “anni di piombo”. Dopo l’inasprirsi del clima, in seguito al rapimento e poi l’uccisione di Aldo Moro, racconta Salaris, trovammo nel privato e nella collezione di libri e documenti originali del futurismo la nostra zattera di salvezza.

Prese così le mosse una ricerca puntugliosa di tracce tra bancarelle, librerie antiquarie e visite ai protagonisti e alle protagoniste ancora in vita e ai loro eredi. Il risultato è la ricostruzione di numerose figure particolarmente emblematiche e su momenti di particolare discussione in cui le donne si sono pronunciate sui ruoli sessuali, la creatività e la politica. Reclamare il diritto all’espressione e all’affermazione della propria individualità, sostiene Salaris, non è secondario rispetto a quello del suffragio femminile. Il libro ci racconta di futuriste, ma non solo di loro, si concentra su esponenti del dadaismo e del realismo magico e non si limita a nomi già noti ma include nomi finora in ombra. Molte di loro erano state incluse nei lavori di Maurizio Calvesi, Enrico Crispolti, Mario Verdone, Glauco Viazzi, e in un’ottica di riflessione di genere nei lavori di Giovannella Desideri, Anna Nozzoli, Simone Weller. E fu soprattutto la mostra L’altra metà dell’avanguardia di Lea Vergine che permise di lanciare questo tema (Milano, Palazzo Reale, 14 febbraio-18 maggio 1980).

L’apertura di femministe e studiose come Maria Caronia, Manuela Fraire, Elisabetta Rasy, fondatrici delle Edizioni delle donne e ancora Biancamaria Frabotta, poeta e femminista che dirigeva L’orsa minore e la rivista Memoria, permise la pubblicazione dell’antologia Le futuriste. Il movimento fondato da Marinetti era ancora argomento tabù in certi ambienti della sinistra. Donne d’avanguardia riprende dunque e amplia quel primo lavoro sulle donne futuriste arricchindolo di figure di donne che per il loro stile di vita, pensiero, creatività, hanno lasciato un segno nell’arte, nella letteratura, nella mentalità e costumi dei tempi, rompendo tabù, luoghi comuni, pregiudizi e silenzio.

un ritratto di Valentine de Saint Point

E qui impossibile ricordarle tutte. Accenno solo almeno alle più conosciute, prima fra tutte Valentine De Saint-Point, la prima futurista.

Non dimentichiamo che Filippo Tommaso Marinetti aveva inserito nei punti programmatici del Manifesto edito da Le Figarò il “disprezzo per la donna”, una dichiarazione scandolosa che suscitò immediate polemiche. Corso ai ripari, l’autore dichiarò che il disprezzo riguardava l’eterno femminimo come unica fonte di ispirazione letteraria e la visione ossessiva dell’amore a cui andavano soggetti i popoli latini. Sebbene l’affermazione di Marinetti potesse sembrare più uno slogan pubblicitario che una sua reale visione della donna, all’epoca si proiettavano due immagini: quella della femmina istintiva, priva di doti intellettuali, prossima alla natura, una concezione ampiamente diffusa nella cultura influenzata dal pensiero maschile, Arthur Scophenauer, Friedrich Nietzche, Paul Julius Möbius, Otto Weinenger, che ne calcola addirittura la carenza intellettuale in percentuali, fino a Karl Kraus; dall’altro quello dell’eterno femminino codificato dal pretrarchismo al romanticismo, fino a D’Annunzio.

All’inizio del Novecento, la francese Anne Jeanne Valentine Marianne Desglous De Cassiat- Vercell, nata a Lione nel 1875, in arte Valentine De Saint- Point, a Parigi conobbe il mileu della nuova cultura, rompe i canoni tradizionali con le sue poesia e la sua produzione letteraria enunciando un modello di donna sessualmente liberata. Di lei rimane Una donna e il desiderio, in cui mette a fuoco il tema dell’erotismo femminile.

Nel 1912, mentre i pittori futuristi esponevano a Parigi, Marinetti riuscì a convertirla al suo credo. Tra i due nacque una liason amorosa e Valentine concepì il Manifesto della donna futurista. Rispose a F.T. Marinetti, introducendo l’idea di femminilità e mascolinità, qualita di cui uomini e donne sono in possesso: “ogni superuomo (…) è composto da elementi femminili e da elementi maschili, cioè un essere “completo”. Confluivano nel testo le teorie dell’androgino di Péladon. E così, nell’individuare prototipi femminili antogonisti a quella della donna borghese, Valentine recuperava le eroine del mito e della storia: le Erinni, le Amazzoni, Semiramide, Giovanna D’Arco, Giudette Carlotta Corday, Cleopatra, Messalina, le guerriere che a suo avviso combatterono più ferocemente dei maschi. Il punto essenziale della sua analisi era rivendicare la liberta sessuale  per tutti: eterosessuali e omosessuali.

La difesa dell’omosessualità faceva parte di un sentire comune sia alla poeta che a Marinetti, che aveva già stigmatizzato la condanna a Oscar Wilde. Nel 1913 Valentine De Saint-Point era stata inserita da Apollinaire nel mileu dell’avanguardia internazionale con il suo manifesto L’antitradizione futurista.

Il primo nucleo di futuriste si costituì in piena guerra intorno alla rivista fiorentina L’Italia futurista (1916-1918), di cui l’animatrice è Maria Ginnanni, dove si riuniva un cenacolo di donne: Mari Carbonaro, Mina Della Pergola, Fanny Dini, Fulvia Giuliani, Magamal, Enrica Piubellini, Enif Robert, Rosa Rosà, tra le figure più significative, che si è espressa nella scrittura, nelle parole in libertà, nel disegno, nella ceramica e anche nella pittura. Di origine austriaca e nobile, il suo vero nome era Edith Von Hynau, frequentò i grandi artisti, Klimt, Beardsley, Toorop. In una crociera conobbe il giornalista italiano Ulrico Arnaldi che sposò trasferendosi a Roma. Durante la guerra, mentre gli uomini erano al fronte, Rosa Rosà scriveva: “Inutile ripetere che in questo istante milioni di donne hanno assunto- al posto di uomini – lavori che finora si credeva solo uomini potessero eseguire – riscuotendo salari che finora il lavoro onesto della donna non mai saputo ottenere”.

Alcuni  suoi temi anticipano il femminismo degli anni ’70. Tra le europee ricordo l’inglese Frances Simpson Stevens, trasferitasi a Firenze con il marito nel 1907, con il quale l’unione fini nel 1913. Rimasta sola con tre figli, usci dalla depressione frequentando il caffè le Giubbe Rosse, dove si riunivano Soffici, Carrà e lo stesso Marinetti. Le sue composizioni artistiche furono apprezzate da Duchamp, Man Ray, che la fotografò più volte, mentre lei ritrassse Brancusi, Freud, Joyce, Marinetti, Papini.

un ritratto di Eva Kuhn

Impossibile in questa cartografia delle donne che hanno rappresentato l’avanguardia non parlare di Eva Kühnmoglie di Giovanni Amendola e madre di Giorgio, il futuro dirigente comunista, di Růžena Zátková, signora X futurista, di Tina Modotti. Eva, nata a Vilnius in Lituania, era poliglotta: parlava russo, inglese, francese, tedesco e italiano.

Da giovane si innamorò di Schopenhauer che per lei divenne il vero maestro. Dopo i soggiorni a Londra e a Zurigo, vinse una borsa di studio con un saggio sul filosofo statunitense Henry Thoreau, il teorico della disobbidienza civile e della resistenza non violenta. Con questa somma si trasferì a Roma dove conobbe Giovanni Amendola, di estrazione sociale modesta. I genitori di lui impedivano il matrimonio e Eva soffrì di una brutta depressione che la contrinse al manicomio di Via della Lungara dove fu ricoverata per un anno, dal 1904 al 1905. Ritornata a Vilnius, Giovanni andò a farle visita, ma poiché la madre di lei, questa volta, non lo volle vedere ritendolo causa della depressione della figlia, i due giovani raggiunsero Berlino e poi Lipsia dove entrambi frequentarono un corso di filosofia. Finalmente tornati in Italia, Giovanni aveva trovato lavoro, poterono sposarsi. Nonostante la sua intensa vita familiare e due figli, Eva entrò in contatto con l’ambiente di La Voce e Prezzolini le offrì la traduzione di Dostoevskij, mentre Papini le affidò Schopenhauer. Tra le sue frequentazioni vi era Teresa Labriola, la femminista che più tardi teorica di un femminismo nazionalista, Giacomo Balla, Sibilla Aleramo per cui il marito perse la testa. Eva divenne futurista con il nome di Magamal, nome che si rifaceva alla figura di un giovane guerriero africano di cui parla Marinetti in Mafarka il futurista. Scrisse Eva la futurista che non fu mai pubblicato, nel 1916 riuscì a pubblicare Velocità composto secondo la tipografia furista ispirandosi all’idea di simultaneità tra moto interno e moto esterno di Boccioni. Ormai anziana scrisse un inedito La pazzia e la riforma del manicomio a firma Eva Amendola, dove esprime la proposta di una riforma radicale delle case di cura, ovvero l’abolozione del sistema coercitivo dei manicomi.

Růžena Zátková è invece ceca, di Praga. Sposata con il nobile russo Vasilij Chvos̄o︣inskij, diplomatico zarista a Roma, fu amica e collega di futuristi italiani, Marinetti, Balla, Boccioni, Benedetta Cappa, Prampolini, per non dire del legame che la univa agli e alle intellettuali e artisti russi del suo tempo. Giovane pittrice, morì a soli 37 anni di tubercolosi. Nella sua arte si possono notare sia opere del primitivismo e del folclore che costituisce il dato autoctono dell’avanguardia russa, dall’altra il richiamo al futurismo italiano che , a sua volta, ha esercitato un’unfluenza sul cubo-futurismo dei russi.

Infine per concludere il suo interessante lavoro, Claudia Salaris dedica pagine molte belle a Tina Modotti, nata a Udine, ma presto trasferitasi in Messico dove ebbe rapporti di amicizia intensa con Frida Khalo e Diego Rivera. Fotografa, comunista, impegnata sia a livello artistico che politico, ha lasciato un patrimonio di opere d’arte, di scritti e disegni. L’incontro che cambiò la sua vita fu quello con il pittore Raubaix de L’Abuie Richey, detto Robo, a cui dedicò il Book di Robo.

Tina Modotti

 

Tina Modotti

Il periodo trascorso insieme a lui a Los Angeles dal 1917 al 1922 rappresenta per la giovane il confronto con il mondo intellettuale: il poeta e archelogo Ricardo Gómez Robelo, il critico d’arte giapponese Sadahiki Hartmann e il fotografo Eduard Weston che diventò il suo amante, attraverso il quale riuscì a diventare una professionista. Insieme ad altri artisti messicani diede vita ai murales che anticipano la street art. Ma da sola, non da altri, imparò a vedere il mondo degli emarginati con una comprensione che l’avrebbe portata verso la militanza politica. Nel 1927 si iscrisse al partito comunista messicano dopo l’esecuzione dei due anarchici Sacco e Vanzetti. Fu quello il periodo d’oro dell’attività politica e creativa. Tina tocca l’apice della carriera nel 1929 con l’esposizione organizzata dall’Università nazionale che rappresenta per lei l’ultimo atto pubblico in Messico. Nel febbraio del ’30 si imbarcò su una nave da carico olandese, diretta in Europa, dove sei anni più tardi sotto il nome di Maria, insieme al suo compagno Carlo Contreras partecipò alla guerra civile spagnola. Dopo varie vicissitudini, riuscì a tornare in Messico ma non riprese più in mano la macchina fototografica; Morì a soli 46 anni, nel gennaio 1946 per un arresto cardiaco. Attorno alla sua vita romanzesca, è nato un mito, continua ad alimentare iniziative e interesse dando vita a biografie, mostre, saggi. La sua rimane una vita fuori dai canoni.

A completare il lavoro di Claudia Salaris, molte foto di repertorio sia delle artiste che dei loro lavori più significativi. Un libro da non perdere.

Testo e immagini riprese da  https://www.bibliovorax.it/2021/07/23/claudia-salaris-donne-di-avanguardia/



GOBETTI VISTO DA SPADOLINI

 


Gobetti uomo del Sud


Gobetti, “un giovane alto e sottile” nel ricordo di Carlo Levi, fu nei suoi pochi anni, morì di 25 anni, editore, giornalista, politico, filosofo politico, slavista (“Il fiore del verso russo”), e uno degli oppositori più temuti da Mussolini, benché ancora agli inizi della sua “lunga marcia”, con la chiusura d’autorità delle sue attività editoriali, l’attacco fisico impunito dei fascisti per strada, l’esilio, benché volontario – morì a Parigi poche settimane dopo l’attacco torinese.
Ci sono molti aspetti di Gobetti che meritano una ripresa, una riflessione. Per primo l’ “operaismo liberale”, che ipotizzò su “La rivoluzione liberale”, la più pregnante delle sue creazioni giornalistiche, sulla traccia di Gramsci e il suo “Ordine nuovo”, dove aveva cominciato a scrivere, seppure solo di teatro - come già Gramsci sul quotidiano del partito Socialista. Spadolini ne ripercorre molti, in vari interventi su pubblicazioni diverse, soprattutto su “Il Mondo” e su “La Stampa”, da storico e da politico. In Gobetti individuando il personaggio e il pensiero che più lo hanno sostenuto nella sua avventura politica, da ministro di vari governi in varie funzioni, da ultimo come presidente del Senato, e nel mezzo da presidente del consiglio. Un anno e mezzo soltanto a palazzo Chigi ma denso: la guerra in Libano, la strage di Palermo contro Dalla Chiesa, la P 2, il sequestro e la liberazione del generale Dozier, lo schieramento in Italia, a Comiso, dei missili a testata nucleare Curise, l’inflazione al 22 per cento, la visita di Arafat in Italia, la malevolenza degli alleati di governo, i democristiani soprattutto – Spadolini si reggeva sull’autorità del presidente della Repubblica, Pertini.
Cosimo Ceccuti, il presidente della Fondazione Spadolini Nuova Antologia che fu collaboratore di lungo corso di Spadolini, custode della sua sterminata biblioteca personale, ha raccolto i tanti saggi sparsi che lo storico del giolittismo, e politico di fede repubblicana, ha dedicato a Gobetti. Uno in particolare incuriosisce, “Gobetti uomo del Sud. All’attacco del parassitismo”, su “La Stampa”, 18 maggio 1993, un anno prima della morte.
Il 2 dicembre 1924 “La rivoluzione liberale” pubblicava l’“Appello ai meridionali”, steso da Guido Dorso e firmato da molti intellettuali. È il testo che propone una rilettura del Risorgimento, e la questione meridionale come “la questione italiana”. Gobetti è d’accordo. A maggio era stato a Palermo, osservatore acuto, come testimoniano le sue “Lettere dalla Sicilia”, pubblicate via via su “La rivoluzione liberale”. L’anno prima, a gennaio, si era recato a Napoli per incontrare Benedetto Croce – per presentare a Croce la moglie, una forma di tributo. Pubblicava Nitti, dopo che perfino la casa editrice Bemporad , nota Spadolini, “con quell’insegna ebraica”, gli aveva chiuso “le porte in faccia”. Sturzo collaborava con “La rivoluzione liberale”, Zanotti Bianco, Giuseppe Lombardo-Radice. E Giustino Fortunato.
L’“Appello ai meridionali” era seguito dall’impegno a pubblicare in ogni numero del settimanale una pagina dedicata alla “Vita meridionale”. Gobetti conveniva con Einaudi, nota Spadolini, e indirettamente con Salvemini, nella denuncia del protezionismo e dell’interventismo pubblico in favore dell’industria, quindi del Nord. Nella denuncia del giolittismo: “La nuova economia italiana del Nord”, scrisse, “sorgeva come industria protetta, rinnegando ogni senso di dignità”. Mentre “l’iniziativa del Sud, subito dopo il’61 connessa col brigantaggio e con l’eredità del vecchio regime, aveva reso impossibile il formarsi di condizioni obiettive” di produzione, finendo per adagiarsi in “parassitismo e beneficenza”.  Era il giudizio di Giustino Fortunato, il fallimento del “liberalismo dei conservatori”.  Mentre “un’industria nata liberisticamente non sarebbe stata l’antitesi della vita agricola, ma l’avanguardia”.
Negli ultimi momenti convulsi, l’aggressione fascista, la chiusura delle sue attività voluta da Mussolini, la nascita del figlio Paolo, la decisione di andarsene a Parigi, per fare solo l’editore, non l’agitatore politico, è a Giustino Fortunato che confida per lettera le sue decisioni. Un mese dopo, a Parigi, sarà morto. Con Fortunato Gobetti purtroppo doveva condividere l’amara constatazione che il fascismo avrebbe trovato inerte il Meridione. Spadolini conclude con Fortunato: “Il Meridione non disturberà il fascismo. Servirà plebeamente Mussolini. Come ha sempre servito tutti, salvo a darne la colpa agli spagnoli e ai Borboni, quintessenza del nostro sangue e della nostra carne”. Non soltanto il fascismo, si può aggiungere: il Meridione non disturberà nessuno, servendo via via i Lauro locali o la Dc, poi Berlusconi, e ora Salvini e Di Maio. Il Sud è, diciamo politicamente, servo
.


Giovanni Spadolini. Gobetti, un’idea dell’Italia, Luni, pp. 455 € 25

MAFIA SINGOLARE FEMMINILE

 



Le donne, oltre ad essere più della metà del cielo, secondo alcuni inquirenti sembra che siano ormai ai vertici di "Cosa Nostra". 

21 luglio 2021

FILOSOFIA E STORIA DELLA FILOSOFIA SECONDO J. HABERMAS


LA STORIA DELLA FILOSOFIA DI J. HABERMAS  

di Leonardo Ceppa

 

1. Una possibile idea di filosofia

 

Nella Prefazione dell’ultima opera (Auch eine Geschichte der Philosophie, Suhrkamp 2019) si nasconde il sale della gigantesca impresa. Che idea ha oggi Habermas della filosofia? Che compito vuole assegnarle? Nella cultura contemporanea è domanda grandiosa. Di fronte a questo libro ci chiediamo: si tratta del dettagliato racconto di uno sviluppo storico (che perlustra gli stadi secolari attraverso i quali si è formata la proposta di una filosofia postmetafisica) oppure di un’intuizione teorica proiettata all’indietro, che per un verso organizza a posteriori il passato e per l’altro verso si presenta ora (a fine carriera) in tutta la sua potenza come dichiarazione esistenziale, rivoluzione antipositivistica, battaglia argomentativa? Non vogliamo banalizzare la questione al vecchio circolo, tra filosofia e storia della filosofia, di cui prende coscienza ogni matricola studentesca. Come tutti sanno, a differenza delle altre materie scientifiche, della filosofia non si può raccontare la storia senza prima disporne di una implicita idea teorica, ma di tale idea non ci si impadronisce, senza prima averla trafugata (magari senza saperlo) ai materiali di una venerabile storia istituzionale.

 

Soggettivamente, Habermas si trova impigliato in una trappola. Si vergogna del sollievo (eigentlich unseriös) di non dover daccapo consultare la dilagante letteratura secondaria, di non dover ripetere dimostrazioni più volte sviluppate nei decenni precedenti. Ma sa anche che nessuna tesi filosofica può appoggiarsi sull’impegno soggettivo di chi la pronuncia, per quanto grande sia la sua convinzione. Così nello scavalcare, ponendola al centro, la biforcazione cruciale tra Hume e Kant da lui vista all’origine della spaccatura della modernità – tra necessitarismo scientistico, empiristico e positivistico, da un lato, e costruttivismo linguistico intersoggettivo e comunicativo, dall’altro – egli sceglie una via di mezzo: quella di limitarsi a sottolineare una differenza che sempre si ritrova tra gli opposti partiti.  “Nella concorrenza delle impostazioni [mi sono accorto che] si presentava sempre una identica differenza nei loro assunti di fondo (…) le analisi di una parte poggiavano sempre su rappresentazioni e intenzioni individualistiche, singole disposizioni e comportamenti soggettivi, laddove le analisi della parte concorrente partivano dalle stesse questioni facendo però appello a simboli e regole intersoggettivamente condivise, linguaggi, pratiche, forme-di-vita e tradizioni, per poi soltanto alla fine analizzare, nei corrispondenti tipi di discorso,  le necessarie condizioni soggettive per poter venire a capo di quelle strutture e di quelle competenze” (p. 10).

 

La filosofia è una scienza, ma non una scienza come tutte le altre: è una scienza sui generis. Le scienze normali restringono, specializzandolo, il loro campo di azione, la filosofia invece lo allarga. E lo allarga in maniera tanta smisurata da trascinarvi dentro occhio, oculare, e tutti gli strumenti del ricercatore. L’osservatore diventa un mago stregone. Lo scienziato della modernità è il novello Faust. Laddove, dice Habermas, la scienza specialistica lavora “nel dire sempre di più su sempre di meno” (p. 12), la filosofia mantiene tutta la sua faustiana (o hegeliana) presunzione della totalità, tanto da far dipendere il destino dello scienziato (e dell’uomo) dal modificarsi del suo sapere. Sapere del mondo e autocoscienza dell’uomo restano legati insieme dall’uso che l’uomo impara a fare delle sue conoscenze. In questo senso Habermas non separa la “scienza” dall’effetto di “rischiaramento” ch’essa produce. Dal XVIII secolo in poi, Wissenschaft e Aufklärung, scienza e presa di coscienza vanno di conserva, tenute insieme da quel trattino grammaticale  (miracoloso nella sintesi tedesca), che lega Selbst– e Weltverständnis in una medesima emissione di fiato.

 

C’è anche qualcosa di cruciale che il sapere filosofico condivide con le scienze “normali” della nostra epoca: la tendenza alla specializzazione e alla divisione del lavoro. E’ una tendenza inevitabile, feconda, persino desiderabile, la quale tuttavia, nella versione positivistica della filosofia, minaccia di trascinar via (o far dimenticare) quel trattino miracoloso che lega il sapere del mondo sia al destino dell’uomo sia al destino di Dio. Ma perché, agli occhi di Habermas, questo pericolo del positivismo resta una minaccia reale per la filosofia contemporanea? Perché in realtà quest’ultima – per non perdere di vista il rapporto alla totalità – si trova oggi a fronteggiare una preoccupante e smisurata crescita di complessità: moltiplicandosi e arricchendosi il sapere del mondo, la struttura economica della società, le tecniche d’intervento sul corpo e sulla psiche. Con convinzione Habermas ripete la diagnosi di Marx: gli uomini rischiano di diventare le appendici organiche di una scienza e di una tecnica vampiresche, la cui organizzazione umana (il sapere umanistico del cosmo e dell’uomo) diventa sempre più inabbracciabile e inafferrabile (unüberschaubar, p. 12).

 

Di qui la tentazione (ecco la polemica di Habermas contro il positivismo filosofico) di arrendersi, di rinunciare all’impulso illuministico che ancora animava Kant e Faust, di abbandonare l’impresa umanistica di “dare forma” a sé stessi nella configurazione del mondo (il tema del Gestalten, ricco di risonanze). Allora del progetto moderno resterebbero in piedi soltanto le gloriose rovine. E al filosofo contemporaneo non resterebbe che ripiegare in un atteggiamento di ellenistico disincanto. Un fatalismo dal sapore classicistico verso cui Habermas ha sempre manifestato un orrore palese.

 

2. Un “processo di formazione” tra la sfida delle contingenze e le speranze della ragione

 

A che serve, si chiede Habermas a questo punto, ripercorrere nei dettagli – ancora una volta – tutta la storia della filosofia fino al suo punto di arrivo? Questa storia sembra talora diventare il virtuosistico e compiaciuto ricamo su una vicenda mille volte diagnosticata, difesa e omaggiata: il progetto di una modernità in pericolo, la facoltà di trascendere la contingenza nei processi dell’ apprendimento, il peso, infine, che con l’eredità millenaria della religione viene oggi a scaricarsi su una corrente di filosofia postmetafisica. Asse centrale su cui ruota tutto il progetto: la indissolubilità di Aufklärung e Wissenschaft, sapere del mondo e conoscenza dell’uomo, insomma il magico trattino (binde-strich) tra l’uomo e il suo ambiente. Dopo avere scritto, alla fine del libro, il capitolo sui posthegeliani, Habermas si accorge di aver capito una cosa. Il processo delle ramificate controversie teoriche non ha più bisogno di allargarsi: basta mettere in rilievo i presupposti sistematici e metodologici di cui lui si è servito in tutta la sua carriera professionale. La sua tenacia servirà allora a illustrare quella “implicita idea di filosofia” cui ha sempre lavorato, dando ai suoi problemi una impostazione metodologica, che è di di tipo esistenziale e personale, morale e politica, ancor prima che accademica e professionale. Alcuni dettagli diventano secondari e la filosofia-a-360 gradi scende dal cielo prendendo la forma di un Ansatz: di un approccio, di una visione, di un metodo costruito e perfezionato attraverso i decenni. Gli stessi strumenti metodologici illuminano senza sforzo la direzione del cammino: dalla “costellazione occidentale di fede e ragione”, cioè da quella “osmosi semantica” citata nella copertina del primo volume, alla “libertà della ragione” (genitivo soggettivo e insieme oggettivo) auspicata nel secondo volume come obbiettivo postmetafisico del processo.

 

Nella Prefazione a questi due volumi Habermas ricorda le drammatiche svolte della storia universale: 1) l’età assiale delle religioni mondiali, 2) l’arricchimento reciproco, nell’Europa cristiana, di fede e ragione, cioè quella simbiosi che nella modernità sfocia in scissione, 3) il dissolvimento della falsa metafisica hegeliana nell’impostazione intersoggettiva della pragmatica linguistica.

 

Le nobili domande della filosofia di Kant – cosa posso conoscere, cosa posso fare, in che cosa sperare – rimangono le stesse, ma presentandosi in un “formato” diverso: muovendo dalla “situatezza” dell’uomo finito queste domande non si camuffano più nella forma di un Assoluto, cioè come fossero formulate da un punto di vista divino oppure positivisticamente scientifico. E proprio l’approccio teorico di Habermas, tra quelli concorrenti oggi nella professione, è quello che più sottolinea la cosa. In questo senso il sistema filosofico di Habermas è personale e professionale nello stesso tempo. Dall’esercizio filosofico resta ineliminabile un momento “performativo” – di responsabilità soggettiva e morale, espressiva e politica – che caratterizza l’autore senza potersi nascondere.

 

Habermas ce ne dà subito la prova scendendo in lizza con alcuni avversari ( p. 11). Per lui è impossibile, per esempio, prendere sul serio i modelli di Kuhn, Foucault e Feyerabend, perché escluderebbero in via pregiudiziale la possibilità dell’apprendimento, l’occasione di dare al mondo una Gestaltung (un ordine umano). Le rivoluzioni scientifiche di Kuhn contro il falsificazionismo di Popper, il discorso come “maschera del potere” sviluppato da Foucault, l’anarchismo metodologico di Feyerabend, non muovono da una matrice situativo-esistenziale dell’uomo. Queste opzioni renderebbero impossibile concepire le svolte e i cambi-di-paradigma come “risposte fallibili” agli stimoli dell’apprendimento. Il processo di innovazione – sempre aperto agli esiti più diversi perché si impara anche dagli errori – resta per Habermas il campo di tensione intersoggettiva che collega le esigenze della situazione di radicamento – i  bisogni della matrice e gli abissi della contingenza – alle risposte e ai tentativi di soluzione proposti da una ragione fallibile. Verso la fine di questa Prefazione, Habermas formula così la sua idea di genealogia: passare sugli abissi dell’esistenza (Abgründe) usando le ragioni (Gründe) come ponti avventurosi, p. 16).

 

3. Il discorso di “fede e ragione” nell’angolo di mondo chiamato Europa

 

Il rapporto tra religione e filosofia (che con bella espressione Habermas chiama “osmosi semantica”) incontra nell’occidente europeo un destino particolare. A quella metafisica greca nata nei commerci dell’Egeo e che, nell’era assiale, rappresentava una delle poche significative immagini-di-mondo, toccò in sorte un destino del tutto particolare. Infatti, lungo i secoli del platonismo cristiano che mise radici nell’impero romano, andava realizzandosi uno “doppio attraversamento” di contenuti lungo il confine che divideva la ragione dalla fede, la filosofia dalla religione. Per un verso, credenze sostanziali della narrativa cristiana passavano il confine con la filosofia diventando, in questo campo, saperi razionalmente dimostrabili. In senso contrario, verità metafisiche costruite dai filosofi platonici si trasformavano, appena giunte nel campo della fede, in elaborati teoremi della dogmatica religiosa.

 

Potremmo addirittura parlare di un destino “secolare e glorioso” se osserviamo come, nella prospettiva con cui Habermas ci racconta il lento formarsi della filosofia postmetafisica, un ininterrotto arco temporale si protende da Agostino fino alla Deutsche Klassik. Infatti, i temi della “autonomia” e della “libertà della ragione” – che caratterizzano la modernità dando sviluppi vertiginosi alla “ragion pratica” postkantiana – non avrebbero mai potuto nascere se non sulla base di quella “osmosi semantica” che Habermas sceglie come guida della sua ricostruzione storica (p. 15). Anzi, il pensiero secolare di un ramo della filosofia postmetafisica contemporanea si è oggi talmente emancipato dalle sue lontane origini teologiche da creare quasi “sproporzione” in favore di una filosofia tanto laica quanto risonante di echi religiosi (basti pensare ad autori come Adorno, Kafka o Levinas), a tutto svantaggio della teologia dogmatico-professionale. Per questo, nel panorama culturale contemporaneo, troviamo sempre piu´ scrittori e filosofi “secolari” (cioè laici e postmetafisici) che trattano temi di pertinenza pseudo-religiosa. Sono persino diventati più numerosi dei laicisti empiristi che, a partire da Hume, riducono psicologicamente la religione a favola consolatoria. Così, quando Habermas polemizza contro la sclerosi laicistica di molta filosofia contemporanea, lo fa anche per mostrare come (pur non essendosi mai interrotta la osmosi semantica tra fede e ragione) si siano oggi spostate le linee dei vecchi confini disciplinari. Nella disordinata polifonia dell’opinione pubblica, tocca spesso ai filosofi laici trattare temi morali, giuridici e politici, che tradiscono evidenti origini bibliche o religiose. E lo fanno più spesso dei filosofi empiristi, che considerano tali temi come superate zavorre oltrepassanti l’orizzonte delle loro divisioni specialistiche.

 

Questo spiega da ultimo la soverchiante responsabilità che Habermas accolla a quel ramo di filosofia postmetafisica (il ramo kantiano dei 360-gradi, non quello humeano dello sbaraccamento specialistico) che accetta di dialogare – sullo stesso piano – intra moenia coi filosofi ed extra moenia coi teologi.  Trattando proprio di quelle questioni che vengono pudicamente evitate dai laicisti rigorosi (chiusi a riccio in quelle specializzazioni “che dicono sempre di più su sempre di meno”). Alla fine Habermas non esita a formulare una tesi coraggiosa di questa portata: “Al di là dei suoi aspetti palesemente postmetafisici, la questione che la filosofia deve sentirsi in grado di affrontare ed elaborare si decide oggi sulla rinnovata eredità del lascito religioso. Anche se questo è problema che riguarda soltanto uno dei rami in cui si è scisso il pensiero postmetafisico” (p. 15 corsivo mio,).

 

Sembrava infatti che il problema religioso, dopo la moderna scissione tra fede e ragione, dovesse sciogliersi come chiedeva Hume, per via pacifica e senza clamore, passando per la via naturalistica ed empiristica delle considerazioni antropologiche di empiristi e utilitaristi. Invece, scrive Habermas, vediamo con sorpresa scatenarsi nella Sinistra hegeliana una furiosa polemica antireligiosa contro le confessioni del protestantesimo borghese e contro l’assimilazione hegeliana della religione nell’automovimento idealistico dello Spirito. Autori come Feuerbach, Marx e Kierkegaard (ma possiamo anche includere Nietzsche) combattono le consolazioni della religione chiesastica con spirito ardentemente anticlericale. E c’è molto di paradossale, sembra aggiungere Habermas, in questo “anticlericalismo religioso” evocante quelle tracce kantiane di ragion pratica, autonomia e libertà-della-ragione, che paiono disperse lungo la storia di una insopprimibile e irriducibile “emancipazione umana” che rifiuta di sciogliersi in fatalismo stoico.


Articolo ripreso da  http://www.leparoleelecose.it/?p=42110

LA RIVOLUZIONE DELLA CURA



La rivoluzione della cura. La politica lo capirà?

Lea Melandri
21 Luglio 2021

Il Covid-19, lo sappiamo, ha svelato i disastri annunciati dei molti “mondi senza cura”, ma ha anche mostrato alcuni indizi di quello che potrebbe essere un mondo di mutuo soccorso, come ricorda il Manifesto della cura, scritto dal gruppo londinese Care Collective. Ma sappiamo anche che la cura ha a che fare con la fragilità e spesso con la sofferenza dei corpi: la pandemia, osservano le firmatarie dell’Appello della Magnolia – promosso dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma – ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità. Una nuova cultura politica non può nascere senza fare i conti con tutto questo

«La nostra società è stata abbandonata all’incuria. La pandemia l’ha scoperta e aggravata. Per questo noi vogliamo cambiare il punto di vista con cui si guarda il mondo. Vogliamo una società e delle comunità che non sfruttano, non estraggono ricchezza dagli altri e dal pianeta, ma se ne prendono cura, lo custodiscono. Una società dei beni comuni. Noi vogliamo avviare la “rivoluzione della cura” (…) che per noi significa una nuova idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione per ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo». È quello che si legge nell’Appello dell’Assemblea della Magnolia – Casa Internazionale delle Donne di Roma -, uscito ai primi di luglio, con l’idea di promuovere un percorso di confronto da concludere con una manifestazione a Roma il 25 settembre: “Le donne in piazza. Quale ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia”.

Che il Covid-19 abbia portato all’evidenza i disastri annunciati di “mondi senza cura” – crisi climatica, rifugiati lasciati morire nel Mediterraneo, omicidi di donne e uomini neri negli Stati Uniti, migliaia di femminicidi, mercificazione privatizzazione di bisogni essenziali, come la salute e l’istruzione, ascesa di regimi totalitari, razzismo, xenofobia, ecc. – e al medesimo tempo “ci abbia dato effimeri indizi di quello che potrebbe essere un mondo migliore”, è anche l’analisi che sta alla base del Manifesto della cura, scritto a più mani dal gruppo londinese Care Collective e tradotto in Italia quest’anno da Marie Moise e Gaia Benzi. “La consapevolezza della nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri è il primo passo per rimettere la cura al centro dell’agenda politica e sociale”. Si tratta senza dubbio di un grande cambiamento, che non si limita a mettere in discussione le politiche liberiste, ma l’eredità millenaria di una cultura patriarcale che ha associato e perciò svalutato la cura come “naturale” predisposizione delle donne, in quanto madri, considerato la fragilità e la debolezza dei corpi come “poco virili”, e relegate perciò all’ambito familiare.

La pandemia sembra avere paradossalmente chiuso le porte di casa, costretto le donne a portare al suo interno il peso di un doppio lavoro, prestazioni di assistenza a bambini e anziani, ma di averle, allo stesso tempo, spalancate a prospettive che potrebbero sembrare avveniristiche, se non avessero il supporto di consapevolezze nuove e di percorsi innovativi riguardanti la famiglia, le comunità, gli Stati, il mondo. Al centro, l’assunto di fondo “che siamo tutti responsabili, insieme, del lavoro di cura (…) sia a livello quotidiano, sia nella sua accezione di sostegno necessario per la tutela della comunità e del mondo intero”. Se la famiglia tradizionale rappresenta ancora il prototipo della relazione di cura, le nuove forme di intimità che stanno nascendo, “al di là di quelle autorizzate dall’eteronormatività”, lasciano pensare che la figura della persona “amica” “potrebbe sostituire “la madre” come modello di cura. Del resto non sono mancate, fin dagli anni Settanta, forme alternative di accudimento riguardanti bambini e anziani, e, nel corso della pandemia, gruppi di mutuo soccorso che hanno rischiato di infettarsi per consegnare medicine e beni essenziali a persone in stato di fragilità e isolamento.

Per dar vita a comunità o mondi di cura è necessario innanzi tutto riconoscere che la dipendenza, finora patologizzata, è “parte integrante della condizione umana”, che paradossalmente sono i più ricchi a aver bisogno di persone pagate per soddisfare le loro esigenze personali, anche se questa dipendenza resta nell’ombra, negata dal fatto che possono dare ordini, licenziare o sostituire. Ma è altrettanto importante che siano gli Stati a farsi carico delle risorse materiali e immateriali indispensabili, a garantire le infrastrutture sociali che rispondano ai bisogni primari: salute, ambiente, democrazia partecipativa a ogni livello. A mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali” “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni.

Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green.

Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo “al lavoro la vita” (Cristina Morini). All’“ambivalenza della cura” sono dedicate alcune delle pagine più interessanti del Manifesto. La parola “care” significa anche preoccupazione, ansia, angoscia: entrare in rapporto diretto con la fragilità, con la sofferenza dei corpi, aspetti repellenti e imbarazzanti della malattia, può produrre rigetto, intolleranza in chi se ne deve occupare. “Anche per questo –si legge – il lavoro di cura è la dimensione a cui sono state relegate le donne, la servitù e altri soggetti considerati inferiori (…) Il razzismo si è combinato con le disuguaglianze di genere”.

La pandemia, osservano le firmatarie dell’Appello della Magnolia, ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità: “Oggi le donne, soprattutto straniere, sono più povere, più precarie (…) impiegate prevalentemente nei servizi, nell’assistenza, nel commercio, hanno dovuto restare a lavorare in presenza, a prendere i mezzi pubblici, per consentire agli altri di rispettare il lockdown”. Mi chiedo se basterà questo a muoverle verso le piazze per esprimere il loro dissenso, la loro ribellione a un destino che ha assegnato loro ambiguamente, contraddittoriamente, un potere di indispensabilità e, al medesimo tempo, di sottomissione al mondo che porta ancora oggi il segno di una comunità storica di uomini, patriarcale e liberista?


Pubblicato su il Riformista del 21 luglio 2021 e qui con il consenso dell’autrice. Altri articoli di Lea Melandri nell’archivio di Comune sono leggibili QUI

18 luglio 2021

Che cosa è cultura?

 



Volendo festeggiare i dieci anni di vita del blog CESIM di Marineo, ripropongo un documento che mi è particolarmente caro. (fv)

Franco Virga (60 anni) e Vincenzo D'Aversa (84 anni) ricordano il dibattito sulla cultura tenutosi a Marineo presso la Camera del Lavoro nel 1975


CONTRIBUTI ALL'ARCHIVIO DELLA MEMORIA

L’anno scorso il Centro Studi e Iniziative di Marineo (CESIM), ha colto l’occasione della presentazione di un bel libro - La memoria, gli attrezzi e gli antichi mestieri della terra, con allegato audiovisivo, pubblicato nell’autunno del 2008 a Palermo, frutto dell’attiva collaborazione tra il CE.S.VO.P (Centro di Servizi per il Volontariato di Palermo), il Circolo AUSER “Chinnici” e la Scuola Media di Misilmeri – per rilanciare l’antico progetto di un Museo della civiltà contadina e di un Archivio della Memoria da realizzare a Marineo.

L’idea, per la verità, risale a più di trent’anni fa, in occasione del censimento dei beni etno-antropologici, voluto dalla Regione Siciliana e realizzato con particolare cura da un gruppo di operatori locali. Da quel primo censimento il Cesim aveva preso spunto per realizzare la Mostra dei cicli produttivi del grano e del latte che tanto interesse suscitò nella comunità locale e particolare apprezzamento da parte del Prof. Antonino Buttitta (Cfr. il volume di autori vari, curato dallo scrivente, intitolato: I beni culturali a Marineo, Palermo 1982).

L’antico progetto si è arricchito, negli ultimi mesi, grazie al contributo di due emigrati marinesi nel mondo: Ciro Guastella ed Ezio Spataro. Sono stati loro a realizzare alcuni audiovisivi, di cui vogliamo offrire una prima visione in anteprima sui nostri blog, anche per stimolare altri cittadini a raccogliere e socializzare testimonianze simili, che saranno inserite nel progetto internazionale MEMORO http://www.memoro.org/it/ 

Il video seguente è stato realizzato in modo artigianale da Ciro ed Ezio nell’agosto di quest’anno. Lo si ripropone, con tutti i suoi difetti tecnici, anche per mostrare come il valore documentario di un video vada ben aldilà della sua qualità estetica.

Il documento ricostruisce sommariamente un pubblico dibattito svoltosi presso la Camera del Lavoro di Marineo nell’anno 1975. Una sera di quell’anno Franco Virga, forte dell’esperienza vissuta con Danilo Dolci presso il Centro Studi e Iniziative di Partinico e Trappeto, organizzò un pubblico dibattito che aveva per tema il quesito: “Cosa è la cultura?”. Al dibattito parteciparono un gruppo di studenti, pensionati e contadini invitati a riflettere e discutere liberamente sul tema. La discussione si svolse tranquillamente fino a quando prese la parola il Sig. Vincenzo D’Aversa. Allora il dibattito si animò e nessuno dei presenti ha dimenticato la risposta originale data dall’arguto contadino, oggi ottantaquattrenne, al quesito. 


Francesco Virga 


FRAMMENTI DI UN DISCORSO AMOROSO ...

 


Riprendo da un bel sito ( https://www.vocidallisola.it/2021/03/30/lamore-scortese-brevi-cenni-di-una-lunga-storia/) l'articolo seguente:


L’amore (s)cortese: brevi cenni di una lunga storia

 

DI FRANCESCA SENSINI

 

Immagini del pittore Roberto Ferri (www.robertoferri.net)

 

Love of my life, you
Are lost and I am
Young again.

A few years pass.
The air fills
With girlish music;
In the front yard
The apple tree is
Studded with blossoms.

I try to win you back,
That is the point
Of the writing.
But you are gone forever,
As in Russian novels, saying
A few words I don’t remember-

How lush the world is,
How full of things that don’t belong to me-

I watch the blossoms shatter,
No longer pink,
But old, old, a yellowish white-
The petals seem
To float on the bright grass,
Fluttering slightly.

What a nothing you were,
To be changed so quickly
Into an image, an odor-
You are everywhere, source
Of wisdom and anguish.

Louise Glück, Vespers: Parousia

 

Nella tradizione occidentale la prima sistematizzazione filosofica dell’amore, come esperienza nodale della relazione con l’altro, risale al Simposio di Platone. Nel dialogo i banchettanti si cimentano in una gara oratoria in cui ciascuno espone la propria concezione di Eros. Particolarmente importante per le sue ricadute sull’immaginario moderno è l’antropologia fantastica al centro del mito narrato da Aristofane. Essa postula un’umanità originaria composta da esseri tondeggianti e ‘doppi’ rispetto agli esseri umani odierni, divisi in tre generi: maschile, femminile e androgino. Vigorosissima e tracotante, questa specie umana tenta di rivoltarsi contro gli dei, finendo coll’attirare su di sé la punizione di Zeus: il dimezzamento dei loro corpi. Il risultato è tragico: le due metà non fanno altro che tentare vanamente di ricongiungersi, rispondendo a un istinto insopprimibile che le conduce alla morte. Per scongiurarne l’estinzione, e con essa la fine del culto umano per gli dei, Zeus decide di apportare un miglioramento alla loro morfologia, spostando i genitali in modo tale da permettere il coito e, con esso, la possibilità di soddisfare il bisogno di unione e di completezza: «a questo desiderio di interezza e al tentativo di raggiungerla spetta il nome di eros».[1] Se le due metà separate possono ora vivere come individui autonomi, resta in loro il desiderio di ricongiungersi alla propria metà. Sulla base dell’intero originario, infatti, Aristofane spiega le diverse tendenze sessuali, non mancando di sottolineare come la ricerca dell’unione tra due metà maschili, essendo indipendente dalla procreazione, sia naturalmente orientata a scopi superiori, tra cui, esemplarmente, l’attività politica.
Fortemente improntato alla dicotomia è anche il discorso di Pausania, in cui troviamo la distinzione oppositiva tra Afrodite Urania, «celeste», e Pandemia, «volgare», ovvero tra un eros sensibile alla bellezza dell’anima e volto al miglioramento etico individuale, e un amore libidinale e sfrenato, orientato alla bellezza dei corpi e al piacere sessuale. Anche Pausania, nel quadro dell’eros «celeste», individua nell’amore tra maschi la forma erotica migliore. È interessante notare come l’Afrodite che presiede alla forma eletta di amore sia nata per androgenesi dallo sperma disperso nel mare del dio Urano, evirato dal figlio Crono, mentre l’Afrodite «volgare» derivi dall’unione di Zeus e Dione, un maschio e una femmina. [2]

È chiaro come, dal dialogo platonico, emerga la superiorità di un eros affrancato dall’istinto di procreazione e di sopravvivenza della specie e, proprio in quanto tale, libero da una finalità materiale, strumento di perfezionamento per l’individuo e la comunità. In questo quadro relazionale ‘l’altro’ è sempre un maschio. Alle donne è riservata una funzione pratica – la riproduzione e quindi la sopravvivenza della specie – che le riduce a corpo e materia, concepito come inferiore a quello dello spirito, e non sollecita alcun interesse per la loro soggettività.

 

[1] Platone, Simposio (192e), introduzione, traduzione e note di Roberto Luca, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 35.

[2] Si tratta di due tradizioni risalenti, rispettivamente, a Esiodo, Teogonia, vv. 188-200, e a Omero, Iliade, V, vv. 348 e 370-371. Per un approfondimento degli aspetti legati al mito e al culto di queste due Afroditi cfr. Platone, Simposio, cit., p. 17.


Apparente eccezione è la figura di Diotima, la sacerdotessa di Mantinea che istruisce Socrate in materia d’amore. [3] Nel discorso della sacerdotessa, maestra di Socrate, Eros anche è un δαίμων, un “demone, cioè, in senso greco, una figura che garantisce la comunicazione tra sfera umana e sfera divina e, di conseguenza, la coesione del cosmo: suo padre è Pòros, «l’Espediente» e sua madre, Penìa, la «Povertà». Tale eredità muove Eros al costante superamento, attraverso le risorse del suo ingegno, della sua costitutiva indigenza. Non essendo un dio, è povero di sapienza, ma la cerca. Poiché la sapienza è la cosa più bella tra le belle, Eros è attirato dalla bellezza che diventa, nel pensiero di Platone, il criterio guida nel cammino filosofico. Dalle bellezze incarnate e materiate nel mondo – beni minori che alludono a un bene infinitamente maggiore – il filosofo risale via via, (se non si lascia sviare dai sensi), verso il concepimento della Bellezza assoluta, meta tendenziale e mai possesso stabile per l’essere umano.
Una donna sapiente è dunque latrice del messaggio ultimo sull’amore, via alogica verso l’assoluto, percorso di astrazione dal mondo delle imitazioni, delle approssimazioni, del falso, al mondo delle idee perfette, cioè della verità. Eppure Diotima non prende la parola al banchetto; è assente perché, in quanto donna, non è ammessaSolo le danzatrici, le suonatrici, le intrattenitrici varie, sono tollerate. Ricordiamo che, molto significativamente, Erissimaco chiede l’estromissione della sola donna presente, la suonatrice di flauto, per poter iniziare a dialogare sull’amore. Le donne e la filosofia, come la materia e spirito, risultano opposti inconciliabili.
Insomma, Diotima non parla direttamente; per lei parla un uomo, Socrate, che la dice «amica di terre lontane». La sacerdotessa non è dunque soltanto assente ma è posta in un altrove” lontano rispetto al luogo dei banchettanti; il suo corpo e la sua voce sono tenuti a distanza; è ammesso solo lo spirito del suo insegnamento. La sua immagine, apparentemente potente, è in realtà emblema di una condizione storica di falsa presenza e di realissima assenza nella misura in cui le donne non sono ammesse a incarnare, letteralmente, il proprio pensiero sul mondo. Fuori dalla pólis, poste in un altrove assoluto se, eccezionalmente, dee o «maestre»; dentro le mura di casa, confinate al privato e alla cura degli affetti, se donne qualunque.
Il modello d’amore platonico finisce col corrisponderedopo tuttoa una meravigliosa astrazione, che nega il mondo per un sovramondo perfetto e con esso la realtà umana. Nel racconto di Aristofane, invece, emerge quell’idea della felicità che è ancora presentissima nel discorso comune sull’amore: fusione di due esseri in uno, complementarità dei contrari, armonia di razionalità maschile e sentimento femminile.[4]

 

[3] Platone, Simposio (201d-212c), cit., pp. 51-70.

[4] Su questo tema rimandiamo ai lavori fondamentali di Lea Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Milano, Rizzoli, 1988 (Torino, Bollati Boringhieri, 2002). Un’interessante elaborazione del privilegio maschile e delle sue rappresentazioni simboliche si trova in Alberto Asor Rosa, L’ultimo paradosso, Torino, Einaudi, 1986, pp. 79-80.

Tentativo di ripetere l’unità a due dell’origine – il legame di dipendenza e cura tra madre e figlio – la ricomposizione evocata nel mito aristofaneo intende in fin dei conti rimediare a quella che abbiamo chiamato frattura del pensiero e della rappresentazione del mondo; vuole cioè ricongiungere ciò che il pensiero androcentrico ha separato nella storia umana: natura e cultura, corpo e mente, la figura stessa dell’androgino in cui lo spirito prende corpo – il πνεύμα, lo «spirito», che dà forma alla χώρα, la «materia» – cioè il maschile che si incarna nel femminile, considerato materia passiva e disordinata, da definire, ordinare e controllare, secondo la teorizzazione di un altro grande padre del pensiero occidentale, Aristotele. [5]

Non distante da queste posizioni è un altro testo fondativo dell’erotica occidentale, lArs amatoria di Ovidio. Nel poemetto didascalico in distici elegiaci, il poeta impartisce consigli in materia amorosa a uomini e donne. L’amore è presentato come una battuta di caccia tra il maschio cacciatore e la femmina preda. Dietro l’inseguimento, fatto di tattiche e inganni, si nasconde l’aspirazione alla fine del desiderio stesso – con il portato di dolore che esso fatalmente implica – attraverso il rinvenimento di soluzioni capaci di anestetizzarlo. Non a caso Ovidio è anche l’autore dei Remedia amoris. In tal senso «L’ ars amatoria non è altro, in verità, che una medicina per smettere di amare e sbarazzarsi della ferita che apre in noi l’esistenza dell’altro. L’erotica di Ovidio, più che ignorare la donna, mira a negarla e a recuperare una serenità dell’anima proposta come ideale filosofico e sociale».[6]

Le fondamenta androcentriche e misogine del materiale classico si ritrovano nella poesia occidentale delle origini, incentrata essenzialmente sulla tematica amorosa eterosessuale. Nel XII secolo, infatti, nelle ricche e raffinate corti della Francia meridionale, si elabora un paradigma culturale e poetico che elegge l’amore a cifra esperienziale della vita umana e la donna a sua protagonista: è la fin’amors o «amore cortese». Con il declino delle corti provenzali, esso passerà alla corte di Federico II in Sicilia e, in seguito, ai comuni dell’Italia del centro-nord – Bologna, città di Guido Guinizzelli, e Firenze, dove nascono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, in particolare – dando esito a elaborazioni originali, influenzate dal pensiero teologico cristiano.[7]

Questa vera e propria scoperta ed esaltazione poetica della donna è in realtà un gioco di specchi: «sarebbe più giusto dire che da allora la donna diventa un oggetto letterario, l’occasione di un discorso maschile che si alimenta dell’enigma del femminile».[8] Siamo di fronte all’epifania medioevale di un vero e proprio idolo-donnadeclinato storicamente nel corso dei secoli nei due poli opposti e inconciliabili della donna angelo e della femme fatale, figurazioni di una frattura nella concezione del mondo e, di conseguenza, nella sua rappresentazione artistica e filosofica.
Questa deità venerata, nel suo singolare collettivo che annulla tutte le differenze per sussumerle in una sola identità naturale ed eternamente valida – das Ewig-Weibliche L’eterno femminino») di Goethe, concetto cardine dell’essenzialismo ottocentesco – è una sublime creazione funzionale alla gerarchia dei sessi; idolo anche in senso etimologico, cioè εἴδωλον«simulacro», fantasma e fantasia del desiderio maschile. In quanto tale, «l’idolo» rimane immobilmente sublime nella sua stupenda cornice a fissare i visi delle donne che si sforzano di corrispondergli.
In cambio dello statuto superiore che questa immagine garantisce mediante l’accettazione e l’adeguamento al suo modello, le donne reali, che camminano sulla terra, sacrificano fin dalla nascita la loro integrità, la possibilità di concepirsi come esseri umani a pieno titolo. Dietro la sua abbacinante luce immateriale, dietro l’altare del suo culto, la dea-donna nasconde delle donne umane diminuite, messe nell’incapacità di immaginarsi altrimenti, di concepire idee proprie, di agire con consapevolezza di sé e parlare con un linguaggio consapevolmente scelto.
Così, attraverso il magistero estetico di questa produzione letteraria e la sua autorità cultura, le costanti dell’immaginario maschile attraversano i secoli e continuano a sostanziare anche i modelli interiorizzati dalle donne, condizionando il dibattito sull’amore chetematizzato dal femminismo degli anni Settanta e messo al centro delle sue pratiche di autocoscienza e riflessioni sul corpo, sulla sessualità e sulla vita affettiva, resta ancora un groviglio problematico da affrontare fino in fondo.

[5] Il concetto si trova espresso in Aristotele, De generatione animalium, 716b. Sui pregiudizi misogini nella storia della filosofia occidentale rinvio a Paolo Ercolani, Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio, Venezia, Marsilio, 2016.

[6] «L’Ars d’aimer n’est au vrai qu’une médicine pour cesser d’aimer et se débarrasser de la blessure qu’ouvre en soi l’existence de l’autre. L’érotique d’Ovide ignore moins la femme qu’elle ne vise à la nier et à rétablir une équanimité proposée comme idéal philosophique et social» (Jean-Charles Huchet, L’amours discourtois. La ‘Fin’Amors’ chez les premiers troubadours, Toulouse, éditions Privat, 1987, p. 12). Le traduzioni sono mie.

[7] Cfr., oltre ai fondamentali saggi di Contini in Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Roma, Istituto dell’enciclopedia italiana, 2004 (ristampa dell’edizione Milano; Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1960), Paolo Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizzelli, Fiesole, Cadmo, 2007; Donato Pirovano, Il dolce stil novo, Roma, Salerno, 2014; Les deux Guidi: Guinizzelli et Cavalcanti: mourir d’aimer et autres ruptures, a cura di Marina Gagliano, Philippe Guérin e Raffaella Zanni (Atti del convegno organizzato nel Febbraio 2016 dal CERLIM presso l’Università Sorbonne nouvelle), Parigi, Presse Sorbonne Nouvelle, 2016.

[8] Jean-Charles Huchet, op. cit., p. 13.

La volontà di affrontare e decostruire questo immaginario diffuso, interiorizzato da secoli e per questo naturalizzato, è la premessa per rimuovere un ostacolo fondamentale a un’autentica conoscenza dei fondamenti della cultura occidentale, da una parte; dall’altra, spiana il percorso di costruzione di un pensiero, di un linguaggio e di un codice simbolico nuovi, che si pongono criticamente rispetto ai condizionamenti della visione del mondo patriarcale, in particolare per le donne. La filosofa Lea Melandri lo ricorda limpidamente:

L’interiorizzazione della visione maschile del mondo è la «violenza invisibile» che esilia le donne da se stesse e, nello stesso tempo, dall’immagine di sé creata dall’altro sesso.[9]

[9] Lea Melandri, Alfabeto d’origine, Neri Pozza, ebook, 2017, p. 1665/2557 passim; Eadem, L’infamia originaria, Roma, Manifesto libri, 2018, pp. 111-112. Cfr. anche Sexe, race, classe. Pour une épistémologie de la domination, a cura di Elsa Dorlin, Paris, Presse universitaire de France, 2009.