12 gennaio 2023

1922-2022 PASSATO e PRESENTE

 

1922: Squadristi saccheggiano una sede del partito socialista

Ottobre 2021: neofascisti assaltano la sede della CGIL a Roma


1922-2022: tre piste di riflessione dopo il voto del 25 settembre in Italia # 2

di Giuseppe A. Samonà

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[La prima parte di questo intervento si può leggere qui.]

  1. La democrazia

Ancora formule ricorrenti.

La democrazia italiana è solida. Giudicare sulla base di un aggettivo (solido o il suo contrario) implica inevitabilmente un certo grado di soggettività – mi limitero dunque a elencare alcuni fatti: le trame nere di cui si diceva poco sopra; i tentativi di golpe; le stragi, nelle piazze, nei treni, a tutt’oggi rimaste irrisolte; le organizzazioni criminali (Mafia, Sacra Corona Unita, ‘Ndrangheta, Camorra) che controllano ampie zone del territorio nazionale, in modo incomparabile con gli altri paesi europei; la corruzione, anch’essa incomparabilmente più alta rispetto agli altri paesi d’Europa. La storia della cultura italiana consta di molti secoli, quella della Repubblica di pochi decenni, e costruita sulle basi fragili di un antifascismo che in realtà non è mai stato condiviso consapevolmente dalla maggioranza della popolazione. Ne avevano ben coscienza i cosiddetti Padri Costituenti, che crearono un testo, un quadro, la Costituzione appunto, che aveva fra altri compiti quello di disinnescare le possibili tentazioni autoritarie del paese – e che adesso, anche con alcune sponde al di fuori della propria maggioranza, Renzi in particolare ha già dato la sua piena disponibilità, come anche Calenda, la destra si appresta a riformare.

Ma gli italiani hanno votato democraticamente. Appunto: in certo senso non è proprio questo voto “democratico”, liberamente espresso, la nota dolente? (sulle virgolette dirò qualcosa più sotto) Non voglio tanto ritirar fuori l’antico ritornello sulle peggiori dittature del Novecento arrivate al potere democraticamente (ma sarà bene comunque non dimenticarlo), quanto sottolineare come queste elezioni siano solo il riflesso del profondo mutamento che si è maturato nella società civile negli ultimi due o tre decenni. È per così dire “la banalità” del voto – come e chi ha votato questa destra, come ha reagito, o per meglio dire non reagito, chi non l’ha votata – che colpisce, inquieta, più del voto stesso.

L’esito di un copione già scritto da anni… ce lo aspettavano… il risultato era già annunciato da tempo… Così diversi amici abbacchiati hanno appunto spiegato, a volte persino giustificato, la sostanziale indifferenza, apatia, distrazione con cui ampi settori storicamente, culturalmente a sinistra, o almeno, opposti alla destra, hanno accolto il suo trionfo. Ma il fatto che non sia stata una sorpresa, che questi risultati maturassero da tempo dentro la società, non mi sembra possa costituire un’attenuante, anzi: indica appunto, al di là del voto, l’esistenza di alcuni spostamenti profondi. Ed è quel che avvilisce di più. La mia impressione è che anche l’apatia, se non la depressione, in cui versa l’un tempo combattiva società italiana sia… un copione già scritto da anni.

La destra è divisa… è a pezzi.. non ha la maggioranza… il governo non durerà… è solo un voto di protesta… la rissossità e il trasformismo pasticcione all’italiana ci proteggeranno anche dalla destra,  sino all’iperbolico: … le forze democratiche, progressiste e di sinistra, che sono maggioranza in Italia… – secondo le parole, riportate alla lettera, di un editoriale del “Manifesto” a firma Norma Rangeri nei giorni immediatamente successivi al voto. E confesso che ho dovuto rileggerle due o tre volte, queste parole, perché non riuscivo a crederci: ma poi, in diverse varianti, le ho rincontrate anche in altri autorevoli e stimabilissimi rappresentanti della sinistra, ad esempio il segretario della CGIL Maurizio Landini. Intendiamoci, diversi giornalisti del “Manifesto” – per altro il quotidiano che da sempre più seguo e sostengo – e la stessa Norma Rangeri, come anche Landini, hanno espresso altrove piena coscienza della gravità della situazione; e del resto le parole che mi hanno fatto per così dire sussultare fanno parte di un ragionamento più complesso, sfumato, sulla composizione della società, il poco democratico meccanismo elettorale, il grado di astensione record etc., per molti versi condivisibile. Ma dal mio punto di vista lontano-vicino restano sbalorditive – e non sono altro che la punta di diamante di un’attitudine diffusa, tendente a sminuire la vittoria della destra, a farne una mera questione elettorale, dovuta ad accidentali circostanze, che non rifletterebbe in nulla il paese reale (altra mini-formula misteriosa); o ancora, secondo questa stessa attitudine, il problema della sinistra, appunto molto più in salute di quanto non si creda, sarebbe solo di non sapere trovare uno sbocco politico-istituzionale… O forse, questo continuo parlare delle debolezze dell’avversario, anche esaltando le presunte virtù del proprio campo politico, è una sorta di rovescio del non c’è pericolo fascista di cui si diceva prima, sia pur questa volta con lodevoli intenzioni: rianimare le proprie truppe, incitarle, sottrarle alla depressione, mostrando il bicchiere mezzo pieno. Resta comunque una percezione molto diversa, al di là della politica, della società italiana, a seconda che la si guardi dal di dentro o dal di fuori: perché a me, come a molti altri italiani che da anni non abitano più in Italia, quel bicchiere appare quasi interamente vuoto – è innanzitutto proprio il “paese reale” a inquietarci. La lontananza-vicinanza ci indurrebbe a prendere un abbaglio?

Non si tratta comunque di parlare male dell’Italia, né di spiegarla in qualche frase o ancor meno di metterle un voto: le società, le culture sono sempre organismi complessi, intrecciano qualità e difetti in una percentuale più o meno equivalente, con fasi alterne, tendenze e controtendenze, e ci vorrebbe un libro per mettere a nudo Il Belpaese. Per altro tutte le formule sopra riportate sono anche in parte vere; ed è vero in particolare che la nuova legge elettorale – il cosiddetto Rosatellum, fortemente voluto da Renzi quando era a capo del Pd – è ingiustamente viziata, se non del tutto incostituzionale: impossibilità di scegliere i candidati, che sono imposti dalle segreterie dei partiti; quasi il 40% dei seggi determinato con il maggioritario secco, il che per altro – con un invisibile meccanismo perverso – falsa anche il circa 60% determinato con il proporzionale; penalizzazione dei piccoli partiti, in nome del mito della governabilità che tende a favorire le coalizioni (anche se poi i partiti di queste coalizioni sono liberi dopo le elezioni di rompere e di allearsi con altri, persino con i loro avversari!). Concretamente, da un lato la destra già ampiamente vittoriosa è stata ulteriormente gonfiata, vedendosi attribuire un 16% in più per via dell’uninominale, di fatto un premio di maggioranza nascosto; dall’altro la ridimensiona ancor più radicalmente il livello record di astensione – oltre il 36%, cui va aggiunto poco meno d’un milione di schede bianche fra Camera e Senato e quasi due milioni di schede nulle, sintomo anche questo, probabilmente, di un sistema elettorale poco attraente, democraticamente parlando. Ma bastano questi elementi a banalizzare il suo inarrestabile avanzare anno dopo anno? e soprattutto l’avanzare delle sue idee, della sua visione del mondo dentro la società?  I giornali, la televisione, la gente, sembrano non interessarsi che alla crosta, discutendo all’infinito sulla longevità o meno del governo, di questa o quella alleanza, etc. Quasi nessuno tuttavia sembra soffermarsi più di tanto sul diffondersi  dentro la società del razzismo e dell’estero-diffidenza, dell’omofobia e della transfobia, dell’antifemminismo; e questo, benché la lotta a questi atteggiamenti sia oramai parte del discorso ufficiale delle democrazie occidentali, Italia compresa, e nonostante il fatto – i paradossi della politica non finiscono mai – che sia proprio una donna, per la prima volta, a guidare la destra come Presidente del Consiglio. E nessuno, soprattutto, sembra inquietarsi della letargia-dissoluzione della sinistra, cui accennavo prima.

In questo senso vorrei indicare un “piccolo” fatto concernente le elezioni estere, che intreccia il problema del vizio democratico e quello appunto di questa particolare forma di distrazione.  Breve ma necessaria premessa. Avevo deciso di votare, qui a Parigi, per l’Unione Popolare. Non che condivida tutto di questo progetto, anzi: diverse sono le cose che non mi convincono, o di cui almeno mi piacerebbe discutere, a cominciare dal nome. Ritenevo giusto però, dal mio punto di vista, contribuire a far superare la soglia di sbarramento a un movimento federatore esplicitamente di sinistra con un reale programma alternativo: che l’Italia fosse l’unico paese europeo a non avere nel suo parlamento neanche un rappresentante di tale sinistra mi sembrava infatti molto pericoloso, non per la sinistra in sé ma per la società tutta, un ulteriore sprofondamento nella crisi sociale e democratica che va avanti da molti anni. Sia chiaro: di sinistra, sono diversi stimabili candidati del Partito Democratico – sempre meno numerosi, a dire il vero – come anche ovviamente i candidati di Sinistra Italiana e Verdi – ma il PD che ha oramai da tempo perso qualunque carica alternativa mi sembrava, mi sembra oramai irriformabile, e la scelta di Sinistra Italiana di aggregarsi al carro proprio del PD, invece di rischiare un’alleanza con Unione Popolare, non mi ha persuaso. Ero e resto convinto che per rilanciare una prospettiva di alternativa viabile, che metta di nuovo insieme le battaglie per l’ecologia e i diritti civili con quelle da troppo tempo dimenticate contro le disuglianze sociali, sia necessaria una sorta di rivoluzione culturale dentro la società, e che per questa servano nuove aggregazioni politiche.

(Gli storici dei movimenti politici fra qualche anno studieranno probabilmente l’originale processo tutto italiano che ha fatto sì che la rifondazione di quello che fu il Partito Comunista si sia trasformata nella rifondazione della fu Democrazia Cristiana, magari a partire dalla sua ala più democratica: una sorta di compromesso storico che tuttavia ha condotto alla progressiva espulsione della ex-componente comunista… Espulsione mi verrebbe da dire quantitativa e anche qualitativa: il PD, oltre a funzionare a fasi alterne persino sui diritti civili, oramai da molti anni non comprende più nulla di quel avviene negli strati più bassi, popolari, della società – in questo senso il paradosso di cui dicevo prima, e cioè che a guida della destra ci sia una donna, o meglio, una donna del popolo, almeno in apparenza, è tutt’altro che anodino…)

Devo per altro precisare che in questa scelta ero anche confortato da un lato (molto) dal fatto che per la prima volta il contesto generale, già fermamente orientato a destra, paradossalmente restituiva la libertà appunto di scegliere, sottraendo gli elettori al ricatto del voto “utile”, o almeno, facendo apparire quel voto utile come “inutile” in una prospettiva di reale alternativa; dall’altro, dal quadro internazionale e nazionale che sosteneva e sostiene il programma di Unione Popolare (Podemos, Union Populaire, Friday for Future, etc; ma curiosamente – ed è stata un po’ una delusione – il Manifesto, invece di dare spazio a tutte le componenti della sinistra, ha espresso una decisa simpatia per Sinistra italiana e Verdi, o persino per i pochi esponenti di sinistra dentro il PD, e dentro i 5 Stelle: di fatto Unione Popolare è stata oscurata). Infine vorrei sottolineare che a questa scelta ero arrivato, a torto o a ragione, più per un personale calcolo di prospettive che per un autentico senso di appartenza: del resto non ho mai cercato di convincere né ho contestato gli amici che in Italia avevano scelto di votare l’Alleanza Sinistra Verdi, o anche il Pd, o il Movimento 5 Stelle – su cui sarebbe necessario fare un discorso a parte – perché anzi vorrei che tutti quelli, molti, che votando per difetto questi partiti sono orientati a sinistra animassero questo nuovo soggetto politico.

Ma ecco – per arrivare finalmente al “piccolo” fatto di cui dicevo sopra – che ho ricevuto a casa le mie due schede elettorali: le ho aperte, le ho esaminate e riesaminate, per constatare con sorpresa che il simbolo di Unione Popolare non c’era. Di fronte all’ignoranza degli amici più politici in Italia, ho cercato nei giornali nazionali, e anche là non ho trovato nulla. Il solo aiuto è stato uno scheletrico articolo sull’Indipendente [Elezioni: 5 milioni di italiani all’estero non potranno votare per i partiti anti-sistema – L’INDIPENDENTE (lindipendente.online)], per mezzo del quale ho rintracciato diverse norme e decreti legge principalmente sulla Gazzetta Ufficiale. Molto velocemente, la storia è questa: per presentarsi alle elezioni ogni partito doveva raccogliere, in una trentina di giorni a cavallo fra luglio e agosto, poco meno di 37000 firme per la Camera e quasi 20000 per il Senato; tuttavia una disposizione del testo unico delle leggi elettorali prevedeva che i partiti o gruppi politici costituiti in gruppo parlamentare in entrambe le Camere all’inizio della legislatura in corso al momento della convocazione dei comizi fossero dispensati dalla raccolta – solo che in seguito, di emendamento in chiarimento, di chiarimento in cavillo, etc., di tale esenzione hanno finito per beneficiare tutti i gruppi che avessero anche solo un deputato in parlamento, anche se nel frattempo avevano cambiato di nome e collocazione, all’esclusione di tutti gli altri – cioè i diversi partiti e formazioni frettolosamente ammucchiati sotto l’etichetta di “antisistema”. L’allora presidente del Consiglio Draghi è stato anche insistentemente sollecitato perché fossero autorizzate, come succede già per i Referendum, le firme elettroniche, per almeno attutire questa iniqua disparità di trattamento; ma non c’è stato niente da fare: è stato necessario, fra luglio e agosto, che i cittadini tornassero al loro comune di residenza e firmassero di persona, e che le firme fossero autenticate da un pubblico ufficiale, nel pieno del periodo estivo, con le città deserte e gli uffici non di rado chiusi … Così, alcuni partiti (ad esempio i radicali dell’Associazione Luca Coscioni) non ce l’hanno fatta; altri, fra cui appunto Unione Popolare, sì. Ma, per rendere il tutto ancor più ingiusto, questi nuovi gruppi, pur essendosi finalmente guadagnati il diritto di partecipare alle elezioni sul territorio nazionale, dovevano andare a caccia di firme anche nella circoscrizione Estero – apparentemente  poche (250 per ripartizione), ma in tempi ristrettissimi e in condizioni ancora più proibitive: come allestire la raccolta in piena estate in un paese straniero?  Risultato: nella lista elettorale estera europea c’erano solo i partiti già con un piede in Parlamento, comprese le miniformazioni come quella di Di Maio, morta prima ancora di nascere. What more is there to say?

Eppure quel che sarebbe dovuto suonare come uno scandalo flagrante, sia pur all’interno di una legge elettorale di per sé già scandalosa anche se in modo diciamo più garbato, è filato via nella più totale indifferenza. Se gli italiani con cui ne ho parlato a Parigi erano effettivamente indignati (e per altro già sapevano), la maggior parte di coloro con cui ne ho parlato in Italia, anche i più di sinistra, hanno accolto la notizia con sostanziale disinteresse, ed erano peraltro all’oscuro di tutta la faccenda. Non è un caso: l’apatia è stata appunto il sentimento predominante con cui la maggior parte della sinistra italiana – nel senso della base, di coloro che continuano a essere orientati in tal senso – ha vissuto il voto del 25 settembre e la nuova situazione che questo ha determinato. Ed è proprio questa apatia generale, questa indifferenza, alternata con un’intristita rassegnazione, questa mancanza di entusiasmo, che mi ha spinto a scrivere queste righe: perché mi sembra la caratteristica più saliente e peculiare, la più dolente, della società italiana oggi, a sinistra e anche al di là.

Ora si potrebbe dire – me lo hanno già detto – che la destra estrema avanza ovunque in Europa e che ovunque, parallelamente, la sinistra è in crisi: l’Italia insomma non farebbe altro che inserirsi nella scia e non meriterebbe una particolare attenzione. Ma non è così, e ci sono diversi motivi per guardare con un occhio particolarmente attento quel che succede in Italia. Certo, la progressione della destra più radicale è indiscutibilmente fenomeno europeo – persino la civilissima Svezia… – anzi mondiale; ma che, ben al di là di una crisi, la sinistra, la sua gente, si sia trasformata e assopita, dissolta, in modo altrettanto radicale, è un fenomeno più originale e tutto italiano, e che molto ha a che fare con il mutamento profondo che ha rimodellato il partito che tradizionalmente ne raccoglieva, nelle istituzioni, buona parte delle aspirazioni: nel PD, il governismo come nuova cultura politica, il progressivo ma convinto appropriarsi della prospettiva neoliberista, la timidezza se non peggio persino per quel che riguarda i diritti civili (includendo anche la posizione sui migranti, sullo ius soli etc.), fino all’assunzione di una gestione unicamente normativa della crisi covid (che ha permesso alla destra di assumere strumentalmente quella vigilanza sulla democrazia e la libertà che negli altri paesi è stata patrimonio della sinistra) sono andate di pari passo con lo spegnersi della sua base dentro la società. E forse lo snodo decisivo che anche spiega l’ascesa irresistibile di questa destra e delle sue idee è la crescente perdita di senso dell’antifascismo cui negli ultimi anni ha contribuito anche una parte della dirigenza progressista. (Fra i tanti episodi di questa perdita di senso e del revisionismo storico che l’accompagna vorrei ricordarne almeno uno, di cui mi sono occupato da vicino ne La frontiera spaesata [La frontiera spaesata – Exorma (exormaedizioni.com)]: la riscrittura semplificata e parziale delle complesse vicende del confine orientale, oramai diventata storia ufficiale della Repubblica, che è sfociata nel subdolo avvicinamento del Giorno del ricordo al Giorno della memoria, con l’aberrante equiparazione, sempre più proposta, tra foibe e Shoah). Ma appunto – ripensando a Piero Gobetti, a Carlo Levi – l’antifascismo che ha fondato la Repubblica italiana è qualcosa che va al di là di questa o quella stagione politica: è l’antidoto strutturale, culturale prima ancora che politico, fondante appunto, a una tentazione ricorrente, e anch’essa ahimè strutturale, della storia nazionale. E poi c’è la capacità che l’Italia possiede di farsi nel bene e nel male laboratorio, contagiando con le sue idee l’Europa, il che è ancor più vero oggi che nel passato, considerando l’importanza che detiene di suo come paese fondatore del progetto europeo: l’hanno ben capito i governi di Ungheria e Polonia, e poi il Rassemblement National, Vox, Alba Dorata, che hanno festeggiato la vittoria di Fratelli d’Italia come se fosse la propria. Insomma, le elezioni italiane più che essere nella scia tracciano un percorso e valgono il doppio, hanno avuto da subito una dimensione internazionale. E vale il doppio anche la dolorosa apatia che le ha accompagnate, e ne accompagna il seguito.

Quando sui miei vent’anni sono arrivato per i miei studi a Parigi mi ha molto colpito una frase di Cocteau: les italiens sont des français de bonne humeur. Per qualche tempo è diventata per me una sorta di mantra, che mi confortava non solo sull’incontenibile allegria e spontaneità dei miei compatrioti italiani, ma anche sulla scontrosità, sulla formalità ingessata dei francesi: la battuta insomma si era gonfiata in una sorta di minianalisi sociologica. Attraverso questo e altri simili stereotipi, positivi o negativi, ho felicemente viaggiato per anni, per piano piano, inconsapevolmente, eroderli, sfumarli, da un lato e dall’altro. E oggi, se dovessi fotografare con un’istantanea la mia  percezione dei due paesi – ma questa volta so che si tratta di una battuta, di uno stimolo di partenza, non di un’analisi sociologica: le culture sono come si è detto organismi complessi e pieni di contraddizioni – mi verrebbe da rovesciarla, la frase di Cocteau: sono gli italiani a risultarmi tristi, a volte cinici, i francesi, tra i quali vivo, più gioiosi, più sognatori e pugnaci – soprattutto i giovani, che costituzionalmente rappresentano il futuro: la Francia del resto, come altri paesi d’Europa, è piena di centinaia di migliaia di ragazzi italiani, che in Italia mancavano appunto di prospettiva.

(Donne, uomini e bambini che escono dall’Italia, donne, uomini e bambini che ci entrano: ho passato giorni e giorni a leggere statistiche, numeri, uno diverso dall’altro e tutti meritevoli di essere analizzati. Tutti comunque, impietosamente, arrivano a una stessa conclusione: l’emigrazione italiana è in costante crescita, e sfiora oramai i livelli dell’immediato dopoguerra, ma soprattutto è di gran lunga superiore, anno dopo anno, all’immigrazione – il che, anche considerando il costante calo demografico che fa dell’Italia uno dei paesi più vecchi al mondo, spiega bene, al di là della propaganda, quale sia la vera emergenza del paese e come questo avrebbe bisogno non di respingere ma di accogliere, di più e meglio, se si vuole rilanciare, se non vuole scomparire…).

Dei tanti aspetti di questa apatia, di questa distrazione, uno mi stupisce e mi interroga particolarmente: a parte qualche salutare eccezione, gli intellettuali italiani tacciono. O meglio, alcuni si sono specializzati a dibattere nei talkshow, la cui portata si esaurisce per definizione all’interno della chiacchiera teletrasmessa, altri si occupano delle loro cose, cioè del loro lavoro, e magari si isolano, si barricano dentro di quello, alcuni esercitando una sorta di antifascismo interiore. Intendiamoci, quel lavoro sa ancora essere di grande qualità, la cosiddetta letteratura critica continua a produrre opere, articoli originali che sorprendono, fanno riflettere – tuttavia, non a caso, da qualche anno a questa parte ha accentuato la propria tendenza necrofila: si moltiplicano le commemorazioni e i tour per celebrare questo o quello scrittore dei bei tempi andati, ma non per proiettarlo nella vita – come i bravi professori cercavano di fare a scuola –  ma per trincerarcisi dentro, come per sfuggire, difendersi dal tempo presente. Quasi mai infatti la parola degli intellettuali, che sia direttamente o indirettamente politica, è concepita per uscire dal cerchio dei propri pari e adepti, il loro legame con la società è sostanzialmente spezzato, persino il sapere critico elaborato dentro le università, che dovrebbero essere luoghi aperti per eccellenza, resta confinato tra le mura sempre più ispessite dell’accademia, separato dal mondo di fuori. Fuori circolano invece fra la gente, con inesauribile vitalità, le imitazioni, le satire, i guizzi dei comici, alcuni geniali: ma possono i comici sostituire la riflessione e la politica? Insomma, vista dalla Francia, l’Italia mi sembra un paese che si chiude in se stesso, nutrendosi di un edonismo stanco, per cui l’aperitivo con gli amici diventa l’obiettivo della giornata: come se la famosa dolce vita italiana, la capacità di perdere tempo e di scherzare, di ridere, lo straordinario senso dell’umorismo, quello star seduto al bar, quel passeggiare chiacchierando liberamente, gratuitamente, rivelassero improvvisamente il loro lato tragico, anche oscuro… L’Italia si diverte ed è depressa, i giovani sognano di scappare. E a volte, sempre di più, tornandoci mi sembra che sia stato un sogno, un’illusione, il paese che mi ha formato ed educato, quello che mi hanno trasmesso i miei genitori: e che comunque non esista più. (Scrivendo questo paragrafo avevo per così dire l’impressione che Leopardi stesse seduto sulla scrivania e soggiungesse: lo vedi? già scrivevo più o meno le stesse cose, esattamente due secoli fa…)

Qualche eccezione, lo dicevo, qualche scintilla c’è, fra gli intellettuali come fra la popolazione in generale, ma il quadro complessivo – rispetto al resto d’Europa – è singolarmente avvilente, esangue: basti pensare a com’erano diversamente reattivi la sinistra, i sindacati – sia pur sulla via dell’evaporazione – ancora durante il ventennio berlusconiano. E credo che chi aspira a riorganizzare una sinistra frantumata, o appunto evaporata, dovrebbe poter nominare questo problema, guardarlo in faccia, e partire da là. A me, a ogni ritorno, o semplicemente ogni volta che ci ho a che fare attraverso i tentacoli di un’amministrazione che non di rado perseguita i suoi soggetti anche all’estero, la società italiana appare come una palude (Pontiggia…), avvolta da una sospensione incantata, e strangolata dall’eterno labirinto legislativo della sua ipertrofica burocrazia (Manzoni…): sembra che nulla succeda – succedono in realtà molte cose, ma subìte – mentre sotto avanzano, s’infiltrano le idee velenose, come se niente fosse… Comunque mai come adesso, in questo ragionamento, sarei felice di sbagliarmi, di essere appunto vittima di un’illusione ottica prodotta dal mio lontano-vicino, e scrivo anche nella speranza che qualche amico mi dica, mi dimostri, che le eccezioni, le scintille, sono molto più numerose e vivaci, e che le buone idee escono fuori dai luoghi del sapere e circolano nella società molto di più di quel che vedo io, dalla Francia. In ogni caso non scrivo per parlar male, o lamentarmi, ma perché credo che sia necessario, dentro e fuori l’Italia, riannodare tutti i fili che possano animare un progetto di resistenza e di speranza.

CONTINUA


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