05 marzo 2024

BORGESE RISCOPERTO

 


ANTONIO BORGESE, LA LEALTÀ DELLA PAROLA

A settant'anni dalla morte, riediti due testi da Nave di Teseo

di Barbara Distefano

 

Vizi di forma

«Se ognuno nella lontananza dalla patria soffre, la sofferenza dello scrittore è doppia; perché non solo i legami degli affetti, ma quelli del linguaggio, gli sono vivi e dolenti in ogni fibra». Con queste e altre parole, scritte a Boston il 18 agosto 1933, un accademico di nome Giuseppe Antonio Borgese intendeva comunicare a Benito Mussolini che non avrebbe mai firmato il giuramento di fedeltà al regime. Romanziere amato da Giacomo Debenedetti, vera e propria autorità della critica militante dell’epoca (ai suoi articoli su «La Stampa» e «Il Corriere» si devono la categoria di poesia «crepuscolare», nonché la scoperta di autori come Tozzi e Moravia), con quella lettera Borgese prendeva coscienza di una cosa precisa: il suo soggiorno all’estero in qualità di visiting professor all’Università di Berkeley (motivo per cui, tecnicamente, il giuramento del 1931 non gli era stato chiesto) era un vero e proprio esilio oltreoceano. «La scrittura della lettera a Mussolini è stata finora il momento più bello, o il momento più alto, della mia vita», avrebbe detto qualche mese dopo. E per una presa di posizione chiara e definitiva, quella stessa lettera sarebbe arrivata (con la nota di Borgese «Ecco il mio suicidio») a un altro antifascista in esilio, Gaetano Salvemini, affinché venisse pubblicata sui «Quaderni di Giustizia e libertà».

Tra i pochissimi professori universitari italiani che non dichiararono fedeltà al regime, Borgese fu, di fatto, l’unico a rimetterci la pensione, e il solo a non figurare ufficialmente fra gli accademici antifascisti: poiché si trovava in visiting, un decreto ministeriale del 20 novembre 1934 lo dichiarò, meno politicamente e più burocraticamente, «dimissionario». La chiara fama di oppositore al regime, però, gli venne da Goliath, The march of Fascism, stampato a New York nel ’37: il libro con cui provò a spiegare il fascismo italiano agli stranieri rileggendo Dante e Machiavelli. Saranno ben diciassette, alla fine, gli anni che vedranno Borgese – nato nel 1882 a Polizzi Generosa, sulle Madonie – spostarsi in diversi atenei americani, dalla Columbia di New York all’Università di Chicago, e assistere a quel momento storico in cui «l’università che aveva generato la bomba atomica ne deprecava l’uso» (Borgese, 1958).

Nel settantesimo anniversario della morte dello scrittore, scomparso a Fiesole il 4 dicembre del 1952, e in coincidenza con il centenario della marcia su Roma, una felice collaborazione tra La Nave di Teseo e la Fondazione Giuseppe Antonio Borgese restituisce al pubblico due testi – entrambi pensati e scritti in lingua inglese – di una delle personalità più complesse, poliedriche, e anche controverse del primo Novecento italiano. Di Golia esisteva già un’edizione italiana, pubblicata subito dopo la fine della guerra, nel 1946, da Arnoldo Mondadori: lo stesso editore che nel 1935 aveva ritenuto inopportuno un nuovo contratto a Borgese: secondo la versione ufficiale, per via di una «situazione singolarissima dell’odierno mercato librario» (Gerbi, p. 68). I Fondamenti della repubblica mondiale – originariamente Foundations of the World Republic, pubblicati postumi dalla University of Chicago Press, nel 1953 – appaiono, invece, per la prima volta in lingua italiana, tradotti da Lorenzo Matteoli e Andrea Terranova; e contengono, in appendice, il Disegno preliminare per una Costituzione mondiale (già ristampato qualche anno fa dalle Edizioni di Soria e Letteratura di Roma): ossia, quel Preliminary Draft of a World Constitution, che lo scrittore aveva elaborato negli Stati Uniti insieme a un apposito comitato, e a cui aveva collaborato anche Elizabeth Mann, figlia di Thomas Mann, nonché seconda moglie di Borgese. A quella bozza di costituzione, che gli valse una proposta di nomina al Nobel per la pace del ‘52, negli ultimi anni di vita lo scrittore guardò come all’opera più importante della propria esistenza, in linea con il suo «caparbio umanesimo» (Di Grado, 2012), e con quell’idea di letteratura intesa come buona azione a cui ambiva da sempre: «Aspiro, per quando sia morto, a una lode: che in nessuna mia pagina è fatta propaganda per un sentimento abietto o malvagio» (Sciascia, 1985).

Pensieri e parole

L’antifascismo di Borgese è fatto anche di silenzi. Nel ’25 lo scrittore non firma il manifesto degli intellettuali antifascisti redatto da Benedetto Croce, probabilmente per un contrasto d’altra natura con il filosofo napoletano, a cui il giovanissimo Borgese («una delle migliori speranze degli studi letterarii in Italia», credeva Croce, salvo accusarlo, qualche anno dopo, d’essersi messo a fare il giornalista piuttosto che lo studioso) doveva la pubblicazione della propria tesi di laurea e lo spazio riservatogli su «La Critica». L’anno prima, l’autore tace davanti al delitto Matteotti. Golia, però, farà spazio all’ipotesi che Mussolini abbia ucciso il segretario del PSI non con le parole, ma addirittura con il pensiero: «Nonostante tutte le prove raccolte, una mente oggettiva a cui non piace addossare sulle spalle di un suo simile più colpa di quanto non sia strettamente necessaria può ancora supporre che i gregari di Mussolini diedero un’interpretazione erronea e brutale alle sue parole, e che mentre egli manifestava ira o proferiva minacce nel tono sanguinario degli ubriaconi di Romagna, essi credettero di capire nelle sue frasi violente ma imprecise una condanna a morte [...] Ma noi non siamo seguiti solo dalle nostre azioni, ma anche dai nostri pensieri e dalle nostre passioni. Le forze del male e il desiderio di violenza che noi abbiamo scatenate nella nostra fantasia lavorano da sole senza curarsi delle intenzioni nel momento specifico; e le frecce del nostro desiderio colpiscono bersagli che la nostra coscienza non aveva mirati» (p. 342). Il silenzio di Borgese, dunque, somiglia a quella lotta interna di parole cara al suo conterraneo Sciascia, che gli dedicherà le pagine di Per un ritratto dello scrittore da giovane: il silenzio proprio dei siciliani «che si rodono dentro e soffrono», coltivando la «silenziosa fragile speranza dei siciliani migliori» (Sciascia, 1958). «Io credo che ogni disperazione è fascista», si legge in Golia (p. 34).

Liberi e ingrati

Non mancano, quindi, i margini di ambiguità (Gerbi, p. 44) nella parabola letteraria e politica di Borgese, i cui diari americani, custoditi dalla Biblioteca dell’Università di Firenze, sono ancora parzialmente inediti: «uomo portato a peccare fortiter in un suo mito di azione letteraria», come lo definì Debenedetti, che con il suo «modello umanistico, ottocentesco, grande-borghese, polemicamente scelto nel pieno del caos novecentesco e piccolo-borghese» (Di Grado, 2020), riesce ad amare profondamente l’amico Gozzano («per questo – scriverà nel ’17 introducendo Verso la cuna del mondo – egli è e rimane un maestro: per avere contribuito a restaurare nella nostra lirica il gusto del parlare sobrio e a bassa voce, del riferire l’esperienza interna qual è, del collocare il valore poetico nell’accentuazione più che nel lessico: per aver dunque lavorato a rimettere in onore la verità dell’emozione e la lealtà della parola»), e contemporaneamente, a ripudiare D’Annunzio senza alcuna ferocia («Anche allora – si legge nella raccolta di saggi Risurrezioni – non mi andava a garbo quel tono radicalmente negatore verso D’Annunzio che era ed è proprio dei dannunziani incorreggibili, i quali, pieni zeppi del suo spirito, credono di diventar liberi mostrandosi ingrati»). Anche per questo genere di contraddizioni, Vittorini l’avrebbe ritenuto colpevole di imparentarsi – lui in senso pure letterale – a tutta la schiera di autori decadenti e “impolitici” da bandire in nome di «una nuova cultura» (Di Grado, 2012).

Guerra e pace

«Propaganda» («una violenza le cui armi sono le parole», p. 276) è una delle tante parole che Borgese cerca di definire e risemantizzare nei Fondamenti, un’opera che – portando avanti la tesi che l’epoca delle nazioni sia finita – riflette sul cambiamento dei significati di parole come «guerra» (da istituzione sacra e irrecusabile a «crimine» p. 463) e «pace» («sopravvivenza, un termine infelice, scelto da Roosevelt per la seconda guerra mondiale, vuol dire arrendersi a metà. La volontà di vivere va molto al di là della sopravvivenza», p. 126), non senza tirare in ballo la letteratura: «La letteratura dell’armistizio della prima guerra mondiale, in qualunque lingua, in qualunque genere letterario, poema o dramma, storia o diario, è un lamento unico e [...] infinita ripetizione dello stesso disgusto e dello stesso orrore» (pp. 161-162). Il problema della lingua universale, centrale nei Fondamenti («Sono ancora alti i muri linguistici che dividono in orticelli parrocchiali lo spazio globale dell’intercomunicazione, gli interpreti e le cuffie alle riunioni internazionali a malapena li controllano», p. 79), Borgese se lo poneva già – seppure diversamente – in Golia: «perché Dante non scrisse la Divina Commedia nella lingua di Roma, in quel latino che era la lingua dell’impero e della Chiesa? Se il suo sogno e il suo concetto possedevano, com’egli voleva che possedessero, una validità universale, perché non scelse il latino che era la lingua universale?» (p. 55). E se il governo mondiale vagheggiato dallo scrittore ha come precondizione la fine della guerra fredda, che gli pare «una guerra di parole» attorno all’ambiguità del concetto di «giustizia» (p. 276), i Fondamenti – primo di una serie incompiuta di tre libri che, non a caso, si sarebbero dovuti intitolare Sintassi – poggiano su un problema di lessico: «non c’è nessun pericolo più serio per la nostra civiltà della volgarità con la quale abbiamo dequalificato l’uso di parole come giustizia, libertà, uguaglianza, democrazia, fraternità» (pp. 221-222).

Swim or sink

Dopo il pestaggio di alcuni suoi allievi all’Università di Milano, nel febbraio del 1931, Borgese si era subito messo a studiare l’inglese con il metodo Berlitz, nell’ottica di recarsi a tenere i suoi corsi in un’università americana. Il germanista Borgese conosceva bene il tedesco, anche in virtù degli anni trascorsi a Berlino in qualità di corrispondente, ma con la moglie Elizabeth, che pure parlava l’italiano, comunicherà sempre in inglese. Golia gli costerà «una grande fatica tecnica, perché «lo scrivo in inglese, lingua in cui so dire certe cose ma non certe altre» (p. 13); e la scelta di scrivere in inglese l’aveva fatta «non per lusso ma per la necessità che forzava l’italiano emigrato, chiusaglisi la patria, a farsi sentire nella lingua nuova se voleva farsi in qualche modo sentire, [...] feci del mio meglio, come altri già aveva fatto nel Risorgimento, per avanzare in inglese; onde, a chi con cortesia d’ospite me ne faceva merito, dicevo swim or sink, cioè “bere o affogare”» (pp. 27-28). Con il tempo, Borgese «comincia – come nota Robert Redfield nell’introduzione ai Fondamenti – a pensare e a scrivere in inglese, nuova “sua lingua che rielaborò”, addirittura fino a “sviluppare l’interlingua, un latino evoluto”, necessaria per un mondo unificato» (p. 25).

Melodie e litanie

Borgese era nato in Sicilia («Io crebbi davanti ai grandi orizzonti; e udivo suoni remoti», scrive in Tempesta nel nulla), ma aveva attraversato lo Stretto giovanissimo (nel 1908 fu il primo cronista a dare notizia del terremoto di Messina) in direzione di sola andata. Nel 1931, prima di salpare per l’America e impadronirsi dell’inglese, tenne una conferenza a Catania e disse: «la stessa mia parola, nonostante la patina spessa che il parlare la lingua comune, imparata, della nostra nazione vi ha messo, nonostante la lunga dimestichezza con altri linguaggi e gli accenti che vi si sono inseriti, al fondo rivela certo l’antica melodia che ho udito da bambino; e, anche se la stessa lingua dei miei sogni non è più da molti anni il mio dialetto materno, vi è certamente qualche cosa più in fondo dei sogni che in me parla e vive siciliano» (Pupo, p. 92). Il sogno americano su di lui non attecchisce: «La cruda verità – scrive in Idea della Russia – è che, per quanto la sirena del comunismo sia ormai consunta e malandata, d’altra parte il capitalismo non ebbe mai nulla di affascinante per le masse, ed ora è al suo più basso loco. [...] è opinione generale, diffusa anche in America e condivisa del resto da varie persone anche in America, che le note caratteristiche del capitalismo siano, a torto o a ragione, lo sfruttamento, il monopolio, la disoccupazione, l’avaro e umiliante sussidio, e in ultimo la guerra». E così, in una lettera all’allievo Mario Robertazzi del 26 gennaio 1932: «Se c’è una terra nuova, essa è dentro di noi e non fuori. L’illusione che qui si potesse trovare una legge bella e fatta di vita è caduta; ma non credo nemmeno che io l’abbia mai avuta [...]. Ho toccato il muro del mondo; l’infinito non c’è».

Bibliografia essenziale

Testi di G. A. Borgese:

Dalla sponda del gurgite di Scilla. Con la testa riversa e con le palme protese, «Il Mattino», 29 dicembre 1908.

Poesia crepuscolare, «La Stampa», 10 settembre 1910.

Prefazione a G. Gozzano, Verso la cuna del mondo, Milano, Treves, 1917.

Rubè, Milano, Treves, 1921.

Risurrezioni, Firenze, Perrella, 1922.

Tempo di edificare, Milano, Treves, 1923.

Tempesta nel nulla, Treves, Milano 1931.

Lettere a Mussolini, Boston 18 agosto 1933 e Northampton Mass 18 ottobre 1934, «Quaderni di Giustizia e Libertà», XII, 1935.

Atlante americano, Parma, Guanda, 1936.

Goliath, the March of Fascism, New York, The Viking Press, 1937; Milano, Mondadori, 1946; Golia. Marcia del fascismo, Milano, La Nave di Teseo, 2022.

Idea della Russia, Milano, Mondadori, 1951.

Preliminary Draft of a World Constitution, Chicago, University of Chicago Press, 1947; Disegno preliminare di costituzione mondiale, Mondadori, Milano 1949; Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013.

Foundations of the World Republic, Chicago, University of Chicago Press, 1953; Fondamenti della Repubblica mondiale, Milano, La Nave di Teseo, 2022.

Da Dante a Thomas Mann, Mondadori, Milano, 1958.

Altri testi:

G. Debenedetti, Il romanzo del Novecento, Milano, Garzanti, 1971-2.

I. De Seta, American citizen. G. A. Borgese tra Berkeley e Chicago (1931-52), Roma, Donzelli, 2017.

A. Di Grado, Divergenze. Borgese, Malaparte, Morselli, Sciascia, Napoli, ad est dell’equatore, 2020.

Id., Al di là. Soglie, transiti, rinascite in letteratura e nel cinema, Napoli, ad est dell’equatore, 2020.

S. Gerbi, Giuseppe Antonio Borgese politico, in «Belfagor», LII, 1, 31 gennaio 1997, pp. 43-69.

G. Librizzi, «No, io non giuro». Le lettere a Mussolini di Giuseppe Antonio Borgese, Palermo, Navarra, 2013.

M. G. Macconi, Catalogo del Fondo Giuseppe Antonio Borgese della Biblioteca Umanistica dell’Università di Firenze, Firenze, 2008.

F. Mezzetti, Borgese e il fascismo, Palermo, Sellerio, 1978.

I. Pupo (a cura di), Una Sicilia senza aranci, Roma, Avagliano, 2005.

L. Sciascia, Il Quarantotto (1958), in Gli zii di Sicilia, Torino, Einaudi, 1960.

Id., Per un ritratto dello scrittore da giovane, Palermo, Sellerio, 1985.

E. Vittorini, Una nuova cultura, «Il Politecnico», n. 1, 29 settembre 1945

Immagine: Tratta dalla copertina del libro


 

Pezzo ripreso dal sito  https://www.treccani.it/magazine/lingua_italiana/articoli/

 


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