29 gennaio 2023

PANE, ZOLFO E MISERIA NELLA SICILIA DEGLI ANNI '50

 


Pane, zolfo e miseria. L’ordinaria schiavitù di “carusi”e minatori nella Sicilia Anni ’50

di Paola Pottino


Lo sguardo perso nel vuoto, le mani, sempre fredde, sono coperte dai guanti, il passo incerto, è sostenuto dal bastone. I ricordi strazianti di una vita trascorsa all’interno delle viscere della terra, tornano vividi nella memoria di Nicolò Disalvo, classe 1937, originario di Lercara Friddi, a 60 chilometri da Palermo, che nelle miniere di zolfo ha trascorso gran parte della propria vita. All’interno di quel girone infernale c’è entrato quando aveva soltanto 9 anni, nudo «come mia madre mi fici» , dice. E non era il solo. I minatori lavoravano completamente nudi, perché se fossero rimasti vestiti, per il forte calore e l’elevato tasso di umidità all’interno delle miniere, alcune profonde anche 200 metri, gli indumenti attaccati al corpo avrebbero provocato irritazioni intollerabili. Qualcuno sulla testa metteva un fazzoletto per tamponare il sudore. Per tutto l’Ottocento, la Sicilia fu tra i maggiori produttori e fornitori di zolfo nel mondo e nei primi anni trenta del Novecento erano più di 700 le miniere di zolfo nell’Isola dove lavoravano circa quarantamila operai. «Un primo tentativo di ricerca dello zolfo — spiega l’architetto Pippo Furnari, studioso della storia delle zolfare di Lercara Friddi — venne fatto nel 1788 dal principe di Palagonia, don Ferdinando Gravina e il primo documento che attesta la presenza delle miniere a Lercara risale al 1828. I lavoratori erano ridotti in schiavitù in balìa dei capi mastri che decidevano della loro vita. Le cose migliorarono leggermente soltanto nel 1963 con l’istituzione, da parte della Regione siciliana, dell’Ente minerario siciliano, ma a Lercara negli anni Sessanta le miniere chiusero definitivamente e un gruppo di minatori andò a lavorare alla miniera di Cozzo Disi, a Casteltermini, nell’Agrigentino. Dove nel 1916, a causa di un crollo, morirono 89 minatori». È una bella giornata in paese quando Nicolò ci conduce sulla terrazza della casa di sua figlia Rosa con la quale convive da più di dieci anni dopo l’ictus che lo ha colpito. La visuale è nitida e l’ex minatore ci mostra in lontananza uno degli ascensori in pietra che, in tempi relativamente recenti, conduceva i lavoratori nei meandri della grotta e portava in superficie lo zolfo che poi veniva depositato nei carrelli. Quando lui invece era soltanto un caruso, lo zolfo veniva trasportato a spalla prima nelle cosiddette cartedde e successivamente nelle ceste. Ogni carico pesava circa 20 chili; tutta questa fatica per 250 lire al giorno, che non bastavano neanche a comprare un chilo di pane. «Il nostro pasto — ricorda Nicolò Disalvo — condiviso spesso con i topi, era un po’ di pane duro, ammorbidito nell’acqua». Il giallo oro delle miniere e la miseria più nera. Peggio dei poveri contadini che almeno un po’ di cacio, un tozzo di pane e del vino lo avevano. « Erano così poveri — spiega Pippo Furnari — che venivano visti dai loro concittadini come la feccia dell’umanità. All’epoca, sposare un minatore era considerato disdicevole e per questo i matrimoni tra ceti sociali diversi erano proibiti » . «Io sono molto orgogliosa di miopadre che aveva ben quindici fratelli — afferma Rosa — Quando si è sposato non aveva un tavolo dove poter mangiare, neanche il letto per dormire, solo una brandina. I suoi fratelli sono emigrati, chi in Belgio e chi in Germania, ma lui era troppo attaccato alla sua terra e ha deciso di restare facendola fame». Poco distante da casa Sferrazza, abita Giovanni Rizzo, 83 anni, grande appassionato di libri, anche lui figlio e nipote di minatori. Le mani deformate testimoniano il grave incidente accaduto in miniera quando un carrello carico di zolfo lo investì rendendolo invalido al 78 per cento. L’incidente è però poca cosa rispetto al ricordo drammatico che lo commuove ancora e che, con fatica, riesce a raccontare. « La prima volta che misi piede in quell’inferno — dice Rizzo — avevo 14 anni e l’immagine di mio padre completamente nudo, mi fece paralizzare. Per me era inconcepibile vederlo così, mi sentii umiliato. Lui lo capì, mi accarezzò il capo e mi disse: chista è ’ a vita ». Storie di vita e di dolore raccontate anche da Debora Bonacotta, figlia di un minatore di Lercara che al padre ha dedicato “Infanzie rubate”, il libro nel quale racconta la drammatica fine di Michele Felice, un ragazzo di 17 anni che mentre lavorava in una galleria a 200 metri sottoterra, venne schiacciato da un masso staccatosi dalla volta della galleria. E come se la morte di un caruso non fosse già terribile, alla tragedia si aggiunse un paradosso raccontato da Carlo Levi nel libro “Le parole sono pietre”: «Alla busta paga del morto — scrive Levi nel libro, pubblicato nel 1955 — venne tolta una parte del salario, perché, per morire, non aveva finito la sua giornata». Oggi a Lercara si cerca, seppure con fatica, di recuperare la memoria storica. Il museo di Villa Rose che dovrebbe essere arricchito da una sala multimediale nella quale verrà raccontata la storia delle miniere, al momento è chiuso per lavori. « Con i fondi di 500mila euro — dice il sindaco Luciano Marino-stanziati dal piano di sviluppo e coesione, abbiamo provveduto al restauro strutturale della villa, ma adesso non possiamo andare avanti se prima la Sovrintendenza non procede al monitoraggio dello stato di avanzamento dei lavori».

Da La Repubblica del 28 gennaio 2023



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