03 gennaio 2023

PROVOCAZIONI CALABRESI

 

martedì 3 gennaio 2023

A Sud del Sud - il Sud visto da sotto 

Giuseppe Leuzzi


Ricorre nei film e in qualche racconto la storia delle “buste” ai matrimoni, degli invitati che regalano agli sposi una somma. Come un folklorismo, un esotismo. Ripreso tra il gioco e il disprezzo. Ma è - era – l’uso del bar-mitzvah, la cerimonia della circoncisione rituale dei bambini ebrei. L’uso meridionale è derivato dall’uso ebraico?
 
“La noia è l’assenza di una città”, diceva Verlaine in qualcuna delle lettere dall’esilio cui la madre lo aveva confinato, da una zia in campagna. Non al Sud. Non, almeno, fino a qualche anno fa: la carenza di spettacoli o altri diversivi urbani è – era – compensata dale parentela, dal vicinato, dal calendario familiare e agricolo, e per i ragazzi dalla stagionalità dei giochi, uno per ogni mese. La mancanza di conglomerati metropolitani può – poteva – essere perfino benefica.
 
“Niente si fa per niente”, dicono le montanare friulane nel film “Piccolo corpo”, e vogliono essere ricompensate, dalla giovane mamma povera e sola che porta il cadaverino della figlia nata morta in una scatola di legno a un “santuario del respiro” remoto su in montagna - un racconto di derelizioni, povertà, fatica, fame, ignoranza, violenza, seppure nella fede, opera di una regista triestina, Laura Samani. Una battuta così al Sud sarebbe suonata stonata.
 
A Simenon occasionale cronista di nera nel 1933, “un pezzo grosso di Scotland Yard” spiega (“Dietro le quinte della polizia”, p. 53) che la criminalità organizzata fiorisce perchè “protetta” dalle leggi a “tutela dela oibertà individuale”. Così è negli Stati Uniti e nel Regno Unito, e avverrà in Francia che nello stesso anno ha passato ai giudici ogni indagine, anche un semplice perquisizione: “Con la vostra nuova legge conoscerete anche in Francia il gangsterismo” (Simenon sottolinea).  Mentre prima “la Francia aveva criminali che lavoravano da soli – le bande organizzate erano rare, e timorose, perché la legge consentiva una repressione repentina ed efficace”.
 
L’Italia è stata una nazione prima che uno Stato. In Francia invece, per esempio, lo Stato precede di molto la nazione. Ma l’effetto storico è incrociato: la Francia è una nazione salda, l’Italia una debole, divisa, pericolante, al meglio burocratica (inefficace, incapace).
Lo Stato ha funzione costituente, anche del sentito nazionale. Il ritardo dello Stato in Italia produce il leghismo ricorrente. Ma è un problema soprattutto per il Sud: la questione meridionale è la questione dello Staato – debole, incapace.
 
Il Parco degli Ulivi
L’ulivo è dunque il mangiapolveri per eccellenza. Almeno quello della Piana di Lucca. Uno “Studio per la Piana di Lucca, 2021-2022”, della Fondazione Carilucca, su un’area maglia nera da molti anni in Toscana per il PM10, il particolato atmosferico, insomma per inquinamento dell’aria, individua un certo tipo di vegetazione come la più adatta a “mangiarsi” le polveri: l’ulivo in prima posizione, con l’alloro, l’oleandro, la magnolia e il lauroceraso. Questa la conclusione dello studio “Veg – Pm10 – Azioni multidisciplinari e integrate per il monitoraggio e la riduzione del particolato atmosferico nella piana lucchese”.
L’Airs, Agenzia Internazionale Ricerche sul Cancro, denuncia l’inquinamento atmosferico nel Gruppo 1 delle sostanze carcinogene per l’uomo. Come il più pericoloso. Gli alberi “pulitori” sarebbero quindi da salvaguardare come patrimonio dell’umanità, terapeutico. La Piana di Gioia Tauro, un’area da 30 per 40 km. di lato, il territorio di 31 Comuni, a forte densità arborea, è un “mare di ulivi”, della specie di alto fusto e ampia e folta chioma. Un paradiso naturale quindi per i residenti, e un polmone importante per la Calabria e la finitima Sicilia. Perché non si penserebbe la Piana di Gioia Tauro, che da troppo tempo si vuole centro di mafia, un parco unico al mondo: naturalistico, produttivo, e terapeutico insieme? L’idea non è balzana.
“Porto degli Ulivi” è oggi, in territorio di Gioia Tauro anche se nel comune di Rizziconi, un centro commerciale, ovviamente ripulito degli ulivi, per esigenze di accessi, parcheggi, megaempori. In amministrazione fiduciaria perché sequestrato, o confiscato, per mafia. Se il miracolo si è fatto per un centro commerciale ideato da mafiosi, perché un Parco degli Ulivi non si saprebbe fare dagli onesti? L’area a più alta intensità di produzione di olio d’oliva quale è oggi che diventa anche in parco naturalistico d’attrazione – vivo e produttivo anche nella lunga estate, di sei-sette mesi, che è la sua stagione morta.  


Milano portata dal Sud
“Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia” non l’ha detto un milanese ma Salvemini. Lo ha detto e scritto, licenziando la sua prima opera, “I partiti politici milanesi nel secolo XIX”: “Le lotte amministrative milanesi non sono se non episodi o meglio i prodromi delle lotte politiche italiane. Quello che oggi pensa Milano, domani lo penserà l’Italia.”
Nel 1899, a 26 anni, già collaboratore di “Critica Sociale”, il periodico del riformismo socialista, può pubblicare questo studio. Anche dettagliato, di circa duecento pagine. Salvemini visse tra Lodi e Milano per tre anni soltanto – nel 1901 ebbe la cattedra di Storia Moderna all’università di Messina. Che però ricorderà come fra “i più belli” della sua vita.
Salvemini, di Molfetta, aveva studiato a Firenze, in particolare sintonia con Pasquale Villari. Si interessò dapprima di Medio Evo, poi della Rivoluzione francese e del Risorgimento. Suo interesse principale già nei suoi primi incarichi di insegnante, di Storia e Geografia nel liceo Torricelli di Faenza per due anni, dal 1896, e al classico di Lodi “Pietro Verri” dal 1898 – dopo un breve esperienza a Palermo, insegnate di latino in una scuola media. Arrivava a Milano – a Lodi – già socialista, e studioso ed estimatore di Cattaneo, nella variopinta (e non sempre concorde, spiega nel suo saggio) politica milanese nei confronti dell’Austria.
Un secolo dopo un altro molfettese di grande qualità, Riccardo Muti, che pure a Milano era cresciuto professionalmente e artisticamente, veniva espulso dalla Scala, dal teatro cittadino. Dall’orchestra della Scala, ma poi dal teatro nel suo insieme. Senza una ragione, non una argomentabile.
Come al maestro Muti così è capitato a molti. A sorpresa. A tanti che sapevano tutto di Milano, anche la programmazione del Pasquirolo (era un cinema), ma non l’essenziale. Il leghismo è stata una scoperta tardiva. Ancora oggi uno fatica ad imputarlo a Milano, ma era la dottrina politica di Milano 1, presto diffusa nel popolo milanese, non di un pazzerellone Bossi qualsiasi, medico mancato e vagabondo.


La mafia non uccide

“Un assassino, si sa, uccide per rubare, o per un’eredità, o per l’indennizzo di un’assicurazione. Fa un lavoro ingrato, sporco e volgare: ascia, coltello o revolver, un lago di sangue, impronte, vestiti macchiati, biasimo generale”, e la certezza di una condanna a vita. Al contrario del truffatore, del criminale internazionale, che, benché violento, si arricchisce a danno degli altri senza uccidere. “Sicché possiamo affermare questo: «Un assassino intelligente deciderebbe di diventare un truffatore, un truffatore idiota finirebbe a fare l’assassino»”.  

Queste mezza pagina di Simenon cronista di nera (“Dietro le quinte della polizia”, p. 97) non è persuasiva. Il criminale uccide e come. Anche se, certo, è difficile arrivare agli abissi di Riina, un minus habens che ha fatto per trenta e più anni centinaia di assassinii, forse qualche migliaio, per le tante stragi. Ma è vero che le mafie sono come i “criminali internazionali”, non uccidono, “avvertono”, intimidiscono. Uccidono anche, ma gli altri mafiosi. E se si trovano chiusa ogni via d’uscita, si pentono.
Nel caso della potente mafia dei terreni nella Piana di Gioia Tauro il clan forse più spietato, quello dei Mammoliti di Castellace, fu debellato per un omicidio, che forse il capoclan non aveva nemmeno ordinato – ma era stao commesso da un ragazzo di poco lume suo affiliato. Di cui la sorella della vittima, Teresa Cordopatri, tenne viva la memoria finché non riuscì a imputare la responsabilità vera quando all’Interno arrivò un ministro “non indifferente”, Maroni. Benché a viso scoperto, questa mafia aveva imperversato per mezzo secolo senza alcun contrasto, evitando la violenza alla persona – la proprietà non è roba da Carabinieri. L'antimafia fatica e recepire la semplice constatazione di Simenon.
La mafia del pizzo, degli appalti, dei terreni, agricoli e edificabili. Dovunque basta danneggiare gli altri per arricchirsi, senza ucciderli. 


Calabria
Calamitò l’attenzione di Fëdor Sidorovič Brenson, un russo emigrato, pittore e incisore, arrivato in Italia nel 1924, che ne fece 52 disegni, di luoghi per lo più, poi raccolti, nel 1929, in “Visioni di Calabria”, con l’editore Vallecchi – dopo la pubblicazione si trasferì a Parigi, e dal 1941, con la guerra e l’occupazione, negli Stati Uniti, incisore e insegnante d’arte in vari college della costa Est. Attratto dalla Calabria, spiega Antonella D’Amelia (“La Russia oltreconfine”, 82) “sia per la fisionomia mediterranea (il clima, la natura), correlata a una vita spensierata e solare, sia per le tracce dell’antico passato (greco, romano, bizantino)”.
 
Ricordando sul “Venerdì di Repubblica” Alessandro Bozzo, il giornalista morto suicida a Cosenza dieci anni fa a 40 anni, Giuseppe Baldessarro e Alessia Candito accusano la Calabria, dove Bozzo viveva e lavorava, a “Calabria Ora”. Senza un motivo specifico. “Una vita da cronista senza tutele né stipendio” è del settanta, anche ottanta, anche novanta per cento del giornalismo italiano: un tanto a riga, o pochi centesimi a parola, una miseria, paghe come rimborsi spese, forfait da fame, ritardi, contestazioni, abusi d’ogni sorta. Anche di testate nazionali non ignote a Baldessarro e Candito. Però la Calabria si vuole diversa.
 
Baldessarro e Candito non si chiedono perché in Calabria non si legga. Non i giornali locali – le due testate locali vendono meno, complessivamente, delle testate nazionali, che non hanno le cronache paesane.
 
“I calabresi sono letteralmente attaccati a tutto”, secondo Filosa e Zurlo, “Cosma&Mito, L’assedio dei gruppi”: “Non importa che si tratti di affascino e malocchi affini, allucinazioni da alcol, divinità o spiriti, ambizioni esagerate, o gelosie e invidie senza limiti…. C’è una sola certezza: ogni cosa creata da uomo, tempo e natura, è animata e ci parla”. Nello sconforto o scontento generale, abissale, c’è chi ci crede e si crede. Non male, è il principio dell’essere. Anche dell’esistere. 
 
Giusepe Bono, il manager di Pizzoni, Vibo Valentia, che ha risanato e rilanciato Fincantieri, ora gruppo mondiale, era molto religioso. L’aneddotica vuole che abbia lasciato il varo di una grande nave per non perdersi la processione della Madonna a Tagliacozzo, in Abruzzo, dove aveva acquistato l’abitazione di famiglia, una villetta a schiera.
 
A vedere, campagne ricche e ricchissime, montagne verdi, mare cristallino, si direbbe il paradiso. Leggendo il giornale si scopre che viene ultima o quasi per qualità della vita, ogni anno perdendo posizioni invece di guadagnarle. A viverci si soffre la mancanza di mentalità del servizio – un primo contatto va bene, al bar, al ristorante, dal macellaio, all’alimentari, anche coi vecchi amici, ma non di più, l’interesse scema presto, anche il garbo. Non c’è il bisogno – escludendo l’appannamento dell’amicizia, inevitabile con gli anni? È una teoria. Ma allora perché vi si sta così male, come dice il giornale? No, è che il guadagno dev’essere tutto subito – il “bene” più apprezzato sono i contributi pubblici, subito e senza fatica. Ecco, manca l’applicazione. Di gente che per secoli aveva accumulato nomea di cocciutaggine, testardaggine.
 
Ci sono i morti di ogni dove, nei due giornali della Calabria, “Gazzetta del Sud” e “Il Quotidiano del Sud”. Anche incidentali, anche in posti remoti, Poggibonsi o Crevalcore. Anche non di particolare gravità, o modalità. Un vezzo delle cronache locali, che non si sanno riempire d’altro? C’è effettivamente una propensione al mortuario, qualcuno le legge? È anche vero che i giornali non sono molto letti in Calabria – Totò Delfino ricordava che Feltri, direttore del “Giornale”, gli era affezionato perché, diceva, “mi fa vendere 400 copie”. Per due milioni di persone.
 
Entrando in Calabria sull’autostrada Salerno-Reggio, la prima stazione di servizio si trova a 102 km. dall’ultima in Campania (Sala Consilina), a Frascineto. Da Frascineto a Lamezia gli intervalli sono normali, 30-40 km. – è la provincia di Cosenza. Dopo Lamezia bisogna aspettare altri 84 km., fino a Rosarno. E da Rosarno ancora 50 km., fino a Villa San Giovanni. Non si guadagna abbastanza per mettere su una stazione di servizio? Non in Calabria rispetto ala Campania, dove invece il servizio è regolare? Non vi si guadagna tutto subito.
 
“Camici bianchi allo stremo. A Vibo un dottore sviene e si rompe una costola. È successo al pronto soccorso”. Dove sono rimasti in sei, la metà dell’organico. Effetto del lungo commissariamento della sanità, oltre un decennio, nelle mani di pensionati dei partiti al governo a caccia di un lauto nonfarniene. I medici calabresi che si formano a Roma rimangono nella capitale, quelli che si laureano, e si specializzano, in Calabria se ne vanno in Lombardia, perché per lavorare in Calabria bisogna avere già medici in famiglia, che “aprano le porte”. La Regione deve assumere medici cubani per riempire i buchi, e questi non le sono perdonati. Si potrebbe dire: la Calabria deve morire – sembra un (buon) titolo per la sanità.
 
Il dottor Mangialavori di Vibo Valentia, già senatore di Forza Italia e ora deputato, candidato a vice-ministro, anche per dare un minimo di rappresentanza nel governo Meloni alla regione, viene seppellito sotto voci di ‘ndranghetismo. Forse. Forse non lui, forse la moglie. No, forse il suocero. Mah, non si sa. Il “Corriere della sera” evita la querela con un’intervistina dopo il fattaccio. Ma è facile fare fuori un calabrese. Mafia?

leuzzi@antiit.eu

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