Gli stereotipi sulle donne arabe
“Le donne subiscono discriminazioni ovunque, a Gaza, in Germania o in Francia. Le stiamo tutte combattendo. Non voglio propagare questo stereotipo della donna araba repressa e velata. Questo è ciò che l’Occidente vuole vedere in noi, ma non siamo noi. Questa forma di orientalismo è una fantasia occidentale che non corrisponde alla realtà. Le donne sono represse in tutto il mondo, non solo nella nostra cultura araba e musulmana. Per favore, non incasellateci”. Sono parole importanti di Asmaa al-Atawna, intervistata da Claudia Mende per Qantara (Ponte) e tradotta da Grazia Parolari per Invicta Palestina, in occasione dell’uscita del suo romanzo d’esordio, Missing Picture, in cui racconta la vita di una ragazza ribelle, lei stessa, che a Gaza lotta a scuola e a casa. Dopo essere fuggita in Europa, dovrà anche lì lottare per la sua autodeterminazione. C’è una tendenza nella letteratura palestinese a nascondere dietro l’occupazione fallimenti e difetti della nostra società, aggiunge Asmaa, ma il vivere sotto occupazione non mi dà il diritto di discriminare il mio vicino perché è nero o perché è donna. Mentre lottiamo contro l’occupazione, possiamo anche combattere contro la società conservatrice. Solo perché viviamo sotto l’occupazione, non siamo sempre solo vittime, no
Signora Al-Atawna, nel suo romanzo racconta come è fuggita da una vita violenta e fortemente limitata a Gaza, arrivando prima in Spagna e poi in Francia, dove vive oggi. Quali parti del suo romanzo sono di fantasia?
Quando ho scritto il mio romanzo ho dovuto fare i conti con un torrente di emozioni e ricordi. Ogni volta che cominciavo ad avere difficoltà nello scriverne, ho cercato di presentare le cose in modo più leggero. Questo perché gran parte di ciò che ho vissuto è stato davvero duro.
Quindi, ho arricchito le parti immaginarie e ho incorporato elementi ironici. Gli avvenimenti del romanzo sono realmente accaduti, ma ho cambiato i nomi per rendere la storia più drammatica. Ad esempio, ho scelto nomi di fantasia per le figure maschili. Nel libro mio nonno si chiama Abu Shanab, “il padre dei baffi”; un altro uomo si chiama Abu Harb, “padre della guerra”. I nomi hanno lo scopo di sottolineare il carattere patriarcale degli eventi.
Ho utilizzato i miei ricordi, ma quando non riuscivo a ricordare una scena, vi aggiungevo qualcosa. La chiamo “fiction documentaria”. Volevo che il lettore potesse sentire ciò che ho vissuto.
Questo le ha permesso di creare una sorta di distanza tra lei e il testo?
Sì e no. C’è una distanza perché ho aspettato 20 anni per scrivere questo libro e raccontare la mia storia. Tuttavia, mentre scrivevo, il dolore era ancora lì.
D’altra parte, non c’è distanza, perché riguarda la mia vita. Il modo migliore in cui posso descriverlo, è che ho scritto questo romanzo con il mio sangue, sudore e lacrime.
I travagli dell’occupazione israeliana sono molto presenti nella letteratura palestinese. Ma scrive anche di come lei, in quanto ragazza ribelle in una famiglia conservatrice, sia stata limitata, o della discriminazione verso i palestinesi neri.
C’è una tendenza nella letteratura palestinese a dire: “Viviamo sotto l’occupazione israeliana, faresti meglio a non scrivere di questo o quello” – come per nascondere dietro l’occupazione i nostri fallimenti e difetti. Ovviamente uno influenza l’altro.
Ma mentre lottiamo contro l’occupazione, possiamo anche combattere contro la società conservatrice. Possiamo lavorare su entrambe contemporaneamente. Solo perché viviamo sotto l’occupazione, non siamo sempre solo vittime, no.
Nella nostra società, dobbiamo anche affrontare la discriminazione delle donne. Il vivere sotto occupazione non mi dà il diritto di discriminare il mio vicino perché è nero o perché è una donna.
Le due cose non sono correlate? La pressione dall’esterno intensifica la violenza all’interno delle famiglie.
Precisamente, ecco perché nel mio romanzo non giudico. Questa è forse la distanza tra me e il testo. Scrivo del quartiere di Gaza dove sono cresciuta.
Gaza è una delle regioni più povere del mondo, accerchiata dall’esercito israeliano. La gente non ha lavoro, non ha soldi e non può andarsene. Che cosa si può fare? Ci sono un sacco di pettegolezzi e si guarda a quello che fanno i vicini. Le esperienze violente e traumatiche vengono trasmesse da una generazione all’altra.
Mia nonna ha perso la testa quando gli israeliani l’hanno cacciata da casa sua nel Negev e lei e mio nonno sono dovuti scappare a Gaza per sopravvivere. Anch’io ho vissuto il suo trauma.
“La donna araba si libera dalla sua cultura repressiva” è uno stereotipo comune in Occidente. Come è possibile scrivere di discriminazione, evitando allo stesso tempo questo cliché?
Non ho intenzione di promuovere questo cliché. Nelle mie letture scopro regolarmente che le donne – anche qui in Germania – si riconoscono nelle mie esperienze. Le donne subiscono discriminazioni ovunque, a Gaza, in Germania o in Francia. Le stiamo tutte combattendo.
Non voglio propagare questo stereotipo della donna araba repressa e velata. Questo è ciò che l’Occidente vuole vedere in noi, ma non siamo noi. Questa forma di orientalismo è una fantasia occidentale che non corrisponde alla realtà. Mia madre, per esempio, non sa né leggere né scrivere, è andata a scuola solo per poco tempo e ha dovuto lasciarla per aiutare in casa, ma è molto forte.
In Europa, ci sono donne arabe che promuovono deliberatamente questo stereotipo nelle arti e nella cultura come un modo per costruirsi una carriera. Alimentano questa fantasia e non credo sia un bene. Le donne sono represse in tutto il mondo, non solo nella nostra cultura araba e musulmana. Per favore, non incasellateci. Date un’occhiata più da vicino. Voglio aprire il dibattito invece di chiuderlo.
Nella sua ambivalenza, sua madre è il personaggio più coinvolgente del libro. Da un lato picchia i suoi figli e non ce la fa, dall’altro sa esattamente cosa vuole.
Oh sì, mia madre è una donna forte. Quando avevo circa 11 anni, l’ho vista correre dietro a un uomo e mordergli l’orecchio (ride) perché molestava mio padre al lavoro. Mio padre non voleva fare nulla, ma mia madre sì. Mentre eravamo seduti fuori l’uomo passò, lei lo inseguì, lo morse e gli gridò che avrebbe dovuto lasciare in pace suo marito. Lo ricordo ancora oggi.
Tuttavia, c’è un’enorme differenza tra la generazione più anziana e quella più giovane di donne arabe. Le donne più giovani sono molto più radicali. Questo è evidente anche in letteratura.
Sì, oggi la giovane generazione sta facendo sentire la sua voce nella letteratura, nella musica e nel cinema in un modo totalmente diverso rispetto alla vecchia generazione. Da dove veniamo, c’è molto in gioco. Ci sono donne che rischiano la vita per poter frequentare la scuola.
In Europa, le femministe discutono se dovremmo o meno raderci i capelli. Non mi interessa questo tipo di femminismo, dobbiamo affrontare le questioni cruciali, qui e nel mondo arabo, dove molte donne hanno paura di cosa accadrà se denunciano gli abusi. Dobbiamo essere più forti delle nostre madri, altrimenti non abbiamo alcuna possibilità.
Il suo libro è apparso per la prima volta in arabo attraverso l’Arab Fund for Arts and Culture (AFAC) a Beirut. Come è stato accolto nel mondo arabo?
Ho partecipato a un concorso e ho vinto una borsa di studio dell’AFAC, che prevedeva l’editing e la pubblicazione del libro. Dopo l’uscita il romanzo, un libro che delinea ciò che non va nelle nostre società, è stato largamente ignorato dai media arabi.
L’unico giornale a pubblicare una recensione è stato il libanese L’Orient-Le Jour. Ero molto rattristata da questo, ma poi ho pensato che il libro avrebbe trovato la sua strada. Ed è esattamente quello che è successo.
Ho ricevuto molti feedback positivi su Facebook dalle donne arabe, e questo è molto importante per me. Vorrei incoraggiare altre donne, specialmente nel settore culturale arabo. Lì ci si aspetta che le donne tengano la bocca chiusa, soprattutto se criticano le nostre società. Quando pubblicano qualcosa che sconvolge la società, vengono respinte e tutti puntano il dito contro di loro. Ma questo è qualcosa che dobbiamo affrontare, altrimenti non cambierà mai nulla e continueremo ad avere paura di essere noi stesse.
Nel libro descrive la violenza brutale nella sua famiglia. Ma il suo romanzo è anche una lettura leggera. Fa un uso consapevole dell’ironia per ammorbidire le cose difficili per il lettore?
Basta guardare Charlie Chaplin o Buster Keaton, anche loro hanno utilizzato risate ironiche. Volevo mostrare come la tragedia possa essere trasformata in commedia, esprimendone così l’assurdità. E questo è molto palestinese. Ridiamo molto a Gaza, è in parte così che resistiamo alla situazione. Ci prendiamo gioco di tutto, degli israeliani, di Hamas e di noi stessi. A volte è tutto troppo, ma poi torniamo a raccontare barzellette. Possiamo connetterci meglio attraverso le risate che con le lacrime. Vogliamo solo vivere la nostra vita.
Asmaa al-Atawna è nata a Gaza nel 1978. All’età di 18 anni è fuggita dal paese, stabilendosi infine in Francia. Ha studiato scienze politiche e cinema sperimentale e ha lavorato come giornalista e scrittrice. Vive a Tolosa
Fonte: Qantara.de English version
Traduzione di Grazia Parolari per Invicta Palestina “Tutti gli esseri senzienti sono moralmente uguali”
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