19 aprile 2023

ECOLOGIA DEL MITO

 


ECOLOGIA DEL MITO

di Marco Marino

Il desiderio di essere ninfa

Potrebbe sembrare soltanto una semplice coincidenza, ma questa simultaneità musicale è troppo affascinante per non indagarci sopra. Il 31 marzo di quest’anno due protagoniste delle scene pop nazionali e internazionali, Madame e Melanie Martinez, pubblicano i loro nuovi album, L’amore e Portals, ed entrambe si trovano a descrivere lo stesso prepotente desiderio di essere una ninfa. Una divinità naturale dei boschi, dei laghi o dei fiumi, una presenza mitologica.

«Sono nata nimpha e nimpha morirò» canta Madame in Nimpha – La storia di una ninfomane, raccontando una relazione impossibile in cui la ninfa esige dal suo amante una passione sempre più forte, sempre più intensa, di quella che lui riesce a corrisponderle: «Oh oh oh nimpha/Che succhi la mia linfa/ Ti getterei nel mare/ Per non vederti più».

Il medesimo sentimento, di amore mai esausto, viene richiamato nei versi di Nymphology di Melanie Martinez. La cantautrice statunitense, infatti, comincia anche stavolta con un’esortazione alla sua amata e le dice come vuole essere chiamata: «Tell me your nymph» (‘Chiama me tua ninfa’). E descrive il loro legame come una relazione che non riguarda l’anima, la psiche, ma l’essere ninfa, ovvero l’essere natura, solo e puro corpo: «It’s nimphology, not psychology» (‘È ninfologia, non psicologia’).

A questo punto, l’immedesimazione delle due artiste nei panni degli spiriti greci potrebbe inserirsi facilmente all’interno di qualche suggestivo meccanismo poetico, e relegarsi tra le metafore già viste e sentite nei canzonieri di tutti i secoli. Eppure, oggi il ritorno delle ninfe forse non è un riferimento così neutro come risulta in apparenza.

Perché la figura della ninfa, prima che evocare una condizione di sentimento estremo, annuncia un paesaggio, un ambiente preciso, uno spazio che viene custodito e protetto; le ninfe stesse assumono nomi diversi secondo il loro luogo di appartenenza: le Naiadi si trovano nei laghi o nei ruscelli, le Driadi nelle foreste, le Oreadi sui monti.

Quindi, parlare di ninfe significa innanzitutto parlare di paesaggio. Di una dimensione a cui tornare, di una geografia fisica, sentimentale e mitologica da ritrovare. Parliamo di natura quando parliamo di ninfe, ci riferiamo a laghi, ruscelli, foreste e monti, ma segnatamente come sinonimi dell’amore originario, dell’amore che costituisce la natura, dell’amore che è natura, quella forza ancora non macchiata dalle complicazioni del genere umano.

Allora, non sarà ancora frutto del caso la copertina di Portals di Melanie Martinez, che raffigura appunto una divinità silvana, il cui corpo è totalmente ricoperto di erbe, petali e funghi. Come non sarà fortuita la scelta di Madame di utilizzare nella sua canzone continue allusioni all’universo botanico («succhi la mia linfa»). Le due autrici, nei loro nuovi album, ci stanno dando prova di una materia tutta da esplorare, che potremmo definire «ecologia del mito».

Ecologia del mito

Questo concetto si fonda su un’idea facilmente riassumibile in alcuni principi: utilizzare la mitologia per risvegliare una profonda e complessa coscienza dell’ambiente che abbiamo attorno; sovrapporre sapientemente il paesaggio del mito al paesaggio contemporaneo per leggere la loro vicinanza o la loro distanza da noi; in ultimo, preservare e custodire la natura come eredità mitica, come lascito diretto, ma fragilissimo, delle ultime divinità che hanno popolato questo pianeta.

Sotto questa lente, è molto affascinante rintracciare i componimenti della poetessa Irina Ermakova, che è appena ritornata sugli scaffali delle librerie italiane con un’antologia dei suoi lavori, Lo specchio di bronzo (Einaudi, 2023, a cura di A. Niero). C’è una sua poesia che si intitola Pan, nella quale viene dipinta l’attuale vita dell’ultimo dio primitivo, «dalle zampe di caprone cornuto irsuto di fetido pelo», intento a suonare il suo flauto come ha sempre fatto dall’origine dei tempi. Ma adesso il suo pubblico non si ferma esclusivamente alle ninfe e ai ruscelli; dalla lontana Arcadia il suono delle sue melodie arriva fino ai gelidi letti di Mosca, fino ai soldati falcidiati dalla guerra, per i quali l’incanto dello zufolare divino è inutile e vano. Scrive Irmakova: «Ai soldati morti dispersi sulle montagne lontane/ Che mai ci importa il nostro onesto sonno ci ha sottratto tutto/ Tu invano zufoli sbrigliando il canto sopra il nostro cumulo di neve».

Per riprendere la nostra riflessione ecologica, la poetessa crimeana costruisce un contesto mitologico in cui il dio Pan richiama l’immagine del paesaggio incontaminato, florido e sorgivo che precede il gelo di ogni guerra. Però quell’immagine ormai ha del tutto perso senso, perché la guerra è giunta e ha spodestato Pan, ha corrotto quel paesaggio con la paura e la morte dei campi di battaglia, lo ha soffocato sotto cumuli di neve. Pan, allora, è diventato in ultima istanza una speranza di pace, un terreno sterminato dove la musica non si confonde con gli echi degli spari.

Questo testo è comparso per la prima volta intorno al 1998, e si legava al tragico destino che in quel periodo scontava la Cecenia; se pensiamo all’attuale situazione bellica tra Russa e Ucraina, non risulta difficile constatare che Pan continui il suo silenzio.

Cronaca di una morte annunciata

 In verità, sui silenzi, e sulla conseguente scomparsa, del Signore dei Pascoli (il suo nome deriverebbe dal verbo paein, che significa «pascolare») si dibatte sin dall’epoca dell’imperatore Tiberio. Il primo a riportare la notizia fu lo storico Plutarco nell’opuscolo Sul crepuscolo degli oracoli, che ne annunciava la morte dalle rive dell’isola di Paxos. Ma mai nessun esploratore si è messo alla sua ricerca per verificare la fondatezza di quel tragico annuncio. Nemmeno James Hillman, il quale all’inizio del suo Saggio su Pan (Adelphi, 1977) sottolineava che il viaggio da compiere sulle tracce di Pan non dovesse essere geografico ma psicologico («immaginale»).

Nessuno dicevamo, quindi, almeno finora. Duemila anni dopo. Perché sta per essere pubblicato il resoconto di un reale viaggio greco di Filippo Tuena, In cerca di Pan (nottetempo, 2023), che si sposta lungo chilometri di navigazione, da Brindisi fino a Tomis, arrovellandosi attorno alla grande domanda irrisolta: il Grande Pan è morto davvero?

Ritornando a Paxos, infatti, lo scrittore romano non recupera alcuna memoria funebre. Nessuna voce ne ricorda il trapasso. In lui sorge il dubbio che il nume possa essere ancora vivo, nascosto e dimenticato in un angolo segreto dell’Ellade. Da questo punto allora prosegue un itinerario, trascritto in prosa e in poesia, in cui Tuena continuamente fa ecologia del mito, permettendoci di osservare da vicino i luoghi anticamente riservati solo agli dèi e agli eroi. Come nel suo passaggio a Delfi per rinvenire ciò che resta del leggendario oracolo: «[…] bevendo alla fonte Castalia che sgorga dalle pendici del monte – e io l’ho fatto in precedenti pellegrinaggi – si verrebbe in contatto con la Verità. La questione è che se il contatto avviene, non viene percepito come tale poiché chi è in grado di stabilire cosa sia la Verità. La fonte esiste da sempre, rendendoci tutti minimi, imberbi, appena nati».

Di questi luoghi, popolati da ninfe e satiri, In cerca di Pan ci fa sentire nuovamente custodi, ci permette di prendere coscienza della loro misteriosa bellezza. Mette le nostre responsabilità di fronte a ciò che è assoluto, a ciò che precede la storia. Un esempio chiarissimo ci viene restituito dalla visita al tempio di Poseidone, in una collina rocciosa di Capo Sunio: «Credo vogliano ammirare il tempio di Poseidone, per quanto è la visione dal basso a dare misura concreta della sua terribilità. La visita da terra per essere efficace deve contare della coincidenza con venti battenti e mare in tempesta. A Poseidone non si addicono mari quieti e zefiri leggeri come quelli odierni. Abbiamo visto la scialuppa dirigersi verso un’orrida costruzione in cemento dal color senape scuro che domina la piccola spiaggia vicina al promontorio. Si tratta di un giusto contrappasso al tempio. Manifesta la nostra incapacità di cogliere il sacro e saperlo difendere».

L’incapacità di cui leggiamo è la colpa che ci ha reso sordi o ciechi nella ricerca di Pan, ovvero che ci ostacola dal riconoscere l’anima del paesaggio e la sua secolare rovina.

Sembra che l’unica speranza – a margine di questa breve riflessione mitologica – sia seguire l’esempio del nostro autore, mettersi in viaggio, ritornare alla Grecia, perdersi nella natura, ricominciare a dialogare con le ninfe, chiedere loro di Pan, se è vivo, se è morto, chiedere una nuova strada per l’umanità. Tornare indietro.

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