DANTE, L'AMORE E LA GUERRA
di Marco Grimaldi
[A proposito di: Filippo La Porta, Come un raggio nell’acqua. Dante e la relazione con l’altro, Roma, Salerno Editrice, 2021].
1. Nel settembre del 1920, il Ministro della Pubblica Istruzione Benedetto Croce inaugura a Ravenna le celebrazioni per il sesto centenario della morte di Dante. Croce spiega che è difficile ricondurre Dante al presente e che non tutte le interpretazioni sono legittime; distingue tra un culto esterno fatto di monumenti, edifici, studi, edizioni critiche e un culto interno che si stabilisce «sulla relazione vera e salutare dei nostri spiriti con lo spirito di lui». E parla di un Dante simbolo e ideale che si oppone al Dante poeta, poiché è convinto che: «Nella sua realtà Dante non può rispecchiare gl’ideali dei nostri tempi, nostri appunto perché egli fu d’altri tempi ed ebbe i suoi proprii ideali». Ma il discorso è denso di contraddizioni. Per caratterizzare la Commedia e per separarla dalla letteratura medievale, Croce sceglie infatti un aspetto del quale il suo pubblico non può non avvertire l’attualità. Nel 1920 la Prima Guerra Mondiale non è ancora storia, è memoria quotidiana; la realtà politica e sociale è sempre più violenta e le elezioni del 1921 saranno le più sanguinose della storia d’Italia (“infernali”, le avrebbe definite Pietro Nenni). Ed è dunque significativo che Croce parli proprio della rappresentazione della guerra: «Non c’è più in Dante, il medio evo, il crudo medio evo […]: ché mai forse niun altro gran poema è, come quello di Dante, privo di passione per la guerra in quanto guerra, delle commozioni che accompagnano la lotta militare, il rischio, lo sforzo, il trionfo, l’avventura. L’epopea medievale appena vi romba da lontano». Questa idea è giusta sul piano letterario. È vero, infatti, che la Commedia, a differenza dell’epica medievale, non parla sempre e solo di guerra. Ma è falsa sul piano delle idee, perché Dante – che non era un pacifista – non esita per esempio a predicare in maniera del tutto esplicita, nelle epistole, la necessità della guerra contro le città che si oppongono all’Imperatore e a lodare, nella Commedia, la crociata e il crociato Cacciaguida. Ma sono partito da queste parole perché qui si può leggere il dramma dell’intellettuale che si accorge che la realtà fa irruzione nel suo sistema di pensiero. Croce non può ignorare che l’ardore guerresco e la feroce ascesi del Medioevo appartengono ancora alla sua età, all’Italia del 1920. E che la nuova Italia è in realtà una cruda Italia. In Croce è insomma evidente l’oscillazione perenne dei lettori dei classici. Nel momento stesso in cui li facciamo nostri, credendo di ritrovare in quei libri – come Petrarca che legge Agostino – «la storia del nostro peregrinare», dobbiamo allontanarli da noi per non tradirli e non illuderci che possano «rispecchiare gl’ideali dei nostri tempi».
2. Il libro di Filippo La Porta (Come un raggio nell’acqua. Dante e la relazione con l’altro, Roma, Salerno Editrice, 2021), che porta avanti una riflessione avviata in Il bene e gli altri. Dante e un’etica per il terzo millennio (Milano, Bompiani, 2018), non parla del Dante poeta, per dirla con Benedetto Croce. Parla del Dante simbolo, del Dante ideale, del Dante mito, di quel Dante che non possiamo non rendere nostro contemporaneo. La Porta spiega subito che con i classici «bisognerebbe sfuggire a due opposte tentazioni: attualizzarli forzosamente, trasformandoli in icone pop decorative, o congelarli in una bacheca museale, condannandoli a un venerabile silenzio» (p. 9). Dante è prezioso proprio in quanto distante e inafferrabile. Eppure, i classici «premono sul nostro presente con le loro mute domande, chiedono di essere tradotti […]» e di non essere consegnati ai soli specialisti. Ed è quindi legittimo accostarsi «a qualsiasi libro, di qualsiasi autore ed epoca storica, fuori e dentro il canone, come se fosse stato scritto per noi» (p. 10). E infatti La Porta non intende fare “critica dantesca”, «ma suggerire un uso etico-filosofico dell’opera di Dante riversandola […] nella nostra contemporaneità». A partire da una definizione di bene e male di Simone Weil, secondo cui il bene è ciò che dà realtà agli altri e il male ciò che gliela toglie, La Porta indaga «la questione della relazione con l’altro, intesa come base della polis, di ogni convivenza» (p. 10). Per farlo utilizza l’immagine del raggio di luce che penetra nell’acqua senza turbarla, che ritorna più volte nel poema, assumendola quale paradigma «di una relazione con l’altro che ci permetta di entrare financo nella sua intimità però senza violarla, e come modello di una conoscenza fatta di attenzione e passività ricettiva» (p. 12). Di questa idea, dopo un primo capitolo di Ouverture, La Porta segue le tracce nel Paradiso (cap. 2: Paradise now) e poi nel pensiero femminile del Novecento (cap. 3: Dantisti (quasi) involontari), confrontandosi con Edith Stein, Maria Zambrano ed Hannah Arendt, oltre che con l’«intruso» – maschio – Emmanuel Levinas. La lettura è ricca e stimolante perché La Porta non ricorre solo agli studi specialistici (sempre opportunamente e ampiamente citati), ma a un vasto campionario di scrittori, poeti, filosofi: Adorno, Woody Allen, Walter Benjamin, John Berger, Norberto Bobbio, Martin Buber, Judith Butler, Albert Camus, Aldo Capitini, Augusto Del Noce, Michel Foucault e moltissimi altri.
3. La Porta rilegge Dante da un presente in cui, a suo giudizio, ogni impegno civile «deve necessariamente partire da un impegno personale, capace di testimoniare già ora una polis diversa, di prefigurare cioè un mondo non più fondato sulla forza» (p. 13). L’etica incontra allora la politica, e impegno significa «assumere l’altro come inappropriabile, inassimilabile», in una «relazione fatta di attenzione e rispetto, prima cellula di qualsiasi auspicabile comunità». La Porta ritrova in Dante «una costante preoccupazione a non “fare oltraggio”» al prossimo, come quando di fronte agli invidiosi, nel Purgatorio, «decide di abbassare lo sguardo per non godere di un privilegio e per non metterli in uno stato di inferiorità» (p. 14). È un’etica del rispetto dell’integrità dell’altro che «convive evidentemente con i momenti di collera e furia del viator, con il rabbioso disprezzo con cui spesso si rivolge alle anime dei dannati», come con Filippo Argenti. E soprattutto «confligge con la sua vocazione politica a intervenire continuamente sulla realtà, a correggere e modificare gli altri, e con il suo spirito “militante”, con il proposito di difendere la cristianità con il sermone e con la spada» (p. 15). Al piano etico e politico è connesso quello conoscitivo. Nella Commedia sarebbe infatti possibile ritrovare un paradigma per il quale «la conoscenza si configura non tanto come esplorazione […] quanto come capacità di attenzione e attesa, come passività vigile, come aspettare che la verità delle cose […] ci raggiunga, come un abbandono alla realtà stessa» (p. 30). Ed è vero che per Dante la conoscenza delle cose divine concessa al personaggio della Commedia dipende dalla grazia ed è quindi un dono, non una conquista. Ciò che è permesso a Dante, insomma, è vietato a Ulisse. Potremmo allora, come propone La Porta, tradurre in termini laici questa idea di conoscenza: «la cognizione del limite potrebbe significare soltanto riconoscere che la realtà non è totalmente manipolabile e in nostro potere, che una regione dimentica dei propri fini si converte in mito, che la verità delle cose non si schiude sempre esattamente quando vogliamo noi, che si comanda alla natura obbedendole, come pure è stato detto agli albori della modernità e della rivoluzione scientifica» (p. 33). Ma è altrettanto vero che quel dono per Dante non è immanente, non dipende dalle cose o dalla natura; è un dono trascendente. Per restare più fedeli a Dante e nello stesso tempo fare un uso etico-filosofico della sua opera dovremmo forse aderire a un’idea dei rapporti tra uomo e natura come quella descritta nell’enciclica di Francesco Laudato sì, che ha però il difetto – per me agnostico – di non essere traducibile in termini laici. Sono queste le contraddizioni che attraversano il libro e che La Porta, brillantemente, lascia visibili.
4. Il libro, pieno di divagazioni e di approfondimenti (su Dante e Kubrick; su Dante uomo “del Sud” nel pensiero di Romano Guardini; su Husserl; sulla French Theory e via dicendo), è breve e intenso, ed è difficile dare conto di tutti gli spunti di riflessione e di tutte le intuizioni. Per mostrare in che modo viene svolta la tesi centrale scelgo quindi un solo esempio. Nelle belle pagine dedicate a Maria Zambrano, La Porta mette in luce nell’opera della filosofa spagnola un’idea di conoscenza come «lasciar alle cose il tempo e il modo di manifestarsi nel loro essere proprio», di «lasciare che l’altro venga alla presenza da sé», accompagnata dalla rinuncia all’intenzione, alla volontà e alla violenza in nome della meraviglia che «non vuole nulla» e a cui è del tutto estraneo il volere. La Porta nota quindi che Dante cerca sì la salvezza e la felicità della vita eterna, ma che «nella vertiginosa ascesa paradisiaca viene come sospinto verso l’alto, senza sforzo, mentre lo investe la pioggia di luce (che subisce “passivamente”)» (pp. 96-97). Poiché la passività, per Zambrano, è «cosa che accade per amore», capacità di ricevere e di abbandonarsi, ne deriva un possibile uso etico-filosofico: «Se i filosofi finora hanno interpretato il mondo adesso non tanto dovrebbero cambiarlo (l’idea che lo cambiamo noi è peraltro un’altra illusione) quanto impegnarsi ad ascoltarlo» (p. 97), a riceverlo passivamente come Dante in Paradiso. Ora, questa idea di passività e di ascolto del mondo è realmente seducente e molti di noi, oggi, vorrebbero farla propria. E molti di noi sarebbero disposti ad ammettere che Dante, come tutti i grandi poeti, ha senz’altro saputo ascoltare il mondo e tradurlo in versi. Tuttavia, a differenza dei poeti contemporanei, che vogliono cantare il mondo senza trasformarlo (basti pensare a Bob Dylan, che si ritiene un «uomo senza messaggio» che vuole solo «cantare quello che pensa»), Dante è un uomo con un messaggio, e quel messaggio intende trasformare gli uomini e renderli migliori e quindi, in un certo senso, violare la loro alterità.
5. Il libro parla anche del modo in cui si legge e si interpreta Dante. E alla fine del primo capitolo La Porta rivendica a buon diritto le ragioni di una lettura non specialistica dei classici e della Commedia in particolare: «Nel pluralismo conflittuale delle interpretazioni l’ultima parola non spetta ai filologi e agli studiosi – che pure devono compiere il proprio dovere –, ai professori universitari e agli “scienziati” della letteratura, ma al lettore, al lettore capace di far interagire quei versi con la propria esperienza morale. Proprio perché nulla è al riparo, siamo noi, in ultima istanza, che dobbiamo ogni giorno rileggere e inverare i versi danteschi nella nostra concreta esperienza, e così “interpretarli”, adempierli, tradurli in un agire e in una postura» (p. 38). Sono affermazioni difficilmente contestabili e quasi del tutto condivisibili. Si potrebbe obiettare forse solo che l’ultima parola, in fatto di interpretazioni, non spetta né ai filologi, né agli studiosi, né ai lettori. L’ultima parola, oggi, spetta al mercato. Ma d’altronde c’è chi ha parlato di una “filologia del lettore” per intendere appunto una lettura critica dei testi che tenga sempre conto del lettore, della sua storicità e delle sue esigenze. Eppure, io – che insegno filologia italiana – non credo che tutte le interpretazioni siano buone. Dante, con i suoi personaggi, le sue parole e le sue storie, è ormai diventato mito. In quanto tale viene riscritto e interpretato in molte forme ed è un bene che sia così – finché dura. Ma il compito dei filologi e degli studiosi è di porre dei limiti alle interpretazioni. Non per censurarle o per ridurre il conflitto, ma per consentire alle interpretazioni buone (che sono poche e spesso più difficili) di farsi strada nella rete delle interpretazioni cattive (che sono molte e spesso più facili). Sotto la pressione del presente, nella selva sempre più fitta – e sempre più interessante – dei prodotti culturali contemporanei, l’interpretazione dei classici dovrebbe restare il più possibile legata al testo.
In fondo ci troviamo ancora chiusi nella contraddizione di Benedetto Croce. C’è la realtà del presente, che preme e che ci spinge a interpretare Dante con categorie moderne e a trasformarlo in simbolo e ideale – in questo senso, il Dante contro la guerra di Croce è un perfetto equivalente del Dante della “passività ricettiva” di La Porta. Ma c’è poi la realtà del testo che resiste alle attualizzazioni. Poiché Dante non è un pacifista, poiché la Commedia è fondata sulla nozione di peccato e sulla certezza che nell’aldilà esista un rigido sistema di premi e di pene. Per Dante non c’è un solo e unico “altro”: c’è l’altro che pecca e va all’inferno e c’è l’altro destinato al Paradiso. Le contraddizioni di Dante che a noi paiono irrisolvibili sono quelle del pensiero cristiano: un concetto di grandezza irriducibilmente premoderno, che si traduce nella lode della Vergine Maria «umile e alta più che creatura»; un Dio creatore onnipotente così pieno di amore per le sue creature al punto da renderle libere di allontanarsi per l’eternità.
6. Un’ultima riflessione sul canone dei pensatori, che non riesco a condividere in pieno e che forse poteva essere più vasto. Io, infatti, se dovessi indicare un filosofo del Novecento per parlare di Dante sceglierei il colombiano Nicolás Gómez Dávila, che ha scritto tra l’altro: «Essere cristiani è trovarsi di fronte a colui cui non possiamo nasconderci, di fronte a cui non possiamo mascherarci. È assumersi il peso di dire la verità, anche quando offende». E ancora: «Amare è comprendere la ragione che Dio aveva per creare quel che amiamo» (da In margine a un testo implicito). A partire da questi aforismi si può spiegare ad esempio perché Dante avverte tanto fortemente l’imperativo morale di dire la verità. O perché Beatrice abbia un posto centrale in Paradiso. Anche un pensatore maschio, cattolico e reazionario può dirci molte cose utili su Dante. Certo, sarebbe più difficile riversare queste idee nella nostra contemporaneità e fare quindi un uso etico-filosofico dell’opera di Dante. Ma non sarebbe un uso meno legittimo.
articolo ripreso da http://www.leparoleelecose.it/?p=41979&
Nessun commento:
Posta un commento