DI FRANCESCA SENSINI
Immagini del pittore Roberto Ferri (www.robertoferri.net)
Love of my life, you
Are lost and I am
Young again.
A few years pass.
The air fills
With girlish music;
In the front yard
The apple tree is
Studded with blossoms.
I try to win you back,
That is the point
Of the writing.
But you are gone forever,
As in Russian novels, saying
A few words I don’t remember-
How lush the world is,
How full of things that don’t belong to me-
I watch the blossoms shatter,
No longer pink,
But old, old, a yellowish white-
The petals seem
To float on the bright grass,
Fluttering slightly.
What a nothing you were,
To be changed so quickly
Into an image, an odor-
You are everywhere, source
Of wisdom and anguish.
Louise Glück, Vespers: Parousia
Nella tradizione occidentale la prima sistematizzazione filosofica dell’amore, come esperienza nodale della relazione con l’altro, risale al Simposio di Platone. Nel dialogo i banchettanti si cimentano in una gara oratoria in cui ciascuno espone la propria concezione di Eros. Particolarmente importante per le sue ricadute sull’immaginario moderno è l’antropologia fantastica al centro del mito narrato da Aristofane. Essa postula un’umanità originaria composta da esseri tondeggianti e ‘doppi’ rispetto agli esseri umani odierni, divisi in tre generi: maschile, femminile e androgino. Vigorosissima e tracotante, questa specie umana tenta di rivoltarsi contro gli dei, finendo coll’attirare su di sé la punizione di Zeus: il dimezzamento dei loro corpi. Il risultato è tragico: le due metà non fanno altro che tentare vanamente di ricongiungersi, rispondendo a un istinto insopprimibile che le conduce alla morte. Per scongiurarne l’estinzione, e con essa la fine del culto umano per gli dei, Zeus decide di apportare un miglioramento alla loro morfologia, spostando i genitali in modo tale da permettere il coito e, con esso, la possibilità di soddisfare il bisogno di unione e di completezza: «a questo desiderio di interezza e al tentativo di raggiungerla spetta il nome di eros».[1] Se le due metà separate possono ora vivere come individui autonomi, resta in loro il desiderio di ricongiungersi alla propria metà. Sulla base dell’intero originario, infatti, Aristofane spiega le diverse tendenze sessuali, non mancando di sottolineare come la ricerca dell’unione tra due metà maschili, essendo indipendente dalla procreazione, sia naturalmente orientata a scopi superiori, tra cui, esemplarmente, l’attività politica.
Fortemente improntato alla dicotomia è anche il discorso di Pausania, in cui troviamo la distinzione oppositiva tra Afrodite Urania, «celeste», e Pandemia, «volgare», ovvero tra un eros sensibile alla bellezza dell’anima e volto al miglioramento etico individuale, e un amore libidinale e sfrenato, orientato alla bellezza dei corpi e al piacere sessuale. Anche Pausania, nel quadro dell’eros «celeste», individua nell’amore tra maschi la forma erotica migliore. È interessante notare come l’Afrodite che presiede alla forma eletta di amore sia nata per androgenesi dallo sperma disperso nel mare del dio Urano, evirato dal figlio Crono, mentre l’Afrodite «volgare» derivi dall’unione di Zeus e Dione, un maschio e una femmina. [2]
È chiaro come, dal dialogo platonico, emerga la superiorità di un eros affrancato dall’istinto di procreazione e di sopravvivenza della specie e, proprio in quanto tale, libero da una finalità materiale, strumento di perfezionamento per l’individuo e la comunità. In questo quadro relazionale ‘l’altro’ è sempre un maschio. Alle donne è riservata una funzione pratica – la riproduzione e quindi la sopravvivenza della specie – che le riduce a corpo e materia, concepito come inferiore a quello dello spirito, e non sollecita alcun interesse per la loro soggettività.
[1] Platone, Simposio (192e), introduzione, traduzione e note di Roberto Luca, Firenze, La Nuova Italia, 1989, p. 35.
[2] Si tratta di due tradizioni risalenti, rispettivamente, a Esiodo, Teogonia, vv. 188-200, e a Omero, Iliade, V, vv. 348 e 370-371. Per un approfondimento degli aspetti legati al mito e al culto di queste due Afroditi cfr. Platone, Simposio, cit., p. 17.
Apparente eccezione è la figura di Diotima, la sacerdotessa di Mantinea che istruisce Socrate in materia d’amore. [3] Nel discorso della sacerdotessa, maestra di Socrate, Eros anche è un δαίμων, un “demone”, cioè, in senso greco, una figura che garantisce la comunicazione tra sfera umana e sfera divina e, di conseguenza, la coesione del cosmo: suo padre è Pòros, «l’Espediente» e sua madre, Penìa, la «Povertà». Tale eredità muove Eros al costante superamento, attraverso le risorse del suo ingegno, della sua costitutiva indigenza. Non essendo un dio, è povero di sapienza, ma la cerca. Poiché la sapienza è la cosa più bella tra le belle, Eros è attirato dalla bellezza che diventa, nel pensiero di Platone, il criterio guida nel cammino filosofico. Dalle bellezze incarnate e materiate nel mondo – beni minori che alludono a un bene infinitamente maggiore – il filosofo risale via via, (se non si lascia sviare dai sensi), verso il concepimento della Bellezza assoluta, meta tendenziale e mai possesso stabile per l’essere umano.
Una donna sapiente è dunque latrice del messaggio ultimo sull’amore, via alogica verso l’assoluto, percorso di astrazione dal mondo delle imitazioni, delle approssimazioni, del falso, al mondo delle idee perfette, cioè della verità. Eppure Diotima non prende la parola al banchetto; è assente perché, in quanto donna, non è ammessa. Solo le danzatrici, le suonatrici, le intrattenitrici varie, sono tollerate. Ricordiamo che, molto significativamente, Erissimaco chiede l’estromissione della sola donna presente, la suonatrice di flauto, per poter iniziare a dialogare sull’amore. Le donne e la filosofia, come la materia e spirito, risultano opposti inconciliabili.
Insomma, Diotima non parla direttamente; per lei parla un uomo, Socrate, che la dice «amica di terre lontane». La sacerdotessa non è dunque soltanto assente ma è posta in un “altrove” lontano rispetto al luogo dei banchettanti; il suo corpo e la sua voce sono tenuti a distanza; è ammesso solo lo spirito del suo insegnamento. La sua immagine, apparentemente potente, è in realtà emblema di una condizione storica di falsa presenza e di realissima assenza nella misura in cui le donne non sono ammesse a incarnare, letteralmente, il proprio pensiero sul mondo. Fuori dalla pólis, poste in un altrove assoluto se, eccezionalmente, dee o «maestre»; dentro le mura di casa, confinate al privato e alla cura degli affetti, se donne qualunque.
Il modello d’amore platonico finisce col corrispondere, dopo tutto, a una meravigliosa astrazione, che nega il mondo per un sovramondo perfetto e con esso la realtà umana. Nel racconto di Aristofane, invece, emerge quell’idea della felicità che è ancora presentissima nel discorso comune sull’amore: fusione di due esseri in uno, complementarità dei contrari, armonia di razionalità maschile e sentimento femminile.[4]
[3] Platone, Simposio (201d-212c), cit., pp. 51-70.
[4] Su questo tema rimandiamo ai lavori fondamentali di Lea Melandri, Come nasce il sogno d’amore, Milano, Rizzoli, 1988 (Torino, Bollati Boringhieri, 2002). Un’interessante elaborazione del privilegio maschile e delle sue rappresentazioni simboliche si trova in Alberto Asor Rosa, L’ultimo paradosso, Torino, Einaudi, 1986, pp. 79-80.
Tentativo di ripetere l’unità a due dell’origine – il legame di dipendenza e cura tra madre e figlio – la ricomposizione evocata nel mito aristofaneo intende in fin dei conti rimediare a quella che abbiamo chiamato frattura del pensiero e della rappresentazione del mondo; vuole cioè ricongiungere ciò che il pensiero androcentrico ha separato nella storia umana: natura e cultura, corpo e mente, la figura stessa dell’androgino in cui lo spirito prende corpo – il πνεύμα, lo «spirito», che dà forma alla χώρα, la «materia» – cioè il maschile che si incarna nel femminile, considerato materia passiva e disordinata, da definire, ordinare e controllare, secondo la teorizzazione di un altro grande padre del pensiero occidentale, Aristotele. [5]
Non distante da queste posizioni è un altro testo fondativo dell’erotica occidentale, l’Ars amatoria di Ovidio. Nel poemetto didascalico in distici elegiaci, il poeta impartisce consigli in materia amorosa a uomini e donne. L’amore è presentato come una battuta di caccia tra il maschio cacciatore e la femmina preda. Dietro l’inseguimento, fatto di tattiche e inganni, si nasconde l’aspirazione alla fine del desiderio stesso – con il portato di dolore che esso fatalmente implica – attraverso il rinvenimento di soluzioni capaci di anestetizzarlo. Non a caso Ovidio è anche l’autore dei Remedia amoris. In tal senso «L’ ars amatoria non è altro, in verità, che una medicina per smettere di amare e sbarazzarsi della ferita che apre in noi l’esistenza dell’altro. L’erotica di Ovidio, più che ignorare la donna, mira a negarla e a recuperare una serenità dell’anima proposta come ideale filosofico e sociale».[6]
Le fondamenta androcentriche e misogine del materiale classico si ritrovano nella poesia occidentale delle origini, incentrata essenzialmente sulla tematica amorosa eterosessuale. Nel XII secolo, infatti, nelle ricche e raffinate corti della Francia meridionale, si elabora un paradigma culturale e poetico che elegge l’amore a cifra esperienziale della vita umana e la donna a sua protagonista: è la fin’amors o «amore cortese». Con il declino delle corti provenzali, esso passerà alla corte di Federico II in Sicilia e, in seguito, ai comuni dell’Italia del centro-nord – Bologna, città di Guido Guinizzelli, e Firenze, dove nascono Guido Cavalcanti e Dante Alighieri, in particolare – dando esito a elaborazioni originali, influenzate dal pensiero teologico cristiano.[7]
Questa vera e propria scoperta ed esaltazione poetica della donna è in realtà un gioco di specchi: «sarebbe più giusto dire che da allora la donna diventa un oggetto letterario, l’occasione di un discorso maschile che si alimenta dell’enigma del femminile».[8] Siamo di fronte all’epifania medioevale di un vero e proprio idolo-donna, declinato storicamente nel corso dei secoli nei due poli opposti e inconciliabili della donna angelo e della femme fatale, figurazioni di una frattura nella concezione del mondo e, di conseguenza, nella sua rappresentazione artistica e filosofica.
Questa deità venerata, nel suo singolare collettivo che annulla tutte le differenze per sussumerle in una sola identità naturale ed eternamente valida – das Ewig-Weibliche («L’eterno femminino») di Goethe, concetto cardine dell’essenzialismo ottocentesco – è una sublime creazione funzionale alla gerarchia dei sessi; idolo anche in senso etimologico, cioè εἴδωλον, «simulacro», fantasma e fantasia del desiderio maschile. In quanto tale, «l’idolo» rimane immobilmente sublime nella sua stupenda cornice a fissare i visi delle donne che si sforzano di corrispondergli.
In cambio dello statuto superiore che questa immagine garantisce mediante l’accettazione e l’adeguamento al suo modello, le donne reali, che camminano sulla terra, sacrificano fin dalla nascita la loro integrità, la possibilità di concepirsi come esseri umani a pieno titolo. Dietro la sua abbacinante luce immateriale, dietro l’altare del suo culto, la dea-donna nasconde delle donne umane diminuite, messe nell’incapacità di immaginarsi altrimenti, di concepire idee proprie, di agire con consapevolezza di sé e parlare con un linguaggio consapevolmente scelto.
Così, attraverso il magistero estetico di questa produzione letteraria e la sua autorità cultura, le costanti dell’immaginario maschile attraversano i secoli e continuano a sostanziare anche i modelli interiorizzati dalle donne, condizionando il dibattito sull’amore che, tematizzato dal femminismo degli anni Settanta e messo al centro delle sue pratiche di autocoscienza e riflessioni sul corpo, sulla sessualità e sulla vita affettiva, resta ancora un groviglio problematico da affrontare fino in fondo.
[5] Il concetto si trova espresso in Aristotele, De generatione animalium, 716b. Sui pregiudizi misogini nella storia della filosofia occidentale rinvio a Paolo Ercolani, Contro le donne. Storia e critica del più antico pregiudizio, Venezia, Marsilio, 2016.
[6] «L’Ars d’aimer n’est au vrai qu’une médicine pour cesser d’aimer et se débarrasser de la blessure qu’ouvre en soi l’existence de l’autre. L’érotique d’Ovide ignore moins la femme qu’elle ne vise à la nier et à rétablir une équanimité proposée comme idéal philosophique et social» (Jean-Charles Huchet, L’amours discourtois. La ‘Fin’Amors’ chez les premiers troubadours, Toulouse, éditions Privat, 1987, p. 12). Le traduzioni sono mie.
[7] Cfr., oltre ai fondamentali saggi di Contini in Poeti del Duecento, a cura di Gianfranco Contini, Roma, Istituto dell’enciclopedia italiana, 2004 (ristampa dell’edizione Milano; Napoli, Riccardo Ricciardi editore, 1960), Paolo Borsa, La nuova poesia di Guido Guinizzelli, Fiesole, Cadmo, 2007; Donato Pirovano, Il dolce stil novo, Roma, Salerno, 2014; Les deux Guidi: Guinizzelli et Cavalcanti: mourir d’aimer et autres ruptures, a cura di Marina Gagliano, Philippe Guérin e Raffaella Zanni (Atti del convegno organizzato nel Febbraio 2016 dal CERLIM presso l’Università Sorbonne nouvelle), Parigi, Presse Sorbonne Nouvelle, 2016.
[8] Jean-Charles Huchet, op. cit., p. 13.
La volontà di affrontare e decostruire questo immaginario diffuso, interiorizzato da secoli e per questo naturalizzato, è la premessa per rimuovere un ostacolo fondamentale a un’autentica conoscenza dei fondamenti della cultura occidentale, da una parte; dall’altra, spiana il percorso di costruzione di un pensiero, di un linguaggio e di un codice simbolico nuovi, che si pongono criticamente rispetto ai condizionamenti della visione del mondo patriarcale, in particolare per le donne. La filosofa Lea Melandri lo ricorda limpidamente:
L’interiorizzazione della visione maschile del mondo è la «violenza invisibile» che esilia le donne da se stesse e, nello stesso tempo, dall’immagine di sé creata dall’altro sesso.[9]
[9] Lea Melandri, Alfabeto d’origine, Neri Pozza, ebook, 2017, p. 1665/2557 passim; Eadem, L’infamia originaria, Roma, Manifesto libri, 2018, pp. 111-112. Cfr. anche Sexe, race, classe. Pour une épistémologie de la domination, a cura di Elsa Dorlin, Paris, Presse universitaire de France, 2009.
Nessun commento:
Posta un commento