12 luglio 2021

SIAMO TUTTI FANTOZZI



JE SUIS FANTOZZI: PERCHÉ OGGI SIAMO TUTTI FANTOZZI SENZA RENDERCENE CONTO

di Nicola Cucchi

Il 3 luglio scorso ricorrevano i quattro anni dalla morte di Paolo Villaggio, inventore e interprete di una straordinaria maschera ribelle: il ragionier Ugo Fantozzi. Nell’immaginario collettivo italiano la maschera di Fantozzi rappresenta alla perfezione il ruolo dello sfruttato: ma fa riferimento a un passato lontano o a una condizione che ci riguarda molto da vicino? Siamo sicuri di avere capito il significato che quei film avevano per gli spettatori di allora? E qual è l’eredità di quelle storie per gli spettatori millenials di oggi?

Una “distopia incendiaria”: istantanee di sfruttamento e subalternità nella società italiana

Ugo Fantozzi è un personaggio drammatico, un simbolo di umiliazione che si fa inconsapevolmente portavoce di una critica sociale dura e radicale verso (i vertici di) una società piramidale, e verso gli stessi colleghi di lavoro che alimentano questo sistema, metafora grottesca di un mondo che fa di tutto per tentare la scalata.

I primi due film sulla storia di Fantozzi escono nel 1975-1976: “Fantozzi” e “Secondo tragico Fantozzi”. Il fatto che tutti ricordino scene già da questi primi lavori dimostra la capacità del regista di trovare espressioni dello sfruttamento estreme e realistiche allo stesso tempo, capaci di entrare profondamente nel senso comune, e di scuoterlo alla radice.

Fantozzi innanzitutto, pur essendo vicino alla base della piramide sociale, non è un operaio, è un impiegato e come tale interpreta perfettamente il desiderio piccolo-borghese del ceto medio impiegatizio di voler assomigliare a chi occupava i gradini superiori nella scala sociale. Questo desiderio nel suo caso viene ripetutamente negato dai superiori e dai colleghi, che dimostrano una capacità di adattamento molto migliore della sua. Nonostante questa ripetuta mancanza di soddisfazione, non è indotto quasi mai a ribellarsi a un sistema che lo opprime, ma soffre in silenzio, tenta e ritenta di uscire da una condizione di reietto in cui fatalmente ricade.

I film sono dunque una serie quasi ripetitiva di umiliazioni subite senza risposta, di un perenne senso d’inadeguatezza verso i modelli di riferimento a cui comunque vuole soggiacere.

Un esempio perfetto è la sveglia: il tentativo di riguadagnare tempo dal lavoro viene fatto a rischio della vita

 

La subalternità viene imposta innanzitutto nei momenti di festa: in questa scena i nobili proprietari dell’azienda invitano tutti gli impiegati a cena per imbonirli “in vista dei prossimi accordi sindacali”. Tuttavia queste occasioni restano comunque umilianti nella misura in cui aumentano il senso d’inadeguatezza verso la dirigenza chiaramente aristocratica.

E chiudiamo con una scena madre. Non riuscendo ad inserirsi nei canali di ascesa sociale non gli resta che tornare al primordiale godimento generato dal tifo calcistico. Purtroppo il suo formidabile programma di evasione viene castrato da un direttore del personale, che vuole imporre la sua cultura d’autore alle masse ignoranti. La scena in cui la moglie lo interrompe è comicamente drammatica: “Ugo, credo che non potrai vedere la tua partita. Ha chiamato il Dott. Riccardelli: dobbiamo andare a vedere un film cecoslovacco!”

 

Nel primo film della saga fantozziana, viene anche messa in scena l’improvvisa politicizzazione del personaggio, che, messo a contatto con un altro reietto dell’azienda di idee comuniste, comprende la condizione di ingiustizia strutturale in cui lui e gli altri colleghi versavano. Tuttavia l’incontro diretto con la figura mitica del “direttore galattico” lo riconduce abilmente a miti consigli: “Caro Fantozzi è solo questione di intendersi, di terminologia. Lei dice ‘padroni’, e io ‘datori di lavoro’. Lei dice ‘sfruttatori’ e io dico ‘benestanti’. Lei dice ‘morti di fame’ e io ‘classe meno abbiente’. Ma per il resto io la penso esattamente come lei…”

 

Fantozzi è da un lato una critica limpida all’arroganza della burocrazia fordista e dall’altro dimostra in modo semplice e implacabile l’evidenza della subalternità culturale dello sfruttato, la sua partecipazione attiva alle occasioni di umiliazione, vista l’assenza di alternative. Lo sfruttato non può reagire perché ha introiettato in pieno i sogni e gli ideali che lo sfruttatore gli mette a disposizione. Fantozzi è un desiderio eterodiretto e masochista, non riesce a far altro che sognare esperienze che lo faranno soffrire, vedendo riprodursi i suoi fallimenti.

Eppure per comprendere il significato di un racconto del genere dobbiamo tenere presente la fase storica in cui veniva diffuso. Parliamo di un’epoca – gli anni Settanta – che viveva di una fortissima conflittualità sociale, orientata secondo i protagonisti di questo processo a costruire una realtà più giusta, più civile, più inclusiva. Dunque i film di Fantozzi calati in quella realtà mettono a disposizione una sorta di “enciclopedia dello sfruttamento e della subalternità” portata all’eccesso e dunque entrata a pieno titolo nel senso comune anche grazie alla fortissima cifra comica.

Tutti insomma consideravano lo sfruttamento verso Fantozzi inaccettabile, nessuno si sarebbe mai “identificato positivamente” con quell’immagine, ma quella storia poteva fungere da strumento di consapevolezza e da spinta verso la liberazione. Un incentivo a prendere definitivamente le distanze da una gerarchia opprimente, e soprattutto da una corsa alla carriera che creava figure mostruose, vedi i colleghi. In generale si denunciava la condizione disumanizzata in cui lo sviluppo capitalistico stava lasciando una buona parte della società[1].

“Fantozzi subisce ancora”? perché Fantozzi siamo noi e non ce ne rendiamo più conto

Dunque Fantozzi, se calato in quegli anni di duro conflitto sociale, rappresentava una miccia incendiaria in grado di contribuire a spingere tanti (che non si erano organizzati o che stavano per farlo) a lottare per ottenere condizioni migliori di lavoro e di vita.

Ma tutto questo i millenials (nati dagli anni Ottanta in poi) non lo possono sapere. Per gli “spettatori postumi”, a mio avviso, la chiave comica perde molta della carica distruttiva anti-sistema, per lasciarci ridere pacificamente di fronte alla serie di sfighe (o alle “sfighe serie”) che Fantozzi subisce. A un occhio disattento le sue umiliazioni sembrano estreme e incomprensibili, ma purtroppo, senza rendercene conto, stiamo assomigliando sempre di più a quella figura estrema. E questo colpisce se pensiamo al livello di consapevolezza diffusa che solo pochi decenni fa la società aveva.

Vedere tanti amici/conoscenti che prima delle partite rivendicavano il loro fantozziano “programma formidabile” con “frittatone di cipolle, familiare di Peroni gelata e rutto libero” mi porta a pensare che ciò che nel 1975 appariva come critica incendiaria, oggi, totalmente decontestualizzato, diventa un’occasione per condividere la “dipendenza dal pallone”. Mentre in quel caso la comicità era lo strumento per scardinare dei meccanismi storicamente sedimentati di obbedienza passiva all’ordine costituito, oggi diventa solo un’occasione di distrazione, un modo per rimuovere l’esistenza delle realtà di sfruttamento.

Il nostro senso comune postdemocratico, guidato dalla paura di perdere i vantaggi ottenuti e dal perseguimento di piccoli obiettivi individuali, ci porta a naturalizzare la sproporzione nelle relazioni di potere per cui si fa fatica ad ammettere una condizione di sfruttamento.

L’incapacità di “soffrire con Fantozzi”, di capire che è uno di noi, non fa altro che rivelare la condizione diffusa di una generazione che accetta (quasi) tutto pur di sopravvivere in un universo che svaluta completamente la sua dignità. Siamo arrivati infatti ad un livello di subalternità e di partecipazione al nostro stesso sfruttamento che non ci consente più nemmeno di immaginare un’alternativa, di sognare una vita migliore, più giusta. Tutto quello che solo pochi decenni fa sarebbe sembrato estremo e inaccettabile a molti, oggi è realtà quotidiana indiscutibile, naturale.

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[1] Qui una presa di posizione pubblica di Paolo Villaggio candidandosi alle elezioni del 1987 con “Democrazia Proletaria”. Sebbene in sé dica poco sul significato della maschera di Fantozzi, è comunque un’ulteriore dimostrazione della forte passione politica dell’autore/attore, che arriva ad esporsi pubblicamente.

Articolo ripreso da:  https://www.minimaetmoralia.it/wp/cinema/je-suis-fantozzi-perche-oggi-siamo-tutti-fantozzi-senza-rendercene-conto/


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