06 aprile 2023

MAFIA e POLITICA SUL CASO BORSELLINO

 


Anche sulla strage di via D'Amelio in cui perse la vita Paolo Borsellino le ombre si vanno diradando. Anche in questo caso pezzi dello Stato hanno dato una mano alla mafia. (fv)

Dall'edizione palermitana di Repubblica 7 aprile 2023

DEPISTAGGI, LE MOTIVAZIONI DELLA SENTENZA

Gli smemorati di via D’Amelio” Indagine su 4 poliziotti

di  Salvo Palazzolo

Adesso ci sono quattro poliziotti sotto accusa per i misteri di via D’Amelio. Quattro testimoni dell’ultimo processo, quello per il depistaggio delle indagini e il falso pentito Vincenzo Scarantino: « L’ispettore Maurizio Zerilli ha detto 121 “non ricordo”, e non su circostanze di contorno » , scrive il tribunale di Caltanissetta nelle motivazioni della sentenza che nel luglio scorso hanno giudicato altri tre poliziotti ( uno assolto, altri due hanno beneficiato della prescrizione). Oltre cento i “ non ricordo” di un altro ispettore, Angelo Tedesco. Ben 110 ne ha collezionati il suo collega Giuseppe Di Ganci. Il quarto poliziotto del gruppo che avrebbe dovuto indagare sui misteri delle stragi, Vincenzo Maniscaldi, «non si è trincerato dietro ai “non ricordo”, ma si è spinto a riferire circostanze false», scrive il collegio presieduto da Francesco D’Arrigo. I verbali delle quattro deposizioni sono stati trasmessi alla procura. E per i poliziotti si profila l’iscrizione nel registro degli indagati per falsa testimonianza. A occuparsi del caso è adesso il sostituto procuratore Maurizio Bonaccorso. Non usano mezzi termini i giudici di Caltanissetta: « Nel clima di omertà istituzionale il dibattimento ha consentito di cristallizzare quattro ipotesi nelle quali soggetti appartenenti o ex appartenenti alla polizia di Stato e al gruppo Falcone e Borsellino hanno reso dichiarazioni insincere». È la nube che ancora avvolge via D’Amelio, dove scomparve l’agenda rossa di Paolo Borsellino. « Può ritenersi certo — dice la sentenza — che la sparizione dell’agenda rossa non è riconducibile a un’attività materiale di Cosa nostra». E se non l’hanno rubata i mafiosi, chi è stato? La lista dei testi “smemorati” di via D’Amelio è destinata ad allungarsi: i giudici stigmatizzano le dichiarazioni dell’ex pm Giuseppe Ayala, che quel pomeriggio tenne in mano la borsa di Paolo Borsellino, consegnandola poi a un «ufficiale dei carabinieri» rimasto senza nome: « Appare inspiegabile — scrivono — il numero di mutamenti di versione rese nel corso degli anni in ordine alla medesima vicenda dal giudice Giuseppe Ayala, pur comprendendosene lo stato emotivo profondamente alterato». Lui, oggi, si sfoga: « Continuo adavere un grande rispetto per i giudici, ma sono davvero amareggiato per quello che scrivono. In quel momento mi ero appena imbattuto nel cadavere del mio amico Paolo, che era senza gambe e senza braccia. Ho fatto fatica a riconoscerlo. E c’era questa storia della borsa, ovviamente chiusa. Io ignoravo il contenuto e mi sono confuso». Fra i misteri dell’agenda rossa, i giudici fissano adesso alcuni punti fermi: «Quel che è certo è che la gestione della borsa di Borsellino dal 19 luglio al 5 novembre è ai limiti dell’incredibile: nessuno ha redatto un’annotazione o una relazione sul suo rinvenimento, nessuno haproceduto al suo sequestro, nonostante subito vi fosse stato un evidente interesse mediatico scaturito » . Così chiamando in causa il capitano dei carabinieri Giovanni Arcangioli, che tenne in mano la borsa. E poi l’allora capo della squadra mobile Arnaldo La Barbera. Ma su quest’ultimo, ritenuto da sempre il regista dell’operazione Scarantino, il tribunale spazza via le ombre di mafia: «Non c’è prova che sia stato a disposizione dei Madonia». Allora perché La Barbera trasformò un balordo di borgata in un provetto Buscetta? La tesi dei giudici è che «abbia agito per finalità di carriera » , che « abbia fatto letteralmente carte false per poter mantenere e accrescere la propria posizione all’interno della polizia di Stato e nell’establishment del tempo». Tesi che non convince la procura di Caltanissetta e i familiari delle vittime, che daranno battaglia in appello. Ma nell’ultimo processo ci sono spunti anche per le indagini, che la procura di Caltanissetta diretta da Salvatore De Luca prosegue. Scrive il tribunale: « Il movente dell’eccidio di via D’Amelio certifica la necessità per soggetti esterni a Cosa nostra di intervenire per alterare il quadro delle investigazioni evitando che si potesse indagare efficacemente sulle matrici non mafiose della strage».


Dall'edizione palermitana di Repubblica

7 aprile 2023

INTERVISTA AL PENTITO

Santino Di Matteo “Non nascondo nulla nel ’95 svelai per primo l’imbroglio Scarantino”

Santino Di Matteo, ha sentito cosa scrive di lei il tribunale di Caltanissetta? «Si ritiene che il collaboratore sia a conoscenza di altri particolari riguardanti le stragi, riguardanti soggetti istituzionali». «Con tutto il rispetto per i giudici, si tratta di fantasie. Io sono stato il primo a smascherare Scarantino: quando mi misero a confronto con lui, capii subito che era un impostore. E lo dissi chiaramente a verbale. Ma, allora, i magistrati della procura di Caltanissetta non mi diedero ascolto». Ora, però, il tribunale nisseno fa riferimento all’intercettazione di un dialogo fra lei e sua moglie, dopo il rapimento di vostro figlio. Sua moglie le diceva: «Devi pensare alla strage Borsellino, c’è stato qualcuno che ha preso...». E poi, dopo alcune parole incomprensibili, sua moglie diceva ancora: «Capire se c’è qualcuno della polizia infiltrato pure nella mafia». Cosa vogliono dire queste frasi? «Guardi, è trent’anni che mi fanno la stessa domanda. Io ho sempre detto che di questa conversazione non so proprio nulla, cioè non esiste. L’avranno trascritta male». Oggi, i giudici scrivono che lei non dice la verità su questo punto «per un timore evidentemente ancora attuale per la vita propria e dei suoi familiari». «Ma cosa sta dicendo? Io ho pagato un prezzo altissimo per le dichiarazioni che ho fatto alla magistratura: hanno rapito e ucciso mio figlio perché sono stato il primo a parlare della strage di Capaci. E poi, dopo che hanno ucciso mio figlio in quel modo, pensa che mi interessasse eventualmente proteggere ancora qualcuno?». Lei ha mai conosciuto appartenenti ai servizi segreti? «Conoscevo quel Paolo Bellini che parlava con Antonino Gioè, ma all’epoca non sapevo che ruolo avesse». Però la parola “infiltrati” lei la ripete più volte nel dialogo con sua moglie. A chi si riferiva? «Io ho avuto un colloquio con mia moglie per parlare esclusivamente del fatto di Giuseppe. Non mi interessava parlare di altro. A parte, lo ripeto, che non conoscevo alcun infiltrato». Mi scusi, ma i magistrati hanno riascoltato l’intercettazione. E sua moglie dice proprio quelle parole. Come la mettiamo? «Lei deve dirmi perché io avrei dovuto mentire. In trent’anni, le mie dichiarazioni sono state sempre riscontrate dai giudici. E ancora oggi vengo chiamato a testimoniare nei processi. Di recente sono stato convocato pure al processo per l’omicidio del poliziotto Agostino». Però è stato estromesso dal programma di protezione. «Ma non certo per qualche carenza nelle mie dichiarazioni, solo perché all’epoca lasciai la località protetta e andai a cercare mio figlio. Poi ho fatto pure ricorso al giudice amministrativo contro l’estromissione dal programma di protezione. E il Consigio di Stato ha detto che ho diritto a essere protetto». Per i giudici di Caltanissetta il colloquio con sua moglie resta un mistero. «Tutto ciò mi addolora. Se nel 1995, dopo il confronto con il falso pentito Scarantino, mi avessero dato ascolto, non saremmo arrivati a questo punto». — s. p.



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