06 gennaio 2016

C'ERANO UNA VOLTA LE NORIE...



L’enigma delle norie

di Nicola Fanizza

foto noria
( la fotografia proviene dall’archivio della casa editrice Adda di Bari)

Guglielmo si era levato a tempo debito. Doveva andare nella stalla, distante circa dieci metri dalla sua piccola casa di campagna, per governare Martino, un cavallo che aveva il pelo rosso come il fez dei bersaglieri. Sua madre – Rosina –, la sera precedente, gli aveva dato la consegna di adacquare le piante dei pomodori. Erano passati diversi giorni dall’ultima innaffiatura. Faceva molto caldo. La salsedine, dardeggiata dal sole di Ferragosto, si era rappresa quell’anno persino sugli acini dell’uva che si trovava nella «cavata». Si trattava della parte più bassa del podere, che era situato a meno di trecento metri dal mare. La scelta di piantare la vigna in quel luogo non era stata casuale. Lì, infatti, i vitigni potevano fiorire senza che i germogli fossero bruciati dal vento che veniva dal mare.
Dopo aver dato da mangiare a Martino, gli mise il collare, gli bendò gli occhi, lo legò alla noria (a ngéegne) e, infine, si mise a innaffiare. Mentre era intento al suo lavoro, il cigolio molto particolare della noria stimolò l’attenzione di alcuni soldati inglesi che pattugliavano la costa. Questi ultimi si avvicinarono alla noria, manifestando il loro vivo dissenso nei confronti della pratica di bendare gli animali. Ordinarono, pertanto, a Guglielmo – con le parole e, insieme, con i gesti – di togliere dalla testa del suo cavallo la benda che gli copriva gli occhi. Per loro gli abitanti del Paese delle Norie erano dei barbari che «maltrattavano» gli animali.
Guglielmo cercò di far capire a quei soldati che la bendatura di Martino era comunque necessaria, poiché quest’ultimo, girando con gli occhi aperti intorno al tamburo di Vitruvio, di lì a poco sarebbe svenuto. Disse loro – mimando la vertigine – che la «capa gira» anche ai cavalli! Nondimeno gli Inglesi furono irremovibili. Di fatto, nei tre anni che restarono nel Paese delle Norie, mostrarono in diverse occasioni di amare più gli animali che gli uomini.
Quei soldati non avevano mai sentito parlare delle norie, né avevano mai avuto occasione di vederne una da vicino. Si trattava di un sistema di secchi di rame o di legno inseriti in un nastro a catena che ruotava mediante una puleggia, a trazione animale (di solito cavallo, asino o mula): i secchi si riempivano di acqua in fondo al pozzo e, allorquando giungevano sull’apice della ruota*, rovesciavano il loro contenuto in una piattaforma che era collegata a sua volta a una cisterna (u palemmidde).
Appena i soldati andarono via, Guglielmo riprese il suo lavoro. Mentre rifletteva sulla «sensibilità» degli Inglesi, sentì provenire dalla sua casa l’eco del canto di sua madre. Quest’ultima aveva studiato canto, ma aveva dovuto smettere. Aveva una voce bellissima e per questo la invitavano in Chiesa per cantare l’Ave Maria di Gounod.
Erano passati quasi nove anni dalla morte di suo marito. Dopo quel tagico evento Giovanni – il maggiore dei figli – era stato costretto ad abbandonare gli studi e si era dedicato al lavoro nei campi per far fronte alle esigenze della famiglia. Guglielmo e Isabella, che erano più piccoli, avevano continuato, invece, a studiare. Tuttavia, nella tarda estate del 1941, anche Guglielmo aveva dovuto smettere di studiare. Suo fratello era andato in guerra ed era toccato a lui prendere il suo posto in campagna.
Quando Guglielmo, terminato il lavoro, tornò a casa e informò Isabella e sua madre in merito di ciò che gli era accaduto, quest’ultima gli disse che anche lui quando era piccolo non sopportava che si bendassero gli occhi a Martino e che si metteva persino a piangere per costringere suo padre a rimuovere la bendatura dagli occhi del cavallo.
Guglielmo cascò dalle nuvole. Non si ricordava affatto di quell’episodio e disse che lo aveva, comunque, rimosso. La cancellazione di quell’episodio dalla sua memoria, tuttavia, preoccupò un po’ sua madre e la indusse a chiedere a Guglielmo se aveva riposto nell’oblio anche la sua infantile paura nei confronti dei pozzi. Guglielmo asserì che ne aveva un vivido ricordo e che aveva ancora davanti ai suoi occhi il fuoco da cui si era originata. I vicini di casa gli avevano detto che quando si avvicinava a un pozzo poteva uscire il diavolo (u gaghêure) e trascinalo giù. Prima di scoperchiarlo, pertanto, doveva segnarsi di croce. Il sottosuolo era sede del maligno, dell’oscuro, con tutte le varianti che tale credenza poteva generare.
Guglielmo aggiunse che alcuni anni dopo, grazie allo studio del pensiero illuminista, si era messo alle spalle il fardello di quelle superstizioni. L’occasione per dimostrare che non aveva paura del diavolo si era presentata alcuni anni dopo, allorquando la catena della noria si era spezzata, precipitando insieme ai secchi in fondo al pozzo. Si era offerto volontario per recuperarla ed era sceso, tramite una fune, senza alcun timore nelle viscere della terra.
Quella sera, Guglielmo non riuscì a dormire. Gli vennero in mente gli eventi del suo passato più o meno recente. Si trattava delle piccole apocalissi che avevano reso meno opaca e monotona la sua vita. Ricordò in particolare la lezione del professore di storia, in cui aveva raccontato agli studenti il seguente aneddoto relativo alla vita di Cristoforo Colombo:
«Nel 1491, il navigatore genovese si era recato a Cordova per incontrare la regina Elisabetta la Cattolica. Ma aveva dovuto aspettare più di una settimana prima di essere ricevuto. La regina, infatti, da quando era giunta in Andalusia non riusciva più a dormire. Ciò che le toglieva il sonno era proprio il cigolio della noria che alimentava i giardini dell’Alcàzar. E pertanto ordinò che venisse distrutta. Non è un caso – aveva asserito il professore – che la parola “noria” derivava proprio dal cigolio molto particolare prodotto dalla ruota».
Per Guglielmo quel suono lento e tenue era simile a quello di un organo melanconico. La noria aveva la straordinaria capacità di diffondere nelle campagne intorno un suono rassicurante e, nel contempo, inquietante. L’immagine circolare del tempo di cui la noria era il simbolo non riusciva a neutralizzare del tutto lo spettro della morte. Quel suono gli appariva, infatti, come un vero e proprio pianto di morte. Da qui la necessità di vincere la morte, da qui la necessità di mettersi in gioco, di mettersi a girare come fanno i bambini, come i bambini che, però, girano con gli occhi aperti e non hanno paura della vertigine.
Quel suono era connaturato al paesaggio ancestrale di cui era la manifestazione uditiva indissolubile. Era un suono che era destinato, comunque, a scomparire, poiché già negli anni Trenta le norie cominciavano a essere sostituite con le prime motopompe elettriche. Di lì a poco tempo, la meccanizzazione del lavoro agricolo avrebbe introdotto nuovi rumori nei silenzi delle campagne, dove prima echeggiavano, insieme al cigolio delle norie, solo i gridi dei contadini o i loro canti.
D’altra parte, nessuno riusciva a dare risposte esaustive alle sue domande. Quando erano arrivate le prime norie nel suo Paese? Chi le aveva portate? Perché le norie erano presenti per lo più nel territorio rivierasco del suo Paese ed erano quasi del tutto assenti nelle altre riviere?
Il giorno dopo, Guglielmo smise di pensare al suo passato e rivolse la sua attenzione alla sua condizione presente e cominciò a prefigurare anche il suo futuro. Si era reso conto che non riusciva a vivere solo della sua vita, sentiva l’esigenza di ascoltare gli altri. E, per di più, si trovava a vivere in uno spazio sociale in cui erano quasi del tutto assenti le relazioni degne.
Avvertiva l’esigenza di andare via. Cominciò a pensare alla sua vita sul mare e chissà forse viaggiando, avrebbe creato nuove situazioni esistenziali e avrebbe trovato anche l’occasione per risolvere l’enigma delle norie.
La vita in campagna continuava nella sua monotonia. Benedetto, un vecchio marinaio che possedeva un piccolo fondo contiguo a quello della sua famiglia, gli ripeteva sempre la stessa filastrocca: «Ho visto mio nonno per diversi anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; in seguito, ho visto mio padre per trent’anni zappare in questo fondo per tirare via le pietre; e, infine, sono più di quarant’anni che anch’io zappo in questo fondo per tirare via le pietre. Ebbene Guglielmo, sono convinto che le pietre crescono!».
Per converso, Andrea era il solo contadino capace di ravvivare l’ambiente con le sue feste. Ballerino e giocatore, viveva una vita allegra e spensierata, una vita fatta di banchetti e di balli che teneva spesso nella sua casa di campagna. Terminata la guerra, aveva organizzato una grande festa per l’arrivo dagli USA di suo fratello Vito con la moglie americana. I bambini si aspettavano di vederla vestita come una pellerossa, ma, pur rimanendo delusi, erano rimasti comunque incantati dal fascino della bella signora.
Intanto, Giovanni nel dicembre nel 1944 si era fatto vivo con una lettera, in cui diceva che era stato fatto prigioniero e che si trovava in Inghilterra. Guglielmo non poteva abbandonare sua madre e sua sorella fino al ritorno a casa di suo fratello. Nell’attesa, si sottopose alle visite mediche per ottenere il libretto di navigazione.
Verso la fine del 1946, gli Inglesi liberarono tutti i prigionieri e suo fratello ritornò a casa. Subito dopo, Guglielmo riuscì a trovare un imbarco come mozzo su un motopeschereccio e, finalmente, partì per il Levante!


* La ruota verticale che stazionava sull’imboccatura del pozzo era collegata, mediate una trave di ferro, lunga circa sei metri, a un’altra ruota sempre verticale (vedi immagine), collegata, mediante denti di ferro a un tamburo orizzontale – il «tamburo» di Vitruvio! –, da cui si originava un’asta di legno alla quale veniva legato il cavallo.

Testo e foto riprese da   http://www.nazioneindiana.com/

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