23 febbraio 2023

GLI SPIRITI DELL' ISOLA

 


SU “GLI SPIRITI DELL’ISOLA” DI MARTIN MCDONAGH

di Simone Bachechi

La pregnanza del titolo italiano del film Gli spiriti dell’isola (titolo originale The Banshees of Inisherin), da poco uscito nelle sale italiane e il quale si avvale di nove nomination ai prossimi Oscar, la si può concepire solo alla fine della visione dell’opera di Martin McDonagh che ritorna sul grande schermo dopo la consacrazione di cinque anni fa con Tre Manifesti a Ebbing, Missouri nel quale svetta la superba interpretazione di Frances McDormand.

Inisherin è un’isola immaginaria, rupestre e selvaggia, al largo delle coste irlandesi. Nella realtà il film è stato girato ad Achill Island e ad Inishmore, la maggiore delle Isole Aran, due isole con le medesime suddette caratteristiche che si affacciano come dei bubboni sinistri e solitari al largo della costa occidentale d’Irlanda. Questa evoca, come suggerisce il titolo originale del film, rituali magici, esoterismi e leggende, in una terra variamente popolata di leprecauni, folletti, divinità e creature fiabesche quali appunto le banshees, figure del folklore irlandese che non si mostrano mai agli esseri umani ad eccezione dei familiari di coloro che sono prossimi alla morte, recandone il tragico presagio. Nel film di McDonagh ve ne è una, un vero e proprio angelo della morte; infatti l’anziana donna che in mantello e cappa nera fa le sue sporadiche apparizioni è l’annunciatrice di luttuosi eventi.

Tuttavia, dopo le quasi due ore di visione ci si accorge che gli spiriti dell’isola sono in realtà i personaggi tramite i quali la storia si dipana. Anime e creature umane e non solo, in quanto anche gli animali in modo grottesco umanizzati nell’ambientazione hanno una parte rilevante, che dal loro isolamento, si parla di isole di una terra (l’Irlanda) che di per sè è isola, ci parlano della propria condizione, una solitudine più esistenziale che geografica e alla ricerca di un contatto con i propri simili, di “gentilezza” il cui bisogno è rivendicato da Pádraic (Colin Farrell), di riconoscimento, come sognato da Colm (Brendan Gleeson), l’ex amico di Pádraic, il quale intende dedicarsi completamente alla composizione di brani musicali grazie al suo violino che strimpella nel pub del villaggio, al fine di essere ricordato nei tempi come il citato Mozart, come Dominic (Barry Keoghan), il figlio del poliziotto del villaggio, additato come lo scemo del villaggio, in realtà un ragazzo sensibile, il quale subisce abusi da parte del padre (Gary Lydon), e semplicemente alla ricerca di amore; la sua dichiarazione alla sorella di Pádraic, Siobahn (Kerry Condon), la quale inevitabilmente lo rifiuterà vista la differenza di età segna idealmente lo smacco esistenziale e comunicativo che pervade tutto il film e del quale lo stesso Dominic sarà la prima vittima.

Lo snodo, e l’inizio del film, è la rottura dell’amicizia tra Pádraic e Colm, il cui legame fatto di conversazioni futili e senza senso che si svolgono tutti i giorni quando si danno appuntamento alle due del pomeriggio al pub, viene troncato da parte del secondo senza alcun apparente motivo e spiegazione tranne quella da parte di Colm di averne fin sopra i capelli di Pádraic e di non voler più trascorrere nemmeno un minuto in sua compagnia. Pádraic cerca di capire e chiede aiuto alla sorella e al parroco. I reiterati dinieghi da parte di Colm arrivano alla minaccia che concretizzerà in modo assurdo, grottesco e truculento con atti di automutilazione fino all’uccisione da parte dello stesso dell’asina di Pádraic, sua fonte di sostentamento oltre che di carico affettivo. Il grottesco, l’orrorifico e in molti casi la stralunata e surreale ironia dei dialoghi resa dalle superbe interpretazioni di Farrell e Gleeson, con le loro ruvide e smozzicate interazioni richiamano per alcuni versi il teatro dell’assurdo di un altro irlandese, Samuel Beckett, mentre in alcuni passaggi per il loro impatto visivo  sembra di assistere a un film di Buñuel; una frequentazione di questo tipo di estetica con la quale Colin Farrell si era già cimentato nel 2015 con la straniante distopia di The Lobster di Yorgos Lanthimos.

Su tutto il grande, brullo, glabro e quasi lunare paesaggio irlandese e l’immenso mare costantemente sullo sfondo, con le grandi onde che si infrangono sulle selvagge scogliere e delle quali il montaggio sonoro attutisce scientemente il rumore quasi a voler focalizzare l’attenzione sulla commedia e il dramma degli uomini. Il paesaggio li contiene, li osserva e chissà se li commiseri. Gli spiriti dell’isola è un dramma dell’isolamento, dell’assurdo e della ricerca di sprazzi di umanità e calore in un’umanità che assurdamente sembra averla perduta. In lontananza, dalla terraferma di Irlanda si odono gli spari dell’ultima fase della guerra civile tra i sostenitori e gli oppositori al trattato anglo-irlandese del 1921 che sancisce la nascita dello Stato Libero d’Irlanda, al netto della divisione delle sei contee dell’Ulster (siamo nel 1923), una guerra fratricida della quale si sentono solo gli echi e della quale non si conoscono i motivi, proprio come nel caso della rottura dell’amicizia tra Pádraic e Colm; emblematica è in tal senso la frase del poliziotto il quale si deve recare sulla terraferma per prendere parte dietro compenso a un’esecuzione a seguito delle lotte tra i sostenitori dello Stato Libero e membri dell’IRA: confessa di non sapere chi debba uccidere aggiungendo che non si capisce chi lotti contro chi e che era meglio quando si sapeva che si doveva sparare agli inglesi. Il film diventa così anche una grande metafora della divisione fratricida che segna l’Irlanda dall’epoca della guerra civile.

Un film integralmente irlandese quello di McDonagh, come lui stesso, il quale sebbene abbia  vissuto per lunghi anni a Londra dove è nato da genitori irlandesi, non ha mai reciso i legami artistici e culturali con la sua terra, tanto da trarne ispirazione per i suoi lavori teatrali, da citare la sua trilogia sulle Isole Aran, con i quali si è formato prima di arrivare al successo cinematografico con In Bruges – La coscienza dell’assassino del 2008 che vede come protagonisti gli stessi Colin Farrell e Brendan Gleeson, con 7 psicopatici del 2012 (con lo stesso Farrell), mentre è da ricordare la prova di Gleeson in Michael Collins, il film di Neil Jordan del 1996 sul rivoluzionario irlandese, anche se più noto è per il suo ruolo nelle vesti di Alastor “Malocchio” Moddy nella saga di Harry Potter, fino al più recente Tre manifesti a Ebbing, Missouri.  Irlandese è in gran parte la produzione del film, irlandese è l’ambientazione e tutto il cast, oltre ai due interpreti principali lo sono anche tutti i co-protagonisti che sebbene meno noti alla platea internazionale con questa prova danno un saggio di grande maestria.

Un film dai profondi e universali contenuti che ondeggia tra il beffardo e assurdo sarcasmo e il dramma che parla della fragilità umana e della disperazione di spiriti in cerca di tenerezza e amore. Una surreale commedia drammatica che ricorda in un’altra forma, quella letteraria, e a ben altre latitudini, uno dei capolavori del modernismo, Sotto il vulcano di Malcolm Lowry, un’opera che pur con le debite cautele visto la differenza del medium artistico può esser accostata in parte anche stilisticamente al film di McDonagh, nel quale così come nel romanzo di Lowry si respira una profonda, sebbene sottotraccia, tensione metafisica e le ramificate incongruenze della piccolezza e della fragilità umana, la stessa disperazione e bisogno di tenerezza, perché come racconta il Console Firmin nel romanzo di Lowry:  “È la rivoluzione che infuria anche nella terra caliente di ciascuna anima d’uomo” e “Non è nel Messico naturalmente l’inferno ma nel cuore”, chiosando: “No se puede vivir sin amar”. Questo l’arbitrario (quindi più che sindacabile) accostamento di chi scrive tra un grande romanzo e un grande film, per il quale, dall’inizio al poetico e straniante finale, sempre secondo il modesto parere di chi scrive, un solo Oscar non sarà sufficiente.

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