11 febbraio 2023

LE RADICI DEL RAZZISMO

 

Le radici della gerarchia tra i gruppi umani


Frabcesca de Stefano
11 Febbraio 2023

Il razzismo, come il capitalismo, è un sistema di relazioni sociali che porta in campo numerosi e complessi fattori ma poi, di fatto, materializza tra le persone la tensione e la storia di violenza che caratterizza i rapporti tra il nord globale e il sud globale. Non nego certo la dimensione psicologica simbolica ma è nella subalternità materiale, economica e politica delle persone che vengono da eredità coloniali e post-coloniali che affonda le radici il razzismo che costruisce le gerarchie tra i gruppi umani. Per combatterlo serve un lavoro analitico profondo e radicale sia sul piano culturale che su quello politico. Un’ampia intervista con Mackda Ghebremariam Tesfaù – filosofa, ricercatrice e docente universitaria, militante antirazzista – realizzata da Francesca de Stefano per il corso “Raccontare i territori” tenuto dalla redazione di Comune-info

Ritratto murale di Frantz Fanon a Yolé! Himbi, Goma, Congo DRC. Photo by Allason Leitz

Questo lavoro desidera analizzare il modo in cui il linguaggio utilizzato da alcune associazioni impegnate nell’accoglienza o dalle organizzazioni della cooperazione internazionale impegnate all’estero, contribuisca – o al contrario danneggi – la costruzione di pratiche antirazziste e la produzione di una narrazione giusta dell’alterità da loro veicolata. In molti casi si assiste alla produzione di messaggi che, attraverso parole e immagini,  ripropongono stereotipi allo scopo di “vendere” un prodotto, il più delle volte una campagna di fund raising. Eppure, l’uso di etichette e stereotipi disumanizza, non guarda alle persone ma ai fenomeni. In questo tipo di narrazione, non ci sono esseri umani ma ci sono “neri”, “migranti,” “sbarcati”…termini che non rimandano alla persona, all’esperienza reale ma solo agli immaginari. Sappiamo che il linguaggio è un potente strumento che contemporaneamente riflette e influenza gli atteggiamenti, i comportamenti e le percezioni e per approfondire il tema abbiamo intervistato Mackda Ghebremariam Tesfaù, filosofa, ricercatrice e professoressa universitaria, militante antirazzista.

Ong, organizzazioni, associazioni che lavorano all’estero o che lavorano nell’ambito dell’accoglienza in Italia ci inondano quotidianamente di immagini di persone che dicono voler aiutare. Sappiamo che la razza è un costrutto sociale, non biologico, creato ed utilizzato per sopraffare popoli, persone, paesi e, nel caso dell’Africa, continenti. Questo tipo di comunicazione che mostra immagini di bambini e donne, per lo più africane, sorridenti o, al contrario, in estrema difficoltà, secondo te lavora a stravolgere questa dinamica di potere?

Secondo me no. La rafforza e la riproduce. Per fare un esempio, Save the Children propone delle immagini che fanno pornografia del dolore e che continuano a produrre e riprodurre immagini in cui c’è l’africano con lo stomaco gonfio, pieno di mosche, la cui sopravvivenza è solamente nelle mani dello spirito caritatevole occidentale. Questa è la riproposizione di una narrazione coloniale in cui queste persone, poveracce, non ce la possono fare da sole, quindi noi dobbiamo rinsaldare tutta quella intricata rete di istituzioni e attori che è stato impiantato nel sud globale perché in qualche modo abbiamo una missione da compiere, che è sempre in fin dei conti una missione di civilizzazione. Questo ritengo che sia profondamente razzista perché, tra l’altro, è un ribaltamento paradossale della realtà. Lo sappiamo tutte che l’Africa è il continente più ricco del mondo, che quella povertà rispetto alla quale si fa questa pubblicità al fine di mantenere gli attori che intervengono sugli spazi, spesso limitati e specifici, in realtà è l’opposto della situazione materiale reale che c’è tra i paesi ex colonizzatori, tra le corporation, tra i nuovi paesi colonizzatori e i paesi dell’Africa.

Ho parlato con gente che fa comunicazione in queste realtà, quello che loro dicono è: noi abbiamo un obiettivo, abbiamo degli studi, sappiamo che questa roba vende e quindi noi la utilizziamo. Secondo me è un modo cinico ma soprattutto cieco di portare avanti la loro azione perché non si rendono conto di quali sono gli effetti secondari di tutto quello che fanno. 

È una questione di marketing, il marketing si fa per vendere qualcosa, e per vendere dei buoni sentimenti devi innescare determinati processi. Ma questo si collega anche ad una evidenza che riguarda la maggior parte delle realtà di cooperazione internazionale: cosa stanno facendo nei paesi del Sud? Stanno mettendo in discussione un sistema oppure operano in maniera strutturale rispetto al mantenimento di questo sistema? Sono complici o lavorano nelle faglie?

Va anche detto che la cooperazione internazionale, per come viene concepita, in molti punti sembra la prosecuzione con altri mezzi del lavoro dei missionari, e loro erano parte del processo di colonizzazione.

Mural a Bialystok, Polonia

Si tende a ridurre il razzismo ad una questione di ignoranza e che fa dell’educazione antirazzista principalmente un’ingiunzione morale a scoprire la bellezza della diversità (Frisina, 2022). Si passa dal siamo tuttә uguali al siamo tuttә diversә in una dinamica che sceglie di affrontare la questione sulla base delle emozioni. Affrontare il tema in modo da raggiungere un pubblico più ampio senza un vero ragionamento su concetti come razzismo sistemico, potere, responsabilità, posizionamento, consapevolezza, rispetto, secondo te è una modalità efficace?

No, io ritengo che il razzismo sia un problema innanzitutto di relazione, che il razzismo, come il capitalismo, sia un rapporto sociale che porta in campo numerosi fattori ma che di fatto materializza tra le persone la tensione e la storia di violenza che caratterizza i rapporti tra il nord globale e il sud globale. In maniera molto ampia per me questo è il razzismo. Io ritengo che sia necessario fare un lavoro profondo e radicale sia culturale nel senso di analitico, sia ovviamente politico, per metterci d’accordo e capire che cos’è effettivamente questo razzismo e se abbiamo intenzione di farci qualcosa, perché può anche essere che tanta gente quando capisce cos’è il razzismo dica “beh, però in effetti questa roba qua a me fa comodo”, perché se non facesse comodo a qualcuno, ad un qualcuno che detiene la maggior parte del potere, il razzismo ovviamente non potrebbe esistere. Quindi non sono assolutamente per approcci interculturali, morali o psicologici. Vengo da studi marxisti e ho un approccio innanzitutto materialista. Dopodiché non nego la dimensione psicologica simbolica della gerarchia tra i gruppi umani, però questa gerarchia sarebbe estremamente più mobile se non fosse radicata in una subalternità materiale, economica e politica delle persone che vengono da eredità coloniali e post-coloniali.

Le persone razzializzate sono sempre viste come vittime, mai come attori sociali, protagonisti delle loro vite, con una propria soggettività politica e che rivendicano rispetto e dignità. Ma dove sta l’appeal in questo presupposto per una ong che lancia una sostanziosa raccolta fondi basata sull’automatismo “mi smuove la pancia-metto mano al portafoglio”?

Autodeterminazione è la parola che più in sé porta un significato contrario a quello di colonizzazione. L’autorappresentazione, l’emancipazione, la soggettivazione sono processi che vedono individui e collettività agire da protagonisti rispetto alla propria condizione. Questo è proprio l’opposto di quelle relazioni di aiuto paternalistiche che hanno caratterizzato l’impresa dei missionari e oggi caratterizza (quantomeno anche se non solo) la comunicazione della cooperazione. Questa non ha naturalmente nessun interesse a sottrarsi dalla relazione che la qualifica quale “salvatrice necessaria”. Non ha né un interesse economico, né uno simbolico a farlo. Al contrario, il fatto che questi “angeli bianchi” debbano essere economicamente supportati da donatori fa sì che questi donatori a loro volta partecipino del godimento narcisista dell’essere parte di questa operazione di salvataggio.

Questa rappresentazione è funzionale a mantenere una gerarchia sociale basata sulla sopraffazione e sulla subalternità della persona che pretendi di aiutare?

Sì, consciamente o inconsciamente. Io non penso che ci siano dei mostri che stanno sotto il media manager o il responsabile marketing di Save the Children. Penso che sia un discorso profondamente radicato, che loro lo sappiano o meno.

Non credi che in un’epoca in cui si ha accesso ad ogni tipo di informazione, l’ignoranza non sia ingiustificabile?

Non ho interesse a giustificare o meno. Io prendo atto che stai utilizzando questo linguaggio, senza una dimensione di giudizio morale o etico. Volenti o nolenti, consciamente o meno, quello che fanno le realtà sociali è riprodurre loro stesse. Le Ong non vogliono finire di portare avanti il loro operato, che è strettamente connesso al fatto che ci sia una situazione di bisogno. Loro non vogliono veramente uscire da quella condizione di bisogno, che lo sappiano o che non lo sappiano, indipendentemente dal giudizio che io do sulla loro ignoranza. Il sociologo Pierre Bordieu ha studiato i modi attraverso cui le istituzioni e le posizioni hanno delle pratiche e delle abitudini che sono volte alla riproduzione di sé stesse e del loro obiettivo, dalla cooperazione internazionale all’università, passando per il parlamento.

L’assunto di base per questo tipo di comunicazione è la figura della salvatrice e del salvatore: le campagne di comunicazione, di informazione e ancora di più quelle di raccolta fondi, propongono un’immagine delle persone africane vittime, passive, senza iniziativa e dipendenti. La loro unica possibilità di salvezza dipende dall’Occidente, portatore di verità, di giustizia e di bontà riproducendo un ordine sociale iniquo che, tra le altre cose, non considera le responsabilità politiche e i conseguenti prodotti storici. Come porre rimedio?

Io penso che il razzismo non finirà finché non ci sarà una redistribuzione della ricchezza a livello globale. Venendo da una formazione marxista, penso che gli stereotipi nascano dalla realtà, nascano da condizioni materiali. Se queste condizioni materiali di fatto non cambiano, difficilmente cambierà quello che ci sta attorno. Se le persone africane sono ancora lì che devono scappare da casa loro perché tutte le ricchezze di cui dispongono i loro paesi non sono a disposizione loro, verranno sempre visti come esseri un po’ disperati che vengono qua e ti prendono il lavoro e che se non trovano lavoro magari si danno anche alla microcriminalità, come farebbero tutte le persone del mondo.

Foto Radio Onda d’Urto

In “Antirazzismo e Scuole”, Annalisa Frisina riporta un’esperienza di focus group fatta con una V elementare su “che fare contro il razzismo?”. Dalle bambine e dai bambini è emersa l’idea che diventare ricchi e/o famosi possa essere una soluzione se si fa parte di un gruppo discriminato. Parlano di Bolt e di come, una volta famoso, non è che non sia più nero e quindi non venga più preso in giro, ma ha acquisito il potere di controbattere chi lo prende in giro.

Io sono d’accordo con i bambini. Se non fosse che il mio problema non è mai stato il singolo. Nonostante Bolt sia ricco, le persone nere subiscono razzismo.

Questo dipende anche dal fatto che i neri sono da sempre categorizzati come un unicum, sembra come che se ne debba uscire tutti insieme, o gli altri sono casi felici che emergono dal magma

Sono casi felici, parliamo di eccezioni che però – esagerando un po’ il concetto – depotenziano la lotta. Il fatto che ci sia stato Obama come presidente ha fatto dire agli americani “vedete che non c’è più il razzismo”, dopodiché è arrivato Trump.

L’effetto di anni e anni di questa narrazione è stato un razzismo diffuso e capillare che è andato ad alimentare e a cristallizzare la narrazione di “un’unica storia”, per dirla con Chimamanda Ngozi Adichie. Perché secondo te è così difficile partire da domande banali nella loro essenzialità come: chi viene rappresentato, ha bisogno, ha richiesto di essere rappresentato? Oppure quella rappresentazione avviene a sua insaputa? Concordi sul fatto che il suo corpo, presentato senza dignità, venga utilizzato a scopo puramente economico? Chi ha il potere di decidere?

Le domande semplici sono quelle a cui è più difficile rispondere. Io non vedo un chiaro interesse a porsi delle questioni che richiedono risposte. Nessuno ha voglia di mettere in discussione il proprio privilegio. È per questo che spesso le battaglie antirazziste sono cieche, il problema è strutturale e riguarda rapporti di potere economici e simbolici.

Che ne pensi della frase di Achille Mbembe “il razzismo non è un incidente. È un ecosistema”? E qual è il ruolo del linguaggio nel mantenere questo ecosistema?

Penso che sia assolutamente così. Dice ecosistema perché siamo in un momento in cui stiamo riflettendo sul modo in cui tutto il vivente viene preso tra queste maglie. È una riarticolazione di una cosa che ci diciamo da tanto tempo, ossia che il razzismo è un sistema di organizzazione della società, dell’esistente, e che produce effettivamente un mondo. Il linguaggio – ho avuto modo di occuparmene tangenzialmente, per cui ho l’imbarazzo di chi sa di non sapere – è il codice attraverso cui noi produciamo, riproduciamo e ci trasmettiamo senso. Fondamentalmente questo linguaggio deve aderire in qualche modo all’esistente perché altrimenti la nostra reazione a questo linguaggio sarebbe di rifiuto totale, di rottura o di shock a quello che si sta dicendo attraverso la lingua ma che non trova corrispondenza nell’esperienza. Io penso che la lingua sia lo spazio in cui si dà forma e si continua a performare – mi dispiace usare questa parola – la realtà della razza. Parlare è un atto, e attraverso la lingua si producono le differenze, si dà forma logica e dicibilità e quindi si rafforzano delle relazioni diseguali che ci sono nella realtà.

Una volta hai scritto: “Il razzismo ha bisogno del linguaggio per potersi riprodurre nell’immaginario, e quindi nella psicologia, collettiva. E attraverso il linguaggio è possibile contrastarlo”. E sempre la Adichie scrive che “la conseguenza di un’unica storia è questa: sottrae alle persone la propria dignità. Rende difficile il riconoscimento della nostra pari umanità. […] Le storie sono state usate per espropriare e per diffamare. Ma le storie si possono usare anche per dare forza e umanizzare. Le storie possono spezzare la dignità di un popolo. Ma le storie possono anche riparare quella dignità spezzata”. Qual è il tipo di linguaggio, quali sono le storie da raccontare per praticare l’antirazzismo e per riparare la dignità spezzata?

Ci sono diversi livelli. Partiamo dal presupposto che la razza non esiste. Noi, persone con background migratorio, figlie di meticciamenti nel nord globale, ne siamo la conferma, siamo la prova tangibile di quanto tutto questo non abbia a che fare con la razza.

Da un lato mi viene da dire che ci vuole uno spazio di produzione di storie che metta in crisi questa distinzione rigida, che si vuole continuamente rinsaldare, tra io e altro dove non si capisce chi dovrebbe essere l’io e chi dovrebbe essere l’altro. È necessario raccontare una realtà che già è qui, non abbiamo la parola ma esiste, possiamo chiamarla meticcia, interculturale, multiculturale, chiamiamola come vogliamo, non abbiamo la parola ma sappiamo che è già qua, perché ci siamo noi e ci siamo da un sacco di tempo. Da un lato quindi continuerei a lavorare su storie che disinnescano questa idea essenzialista di identità legata alle appartenenze etnoculturali e razziali. Dall’altro canto, ci sono una serie di progetti che sono stati fondamentali nel tempo, dai Subaltern Studies che avevano come progetto quello di far emergere storie di resistenza al colonialismo,  storie cancellate. Sicuramente c’è anche il discorso del protagonismo, già solo che cambi la voce narrante dà un potenziale diverso ad una storia e quindi sono d’accordo con Adichie, un pezzo di lavoro si farà attraverso una narrazione diversa ma questo vorrà dire tante cose, non ne vorrà dire una sola. Vorrà dire esplodere queste storie in tante direzioni diverse e agire su più livelli contemporaneamente.

Quali sono questi livelli?

Si può voler raccontare il passato da un’altra prospettiva, si può voler raccontare il presente da un’altra prospettiva, si può voler mettere al centro protagonisti che mettono in discussione le linee di identità e definizione egemoni. Ci sono varie strategie che indicano modi generativi di prendere la voce. Alcuni prendono la voce per rivendicare un ritorno in Africa, il panafricanismo, qualcun altro prende la voce per dire “viva la sostituzione etnica, la stiamo già facendo”.  Secondo me tutte queste cose fanno parte di un possibile uso politico della narrazione e non ce ne è una che sia giusta, ci sono una serie di movimenti che segnano un’uscita da un modo coloniale di intendere la presa di parola e il luogo dell’enunciazione, come dice Djamila Ribeiro.

Nessun commento:

Posta un commento