La rivoluzione della cura. La politica lo capirà?
Lea MelandriIl Covid-19, lo sappiamo, ha svelato i disastri annunciati dei molti “mondi senza cura”, ma ha anche mostrato alcuni indizi di quello che potrebbe essere un mondo di mutuo soccorso, come ricorda il Manifesto della cura, scritto dal gruppo londinese Care Collective. Ma sappiamo anche che la cura ha a che fare con la fragilità e spesso con la sofferenza dei corpi: la pandemia, osservano le firmatarie dell’Appello della Magnolia – promosso dalla Casa Internazionale delle Donne di Roma – ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità. Una nuova cultura politica non può nascere senza fare i conti con tutto questo
«La nostra società è stata abbandonata all’incuria. La pandemia l’ha scoperta e aggravata. Per questo noi vogliamo cambiare il punto di vista con cui si guarda il mondo. Vogliamo una società e delle comunità che non sfruttano, non estraggono ricchezza dagli altri e dal pianeta, ma se ne prendono cura, lo custodiscono. Una società dei beni comuni. Noi vogliamo avviare la “rivoluzione della cura” (…) che per noi significa una nuova idea di politica e di giustizia basata sull’interdipendenza e sulla relazione per ridisegnare un nuovo modo di stare al mondo». È quello che si legge nell’Appello dell’Assemblea della Magnolia – Casa Internazionale delle Donne di Roma -, uscito ai primi di luglio, con l’idea di promuovere un percorso di confronto da concludere con una manifestazione a Roma il 25 settembre: “Le donne in piazza. Quale ripresa? La rivoluzione della cura è tutta un’altra storia”.
Che il Covid-19 abbia portato all’evidenza i disastri annunciati di “mondi senza cura” – crisi climatica, rifugiati lasciati morire nel Mediterraneo, omicidi di donne e uomini neri negli Stati Uniti, migliaia di femminicidi, mercificazione privatizzazione di bisogni essenziali, come la salute e l’istruzione, ascesa di regimi totalitari, razzismo, xenofobia, ecc. – e al medesimo tempo “ci abbia dato effimeri indizi di quello che potrebbe essere un mondo migliore”, è anche l’analisi che sta alla base del Manifesto della cura, scritto a più mani dal gruppo londinese Care Collective e tradotto in Italia quest’anno da Marie Moise e Gaia Benzi. “La consapevolezza della nostra dipendenza e interdipendenza dagli altri è il primo passo per rimettere la cura al centro dell’agenda politica e sociale”. Si tratta senza dubbio di un grande cambiamento, che non si limita a mettere in discussione le politiche liberiste, ma l’eredità millenaria di una cultura patriarcale che ha associato e perciò svalutato la cura come “naturale” predisposizione delle donne, in quanto madri, considerato la fragilità e la debolezza dei corpi come “poco virili”, e relegate perciò all’ambito familiare.
La pandemia sembra avere paradossalmente chiuso le porte di casa, costretto le donne a portare al suo interno il peso di un doppio lavoro, prestazioni di assistenza a bambini e anziani, ma di averle, allo stesso tempo, spalancate a prospettive che potrebbero sembrare avveniristiche, se non avessero il supporto di consapevolezze nuove e di percorsi innovativi riguardanti la famiglia, le comunità, gli Stati, il mondo. Al centro, l’assunto di fondo “che siamo tutti responsabili, insieme, del lavoro di cura (…) sia a livello quotidiano, sia nella sua accezione di sostegno necessario per la tutela della comunità e del mondo intero”. Se la famiglia tradizionale rappresenta ancora il prototipo della relazione di cura, le nuove forme di intimità che stanno nascendo, “al di là di quelle autorizzate dall’eteronormatività”, lasciano pensare che la figura della persona “amica” “potrebbe sostituire “la madre” come modello di cura. Del resto non sono mancate, fin dagli anni Settanta, forme alternative di accudimento riguardanti bambini e anziani, e, nel corso della pandemia, gruppi di mutuo soccorso che hanno rischiato di infettarsi per consegnare medicine e beni essenziali a persone in stato di fragilità e isolamento.
Per dar vita a comunità o mondi di cura è necessario innanzi tutto riconoscere che la dipendenza, finora patologizzata, è “parte integrante della condizione umana”, che paradossalmente sono i più ricchi a aver bisogno di persone pagate per soddisfare le loro esigenze personali, anche se questa dipendenza resta nell’ombra, negata dal fatto che possono dare ordini, licenziare o sostituire. Ma è altrettanto importante che siano gli Stati a farsi carico delle risorse materiali e immateriali indispensabili, a garantire le infrastrutture sociali che rispondano ai bisogni primari: salute, ambiente, democrazia partecipativa a ogni livello. A mancare finora non sono le esperienze che hanno tentato di spostare la cura fuori dai legami di parentela, ma il riconoscimento e il sostegno a queste forme “universali” “promiscue” di socializzazione dei servizi e di difesa dei beni comuni, da parte delle istituzioni.
Se serve il “mutuo soccorso”, altrettanto essenziale è la possibilità di avere “spazi pubblici”, che favoriscono la vita in comune, affitti calmierati, case, alloggi, scuole, asili, parchi, centri sociali, case di riposo gestite sulla base di una logica che non sia di profitto. Sappiamo quanto l’incuria degli Stati, sotto questo aspetto, sia dominante, lontana dalla prospettiva di una visione, come quella del Manifesto della cura, che vuole essere “femminista, queer, antirazzista ed ecosocialista”, incentivare modalità di proprietà più democratiche, socializzate ed egualitarie come le cooperative, dar vita a nuove istituzioni transnazionali e lavori green.
Ma gli ostacoli al cambiamento purtroppo non sono solo quelli che vengono dall’esterno, da un sistema neoliberista che sta investendo con logiche di mercato tutti i bisogni e le manifestazioni dell’umano, mettendo “al lavoro la vita” (Cristina Morini). All’“ambivalenza della cura” sono dedicate alcune delle pagine più interessanti del Manifesto. La parola “care” significa anche preoccupazione, ansia, angoscia: entrare in rapporto diretto con la fragilità, con la sofferenza dei corpi, aspetti repellenti e imbarazzanti della malattia, può produrre rigetto, intolleranza in chi se ne deve occupare. “Anche per questo –si legge – il lavoro di cura è la dimensione a cui sono state relegate le donne, la servitù e altri soggetti considerati inferiori (…) Il razzismo si è combinato con le disuguaglianze di genere”.
La pandemia, osservano le firmatarie dell’Appello della Magnolia, ha rovesciato sulle donne il peso di tutte le fragilità: “Oggi le donne, soprattutto straniere, sono più povere, più precarie (…) impiegate prevalentemente nei servizi, nell’assistenza, nel commercio, hanno dovuto restare a lavorare in presenza, a prendere i mezzi pubblici, per consentire agli altri di rispettare il lockdown”. Mi chiedo se basterà questo a muoverle verso le piazze per esprimere il loro dissenso, la loro ribellione a un destino che ha assegnato loro ambiguamente, contraddittoriamente, un potere di indispensabilità e, al medesimo tempo, di sottomissione al mondo che porta ancora oggi il segno di una comunità storica di uomini, patriarcale e liberista?
Pubblicato su il Riformista del 21 luglio 2021 e qui con il consenso dell’autrice. Altri articoli di Lea Melandri nell’archivio di Comune sono leggibili QUI
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