Il Sud, e quel Sud al quadrato che è la Sicilia, sono un vero
rompicapo. Nel mio studio ho dato grande rilevanza, sulla scia degli scholar
americani Banfield e Putnam, ai fattori mentali-culturali che frenano lo
sviluppo e determinano stagnazione non solo economica. Mi è parso di vedere
anche in Gramsci - in teoria un pensatore marxista e quindi propugnatore della
visione strutturalista-economica (materialismo storico) del divenire sociale -
una particolare consonanza con l'ipotesi culturalista degli americani.
(Alfio Squillaci)
*
Conclusioni. L’ipotesi culturalista
Mens agitat molem Eneide, VI, 727
Ho insistito molto in queste riflessioni sulla Sicilia,
sulla questione della mentalità come principale imputata della sua relativa
arretratezza socioculturale e della mia insoddisfazione verso questo stato di
cose, apparendomi per molti versi la società della mia regione con molti indici
di disfunzionalità. Attribuire tutto ciò a una mentalità che agisce nelle
singole coscienze individuali e di riflesso in quella collettiva pone più
problemi di quelli che spiega, eppure la/le mentalità esistono e operano silenziosamente.
Il problema è definire cos’è mentalità. Per Braudel e
Vauvelle le mentalités sono le prigioni della lunga durata, ciò che rimane
negli spiriti allorché si sono dissolte le forme storiche che le hanno
determinate. Un habitus mentale che sopravvive a forme storiche perente (per
esempio il codice d’onore alle epoche cavalleresche). Bourdieu parlerà di
isteresi, ossia della persistenza di habitus mentali sopravvissuti alla loro
epoca. È il caso, di cui abbiamo parlato, della rottura delle reti fiduciarie
(dei cittadini tra di loro e dei cittadini verso i pubblici poteri) che secondo
Anthony Pagden è avvenuta con l’avvento degli Asburgo spagnoli nel regno di
Napoli ai tempi di Paolo Mattia Doria e Antonio Genovesi, i quali nei loro
resoconti osservavano che a una cultura fiduciaria era subentrata una cultura
dell’onore ecc.
Le questioni mentali-culturali sono per se stesse
inafferrabili e molto spesso allontanate dal nostro orizzonte conoscitivo o
perché inesplicabili fino in fondo o perché si concludono con affermazioni
tautologiche, anche quando resta nelle mente di molti la certezza che
persistano sottotraccia e agiscano nel profondo seppur non si sappia spiegare
con esattezza le modalità. Molti ritengono per esempio che se non mutano certe
condizioni di «mentalità» radicate negli strati più profondi della popolazione
difficilmente si sbloccherà una data situazione comportamentale e in ultima
istanza anche economica. «Finché non cambiano le teste, finché resta questa
mentalità…» quante volte ci siamo abbandonati a queste locuzioni di dichiarata
e rassegnata impotenza? Si tratta del "repulimiento de las capezas",
di cui scriveva un Ortega y Gasset che non sono più riuscito a rintracciare, o
forse è una mia battuta in spagnolo maccheronico, che tuttavia credo dia l’idea
di ciò che voglio dire: la pulizia delle teste, il cambio di mentalità.
Contano anche le idee-madri in questo discorso, le quali
nelle menti di coloro che hanno abbordato le tematiche socio-economiche
agiscono come matrici di categorie pronte a generare riflessi condizionati. Chi
ha avuto una formazione marxista (moltissimi intellettuali italiani sono stati
marxisti a vario titolo) nega con ostinazione che un elemento sovrastrutturale
come una ideologia, una credenza, una rappresentazione mentale, una mentalità
possano interagire sulla «sottostante» struttura economica, negli ingranaggi
vivi dei rapporti di produzione, nel cuore stesso dell’agire economico.
Viceversa la prospettiva di Max Weber che come è noto
assegnava alle ideologie religiose un fattore scatenante dell’agire economico,
sembrano rovesciare l’approccio marxiano del materialismo storico. Non sono le
sottostanti strutture economiche a determinare i modi di pensare e le
mentalità, ma il contrario. (Un dibattito all’interno del mondo marxiano della
prospettiva di Weber non c’è mai stato, o non lo conosco, tranne qualche
accenno fattone da Delio Cantimori in "Storici e storia": prevale
nell’approccio marxista una diffidenza di massima se non vero e proprio
disprezzo verso questo approccio culturalista).
Ma non è questo il focus del mio ragionamento, che
riprenderò più avanti tuttavia, anche perché non ho certo la forza
intellettuale per insinuarmi all’interno di un dibattito tra giganti. Nelle mie
riflessioni agiscono piuttosto quelle che Michael Polanyi chiamava «conoscenze
tacite» e «conoscenze personali», ossia l’elemento pulsante della mia biografia
e l’incontro con la realtà e i suoi epifenomeni. È sulla scorta di questi
fattori di biografia filosofica che propendo per la tesi Weber.
Eppure, chiunque abbia informazioni anche di seconda mano
sulle grandi trasformazioni (titolo di un’opera dell’altro Polanyi, Carl) sa
che le idee hanno avuto grande ruolo nello sconvolgere il mondo: la nostra
stessa civiltà poggia su due pilastri mentali-culturali: il pensiero greco e
l’eredità latina da un lato e quello giudaico- cristiano dall’altra. Sa che le
grandi fratture che hanno riguardato la nostra civilizzazione culturale sono
state determinate da idee (religiose) così per lo scisma d’Oriente che per
quello d’Occidente (Lutero & C), oppure idee tout court come la grande
«rivoluzione delle menti» che è stato prima l’Umanesimo, poi la Rivoluzione
scientifica del ‘600, quindi l’Illuminismo, da interpretare sicuramente come un
unico moto di pensiero sviluppatosi in più secoli e nazioni europee.
E d’altronde se così non fosse perché un marxista eclettico
come Antonio Gramsci si affannava così tanto (sulla scia di una formula di
Ernest Renan) sulla necessità di una «riforma intellettuale e morale» ossia un
rinnovamento mentale-culturale delle masse contadine e operaie non connesso
strettamente alla sottostante struttura, e coglieva nello stesso marxismo, che
chiamava sulla scia del Marx delle tesi a Feuerbach, «filosofia della prassi»,
un elemento attivistico che accelerasse le rigidità dialettiche poste dalla
stessa dottrina marxiana che non consentiva salti e che prevedeva determinati
stadi necessari e ineludibili nel divenire sociale?
In riferimento al nostro Sud (e di quella gran parte di Sud
che è la Sicilia) si possono prelevare dagli scritti di Gramsci molti spunti
che vanno nella direzione qui trattata. Gramsci sa che per avere successo il
suo programma politico ha bisogno di una rigenerazione profonda degli apparati
mentali dei subalterni, che è necessaria una rivoluzione delle menti a partire
proprio da quella riforma intellettuale e morale che come formula ritorna ben
35 volte nei "Quaderni", riforma che secondo lui sarà da mettere in
atto a cura della filosofia della prassi (il marxismo) certamente, ma che deve
agire come «una rivoluzione popolare che abbia LA STESSA FUNZIONE DELLA RIFORMA
PROTESTANTE nei paesi germanici» (Q.21, XVII, §1, corsivo mio). E inoltre, si
legga questo passo:
<<Si osserva da alcuni con compiacimento, da altri con sfiducia e pessimismo, che il popolo italiano è «individualista»: alcuni dicono «dannosamente», altri «fortunatamente», ecc. Questo «individualismo», per essere valutato esattamente, dovrebbe essere analizzato, poiché esistono diverse forme di «individualismo», più progressive, meno progressive, corrispondenti a diversi tipi di civiltà e di vita culturale. Individualismo arretrato, corrispondente a una forma di «apoliticismo» che corrisponde oggi all’antico «anazionalismo»: si diceva una volta «Venga Francia, venga Spagna, purché se magna», come oggi si è indifferenti alla vita statale, alla vita politica dei partiti, ecc. Ma questo «individualismo» è proprio tale? Non partecipare attivamente alla vita collettiva, cioè alla vita statale (e ciò significa solo non partecipare a questa vita attraverso l’adesione ai partiti politici «regolari») significa forse non essere «partigiani», non appartenere a nessun gruppo costituito? Significa lo «splendido isolamento» del singolo individuo, che conta solo su se stesso per creare la sua vita economica e morale? Niente affatto. Significa che al partito politico e al sindacato economico «moderni», come cioè sono stati elaborati dallo sviluppo delle forze produttive più progressive, si «preferiscono» forme organizzative di altro tipo, e precisamente del tipo «malavita», quindi le cricche, le camorre, le mafie, sia popolari, sia legate alle classi alte. Ogni livello o tipo di civiltà ha un suo «individualismo», cioè ha una sua peculiare posizione e attività del singolo individuo nei suoi quadri generali. Questo «individualismo» italiano (che poi è più o meno accentuato e dominante secondo i settori economico-sociali del territorio) è proprio di una fase in cui i bisogni più immediati economici non possono trovare soddisfazione regolare permanentemente (disoccupazione endemica fra i lavoratori rurali e fra i ceti intellettuali piccoli e medi). La ragione di questo stato di cose ha origini storiche lontane, e del mantenersi di tale situazione è responsabile il gruppo dirigente nazionale.>>Q. 6 (VIII) §162.
E quando
Gramsci scrive di DISGREGAZIONE SOCIALE del Sud (negli scritti della
"Questione meridionale") oppure di individualismo (il contrario dei
comportamenti "community oriented" di Banfield e Putnam), o più
precisamente di apoliticismo con tutte le derive inevitabili nella malavita,
come nel passo appena citato, e sottolinea che tutti questi fenomeni hanno
radici lontane nella storia, non sembra di sentire i rintocchi di quel Banfield
tanto odiato dagli intellettuali di ispirazione marxista di casa nostra?
ALFIO SQUILLACI
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