RITRATTO DI CRISTINA CAMPO
Dei mesi trascorsi a Roma, tra cene con filologi e ambasciatori, tentativi per ottenere un incarico da studioso presso la Curia e il disprezzo per la frivolezza bestiale delle donne, Leopardi ricordava con commozione il pellegrinaggio privato che aveva tributato alla tomba di Torquato Tasso, a S. Onofrio sul Gianicolo. Questo è il primo e l’unico piacere che ho provato in Roma. La strada per andarvi è lunga, e non si va a quel luogo se non per vedere questo sepolcro;- ma non si potrebbe anche venire dall’America per gustare il piacere delle lagrime lo spazio di due minuti? E’ pur certissimo che le immense spese che qui vedo fare non per altro che per proccurarsi uno o un altro piacere, sono tutte quante gettate all’aria, perché in luogo del piacere non s’ottiene altro che noia. Molti provano un sentimento d’indignazione vedendo il cenere del Tasso, coperto e indicato non da altro che da una pietra larga e lunga circa un palmo e mezzo, e posta in un cantoncino d’una chiesuccia. Io non vorrei in nessun modo trovar questo cenere sotto un mausoleo. Tu comprendi la gran folla di affetti che nasce dal considerare il contrasto fra la grandezza del Tasso e l’umiltà della sua sepoltura.
Quella pietra racconta la sofferenza di chi visse al confine tra due mondi interiori e barcollò fino all’ultima soglia mentre entrambi gli bruciavano sotto il cappotto, un animo che sognava la luce limpida d’un ideale che già si riteneva lontano nel tempo perché tutto ciò che pareva confermarlo andava in pezzi, un’eredità spirituale che come tutte le tradizioni in fondo è sempre inventata. Lo sguardo di un ragazzo che era cresciuto leggendo di crociati, eremiti e re e sognava un’impresa cui sacrificare la vita e l’arte, un grande arazzo che abbracciasse in armonia complessa l’intera architettura del mondo e il cammino dell’uomo, un mondo di cavalli lanciati al galoppo, eserciti in marcia che sollevano nubi di polvere in cui sfavillano le cotte e le corazze, e spade che sono croci e che avvampano a ricacciare tutti i demoni negli anfratti ombrosi della notte, un canto di dedizione pura, dove le mani giunte del devoto in preghiera sono note fin nell’Invisibile Trono circonfuso dalle schiere degli angeli.
Ma quel mondo conosceva anche la fitta all’inguine per la curva di un seno scorto sotto la camicia sottile, sapeva scovare un intero universo nella piega rossa di un labbro, verso cui la schiena si inarca e non c’è impresa o sacrificio che forse valga a compensare il fremito di un morso qui, sul collo, mentre sopra le teste frusciano gli alberi verdi nel primo pomeriggio d’estate, una fame e lo struggimento per un riposo in cui il corpo nega ciò che lo spirito afferma e lo spirito stesso dubita e vacilla e dispera, perché il sangue ha una canzone tutta sua. Due braccia ti stringono, e poi semplicemente chiudere gli occhi. Senti battere un cuore che non è il tuo, e quella pulsazione ti parifica con le cose, rende possibile anche invecchiare e morire. L’aspirazione a trasformare Angelica in Beatrice, e la paura che ciò significhi semplicemente ucciderla. Mi lascio quella tomba alle spalle, esco sotto gli alberi, siedo a una panchina, guardo Roma tutta intorno, il mondo mutabile e leggero, così terribile, così bello.
A volte compaiono spiriti…che evocano ancora una fase trascorsa dell’umanità, scriveva Nietzsche. C’è un altro luogo che per me documenta un dramma e una lotta non dissimile. Si tratta del Russicum, l’Istituto Pontificio di Scienze Orientali presso il quale, nella chiesa di Sant’Antonio Abbate si svolgono anche le celebrazioni secondo il rito bizantino. Quando scendo a Roma ci passeggio spesso intorno, a fumare. Siedo sulle scale, mi appoggio a un muro. Non entro, pure qui a interessarmi èil contrasto tra il portone d’ingresso e i semafori e il traffico serale, le luci dei negozietti di pakistani e cinesi.La soglia.
Qui veniva Cristina Campo, per assistere alla liturgia orientale, negli stessi anni in cui lottava contro le modernizzazioni del rito latino.
Al pari di S. Onofrio, anche questo per me è un luogo tragico. Ha visto svilupparsi e tuttora racconta, mormorando piano, un moto spirituale ed artistico che, in parte, descrive la medesima traiettoria dell’altro sepolcro, più antico, dalla disgregazione vorticosa della modernità all’anelito per una vasta, ordinata sinfonia di senso. E forse è superfluo esplicitare che la forza che stringe la gola in entrambe queste vicende fu che entrambi i protagonisti–l’uomo del ‘500 e la donna del ‘900– non riuscirono a conservare ciò che non volevano perdere, sotto i colpi delle burrasche che infuriavano tanto fuori che dentro di loro.
Guardo la sigaretta quasi finita, succhio ancora fino al filtro. Un ragazzo passa su un motorino e una ragazza alle sue spalle gli tiene una brioche davanti alla bocca.
È proprio a due immagini della letteratura russa – che Cristina Campo conosceva e amava tanto– che penso quando cerco di descriverla. Anche qui, si tratta di un contrasto. La prima è uno dei tanti passaggi in cui Dostoevskij descriva la cupa bruciante passione di Rogožin per Natasha Filippovna, un amore che lo fa scappare via e tornare a casa con tutte le luci spente, a fremere nel buio. Ci sono arrivato con la febbre; là le vecchiette si sono messe a recitarmi i loro santi, ma ormai ero ubriaco e poi me ne sono andato per bettole a spendere gli ultimi soldi, e ho passato la notte per strada privo di conoscenza, la mattina poi deliravo, infatti di notte m’avevano pure morso dei cani. L’altro sono i pensieri di Zivago a sua volta febbricitante, che nel delirio intravede appena un giovane che sembra aiutarlo a comporre. È chiaro, quel ragazzo è lo spirito della sua morte o, più semplicemente, la sua morte. Ma come può essere la sua morte se lo aiuta a scrivere una poesia? Si può forse trarre qualche vantaggio dalla morte, può forse la morte essere d’aiuto? La vita e la scrittura della poetessa e traduttrice bruciavano entrambi di questo fuoco divorante che pareva imitare le privazioni ascetiche degli eremiti e al tempo stesso invocavano e cercavano gli angoli aguzzi e le linee rigide di una morte che sola pare in grado di convogliare e conservare la potenza della vita. Questa fiamma e questo rigore le affilavano lineamenti, gesti e parole, quegli zigomi e quelle labbra sottili, l’enigma di quel sorriso antico, leonardesco, la luce di occhi che ricordavano quanto scriveva–in un passaggio che lei stessa aveva notato– Henry James sui palazzi della Firenze della sua giovinezza, in Via Capponi o dell’Oriuolo: le finestre dalle nobili proporzioni, estremamente architettoniche, la cui funzione parevano non tanto di offrire comunicazione col mondo quanto di sfidare il mondo a guardare dentro, sbarrate da inferriate massicce e poste a tale altezza che la curiosità, anche in punta di piedi, spirava prima di averle raggiunte. Le acque scure di un pozzo su cui baluginava anche una grazia civettuola – Addio, mio caro. Mi scriva tutto di tutto. Mita mi dice che ha la barba – che idea meravigliosa. Da tanti anni non ho un amico con la barba – è così propizia una barba, a sé e agli altri, lo sapeva? Aveva sempre la febbre, fisico e spirito erano consumati da affanni e tormenti che traboccavano gli uni negli altri: Scrivo a macchina queste cose perché mi fanno troppo male e le cose che scrivo a penna mi penetrano di più, e non bisogna farsi distruggere finché è possibile. Come ammise Mario Luzi, c’era qualcosa di lei nella protagonista del suo Ipazia, nella sua tensione senza cedimenti che poteva spezzarsi esausta ma non piegarsi mai, in quella eterna giovinezza dell’anima che si effondeva sui tratti stessi del viso e faceva tutt’uno coi colori purissimi in cui il mondo si staglia per occhi simili: Molte cose sono contro di noi, infatti./ Ma è nel fuoco che bisogna ardere./ Niente si addice alla parola come la temperatura del fuoco. Ciò si coglieva anche nella sua impazienza (Non mi interessa la gente che non capisce subito), nella sua insofferenza sprezzante per i compromessi. Bruciava e scottava. Nelle parole di una sua amica, riportate da Cristiana di Stefano, era difficile farle compagnia. Però aveva dentro una fiamma. Bastava toccare un argomento che le stava a cuore per vederla accendersi. La parola mistico viene da «muein» che vuol dire accennare. Il mistico è colui che fa intravedere ma non è mai esplicito. In questo senso Cristina era una mistica. Avevi l’impressione che dietro ci fosse qualcosa di enorme.
Se pativa uno scarto, una distanza, l’incomprensione d’una persona amata, reagiva addolorata anche solo per esplicitare tale delusione: Perdona, te ne prego, queste spiegazioni. Non avevo nessuna voglia di scrivere cose simili. Non sono – come scriveva Caterina a suo marito – la dama in carrozza chiusa e fitto velo sul viso, che ti gira intorno supplicandoti di salvare il suo onore. Io avevo solo chiesto una mano…aver desiderato, sia pure per un attimo, la tua mano, mi sembra ancora un segno di fedeltà–se non altro al mio passato e ame stessa. Ma basta adesso. Scusami, stai sereno. Lo strazio che la feriva nei rapporti più intimi e decisivi, intravisto dalle feritoie del suo controllo, si faceva esplicito disprezzo – tutto leopardiano – per le banalità intellettuali, le pose e le mode: Sembra incredibile che la gente possa prendersi tanto sul serio quando usa un linguaggio che è tutta una mascherata. Negli anni che vedevano esplodere la società dei consumi, lei vedeva già come questa infettava la vita e le opere degli artisti, insozzandole con la corsa al collocamento, la fame di etichette e riconoscimenti reciproci: la sigla nasce, lo slogan si appiccica saldamente allo scrittore e ai suoi prodotti insieme; ci pensano le testate dei rotocalchi a dare a ciascuno il suo posto negli scaffali del supermarket. Reagiva con insofferenza anche alle pedanterie pettegole che si illudevano di imbrigliare il mistero della vocazione poetica basandosi sulle orride rivelazioni del documento, questo servo dell’intuizione.
Tutta questa vibrazione vitale – l’impazienza dei veggenti e dei profeti, quella per cui Cristo si struggeva di portare il fuoco sulla Terra – accusava costantemente i limiti contro cui andava a sbattere, dentro e fuori di sé, e si può ben dire che cercasse di stanare la propria morte. Ogni esperienza autentica annunciava ciò che l’avrebbe frustrata, contraddetta, confinata: Moriremo lontani. Sarà molto/se poserò la guancia nel tuo palmo/a Capodanno; se nel mio la traccia/contemplerai di un’altra migrazione. Nelle brutture e banalità dell’Italia contemporanea, nell’avversione dell’autocompiaciuto mondo progressista per ciò che è difficile, elitario, ascetico, lei coglieva la paura dissimulata per la bellezza autentica, quella pressoché insostenibile di Beatrice che fustiga Dante per le sue infedeltà e lo fa svenire sulla sponda del Lete: E hanno ragione, perché accettarla è sempre accettare una morte, una fine del vecchio uomo e una difficile nuova vita. Era anche questo a farle cercare il rigore aristocratico della forma, a farle amare la geometrica gerarchia della tradizione (Dio ha pietà di noi perché ci lascia ancora qualche rito, su qualche vetta remota), l’addestramento costante d’uno stile delle parole e dei gesti perfetti. Per salvare un mondo, un orizzonte di senso e quanto esso contiene dallo sbriciolamento universale: un tempo ci insegnavano: il poeta…colui che nomina le cose come per la prima volta. Ora è colui che le nomina per l’ultima.
Era questa devozione senza confini a farle rispondere con disarmante sicurezza È bene avere ideali impossibili, o farle reggere Corrado Alvaro morente sussurrandogli che, da qualunque lato della morte fosse caduto, non avrebbe incontrato altro che amore. Ma questa è stata anche la sua tragedia. Perché tutto intorno a lei e così tanto dentro di lei attestava esattamente il contrario: il mondo andava in sfacelo, gli amori tradivano o semplicemente non reggevano, l’idiozia veniva incoronata e lodata, la bellezza braccata e processata, “l’orribile nodo” dell’angoscia e della depressione avvelenava le giornate e forse Dio non era semplicemente mai esistito. Nessun amore sull’altra sponda della morte, e qui solo compromessi, piccinerie, angosce. Musiche scambiate per dispetto sul giradischi, lunghe domeniche amare. Nel corso degli anni e delle lettere, nella conversione a un cattolicesimo sempre più austero e divorante, la si vede inoltrarsi in questo deserto, la si vede subire questa spoliazione continua di ogni antico conforto e sicurezza.
I giardini segreti sono soffocati dagli sterpi, riarsi dal sole e il vento che ghermiscono gli eremi. In tutto questo lei conservava l’acutezza e sensibilità di un tempo, la frecciata perfida e spavalda, il gusto della battuta elegante, c’è ancora spazio per gesti delicati, mani tenute strette attraverso lo spazio, entusiasmi, eppure il rigore di sempre adesso pare rivoltarsi contro se stesso, ed eccola rileggere con durezza anche quanto già amava, in una sorta di espiazione iconoclasta che non risparmia niente, mentre intorno monta il fragore e le ondate nere di un paesaggio in cui non si riconosce più: l’altra notte…decisi di concedermi, per puro amore della salute, il dono più straordinario: una serata esclusivamente letteraria, cioè la lettura di alcuni capitoli di Proust. Da sempre una beatitudine di perfezione quasi fisica, come nell’adolescenza fare in gran segreto un bagno nudi al chiaro di luna. Ma oh! Le squisite acque sembravano essersi mutate in acqua di cartone. Possibile che le Sources de la Vivonne si fossero improvvisamente prosciugate. Persino l’ultima, solenne pagina del grande poema, la pietra del sepolcro che si chiude, l’ultima, maestosa parola, Le Temps, mi lasciò inesplicabilmente fredda. Il Rex tremendae majestatis era forse fuori della mia porta.
Ogni vita comprende ed esprime più di quanto ne possa dire chi la incontra e persino chi la vive, supera sempre la somma di tanti dettagli ed episodi che tuttavia, in certe personalità, paiono incarnare tanto di quel destino specifico. Il cammino di Cristina Campo è disseminato da gesti ed episodi analoghi a quelli che amava nei suoi libri e modelli. Come notava Borges in una riflessione cara a Marguerite Yourcenar, uno scrittore, se è fortunato, lascia un’immagine di sé. È una vittoria che può non avere niente a che fare con la pace o la felicità. La città da secoli ti divora/ma per te travede, sogno e sfacelo,/di luci e piogge, lacrime senili/sulla ragazza che passa/febbrile, indomabile, oltre il tempo, oltre un angolo. Quella ragazza con la febbre dei suoi stessi versi era lei, l’ingresso del Russicum l’angolo dove anche il tempo pareva, per qualche ora, piegarsi.
Ma nella donna avvolta nel cappotto chiaro, che varcava l’ingresso della chiesa stringendo in mano un vecchio Libro delle Ore, si può scorgere tanto la principessa in esilio, l’esile ardente protagonista d’una fiaba che nella lunga fedeltà dei folli sa percorrere soglie visibili e invisibili, trionfando col suo coraggio e la cieca fiducia sui sortilegi che hanno velato l’ultima raggiante vittoria dell’amore e della luce, quanto una naufraga folle che annaspa e si sbraccia nel tentativo di aggrapparsi all’ultimo relitto d’una nave a pezzi sotto un cielo livido, a farfugliare, a invocare un soccorso che non arriverà mai. Il prigioniero si getta a testate contro il muro della prigione, urla per non sentire il silenzio, affonda in quello strillo e gli pare di cogliervi la musica che tutto comprende, spiega.
Gli errori che tormentano, le mancanze e i propri sottili egoismi, che mandano in frantumi l’immagine che si aveva di sé, si raccolgono nelle mani e si tendono verso un cielo che piova fuoco a consumarli e trasformarli, ma l’uncino nelle viscere rimane, e l’oro dei tramonti e delle icone tace. Si stivano canapa, olive/ mercanti ed anni. Io non chino le ciglia./ Mezzanotte verrà, il primo grido/del silenzio, il lunghissimo ricadere/del fagiano tra le sue ali. La scrittura per lei era lo spazio dove cercare di tenere aperti quegli occhi, qualunque cosa ciò volesse dire o sapesse trarne. Dio brucia anche se non esiste. Pubblicazioni, recensioni, premi, per lei non significavano nulla.
Quando Leone Traverso le segnalò alcuni critici che volevano valorizzare la sua opera, lei rispose: Vedi come tutto si guasta quando i gesti spontanei s’incrociano con le astrazioni. Ora anche di questo libretto mi è venuto un enorme desiderio che nessuno si accorga. Ti ho già detto molte volte, credo, che la letteratura (parola orrenda) non è un fine, per me, non uno scopo, ma un mezzo, uno dei modi (infiniti) di vivere con libertà e solitudine… per piacere, Leone, aiutami a conservare il mio incognito, a scrivere ancora con piacere; aiutami a rimanere nel silenzio e nella pace che sono la sola libertà a cui io tenga. Per lei questo crocevia segreto era un falò sulla spiaggia, di notte, là dove i problemi ritrovano il loro centro e cadono le barriere di inesistenti valori. E poco importa se alla fine quel centro sia pieno o vuoto. Il suo tormento in fondo è la stesso di ciascuno. Poiché tutti viviamo di stelle spente. Tutti ci aggrappiamo agli echi. Butto la sigaretta, scendo per Via Cavour verso i Fori, supero negozi di giacche in pelle, ricariche telefoniche, caffè, alimentari halal, ogni passo è una porta che si attraversa comunque.
ENRICO RIALTI
Articolo ripreso da https://www.minimaetmoralia.it/wp/altro/la-ragazza-con-la-febbre-ritratto-di-cristina-campo/
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