“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
28 febbraio 2025
E' POSSIBILE FAR PESARE DI PIU' I LEGAMI NELLA "SOCIETA' LIQUIDA"?
" Non sai bene se la vita è viaggio,
se è sogno, se è attesa, se è un
piano che si svolge giorno
dopo giorno e non te ne accorgi
se non guardando all' indietro.
Non sai se ha senso.
In certi momenti il senso non conta.
Contano i legami."
Jorge Luis Borges
IL MONDO ODIERNO HA MESSO IN CRISI IL "PENSIERO DEBOLE"
Michele Silenzi
Non si parla più di "pensiero debole", e non è detto che sia un bene
Il Foglio, 28 febbraio 2025
Oggi non si parla più di “pensiero debole”, tema di moda fino a qualche anno fa. E se da un lato può essere una fortuna, dall’altro è un peccato perché riflettere su quella prospettiva è piuttosto stuzzicante per provare a capire qualcosa dei fenomeni politico-culturali correnti. Quando, quarant’anni fa, uscì il volume curato da Gianni Vattimo e Pier Aldo Rovatti intitolato appunto Il pensiero debole, il panorama politico era radicalmente diverso ma risultava già chiaro un certo panorama esistenziale di cui quel libro, in maniera più o meno discutibile, forniva un’interessante interpretazione. Scriveva Rovatti: “Che altro è la perdita del centro se non la dichiarazione, la sanzione che il pensiero ‘forte’ è ormai insostenibile?”.
Il pensiero debole non nasceva per contrapporsi al “pensiero forte” ma assumeva che il pensiero forte inteso in senso tradizionale (tomista, o razionalista, ossia che affermava la corrispondenza tra il mondo e il disegno che la ragione forniva di quel mondo) fosse ormai tramontato per sempre, e con esso tutte quelle strutture storiche su cui l’occidente si era edificato. Il tentativo del pensiero debole era quindi fornire una cornice teoretica per capire “come vivere” nel momento in cui non vi era più “un testo a cui uniformarsi”. Tuttavia, il pensiero debole, proprio perché un pensiero radicato in una sofisticata elaborazione intellettuale era, paradossalmente, “forte”, ossia nasceva da una chiara visione di cosa fosse il mondo, o, almeno, di cosa non fosse.
Nel suo saggio introduttivo, Vattimo, grande interprete di Heidegger, delinea un’ontologia in cui spiega chiaramente come ciò che viene indicato come “morte di Dio” è che “l’essere non è”. Con una tale prospettiva si supera tutta quella tradizione lunghissima che, per stare ai manuali scolastici, inizia con la formula parmenidea secondo cui “l’essere è e il non essere non è”. Dicendo, invece, che “l’essere non è” non si vuole dire altro se non che non vi è alcun fondamento ma solo fenomeni, anzi, solo diverse interpretazioni dei fenomeni che possono anche essere valide contemporaneamente. E che possono legittimamente confrontarsi e procedere insieme fino alla successiva biforcazione: scissione da cui partono nuove interpretazioni. Allo stesso tempo, però, le interpretazioni, per capirsi tra loro, devono avere un terreno comune costituito da una pietas per le rovine della storia, per ciò che la storia ha scartato, ha messo da parte: per tutto ciò che non è la Storia trionfalmente progressiva raccontata dai vincitori.
Un tale pensiero è tutt’altro che superficiale o poco sofisticato, anzi, ciò che Vattimo delinea è la necessità di un pensiero capace di leggere in maniera positiva la dissoluzione di un modello ontologico millenario: ciò che, stancamente, si definisce “il tramonto dell’occidente”. L’indebolimento dell’idea di una Storia unitaria e razionale, della dissoluzione degli assoluti tanto metafisici quanto politico-sociali-religiosi, non rappresentano per Vattimo la totale e straniante deprivazione di senso dell’esistenza ma (e qui sta il twist brillante e discutibilissimo) il senso effettivo della fase storica attuale, della nostra esistenza. E in questo smarrimento, nella prospettiva del pensiero debole, occorre trovare pratiche di vita informate dalla pietas per le rovine di quella è stata la Storia con i suoi assoluti tramontati.
E’ evidente come questa sia una costruzione piuttosto articolata, ma è chiaro, soprattutto, come alla base di una simile filosofia vi è un’idea ben precisa di mondo e di cosa sia, o non sia, l’essere (ossia la condizione di possibilità di tutto ciò che è). Questo orizzonte filosofico ha dato vita a una serie di scimmiottamenti e di dozzinali relativismi che hanno pervaso tutta quella sfera politica e intellettuale che possiamo generalizzare con il nome di “progressismo”. Un tale rischio è naturale quando si crea uno slogan indubbiamente felice e fortunato per descrivere una costruzione filosofica, ed è senza dubbio il caso della formula “pensiero debole”. Il fatto è che la sloganistica in cui si è diluito e perduto tale pensiero (destino forse inevitabile!) è divenuto un pensiero, se ancora si può chiamare tale, non più debole, bensì fiacco, inebetito e parolaio. Ed è divenuto tale perché è privo di presa sulle cose reali. Ciò è avvenuto perché la sloganistica in cui si è disperso il pensiero debole, e la politica “progressista” che si è costruita su quella sloganistica, non ha più un’idea di cosa sia il mondo, non ha più uno sguardo sul mondo. Detto in maniera più sofisticata: non ha un’idea di “essere” su cui poggiarsi. Ma ciò, concretamente, significa che non si può “cambiare il mondo”, o quantomeno provare a spingerlo nella direzione che si desidera “politicamente”, se non si ha idea di cosa il mondo sia, di cosa si vuole che sia, e di cosa esso possa quindi diventare.
L’idea di Vattimo, per quanto interamente contestabile, era potente e intrigante per fornire un orizzonte interpretativo a una sinistra cosiddetta post marxista, ma è franata alla prova pratica della storia. Nulla di strano, capita alla maggior parte delle idee che si scontrano con il mondo. Ma avere un’idea e provare a diffonderla è già combattere la buona battaglia. Del resto il mondo emerge e si dà forma attraverso tentativi ed errori. Invece, la cosa attraente del progressismo contemporaneo, attraente, si fa per dire, perlomeno per chi guarda come semplice osservatore, è che non ha neppure un’idea (più welfare, più diritti, più tutele, più green, più… non è un’idea). Senza una filosofia, senza una “proposta di mondo” (sia pure quella di renderlo debole), non esiste alcuna costruzione politica, e quindi nessuna capacità di persuadere della propria idea. Del resto, come farlo se non se ne ha neppure una?
L' ARTE DELLA GIOIA DI GOLIARDA SAPIENZA AL CINEMA
La liberazione del piacere femminile
“Mi sono presi tutti i piaceri”, Modesta lo dichiara prima di cominciare. Piccola capraia indocile violentata dal padre dà fuoco alla casa, e il maresciallo la confida, povera orfanella, alle suore. Sarà la beniamina della bella e nobile badessa, e sua erede in caso di morte. La badessa muore veramente, spinta da Modesta?, e le porte della magione principesca le si aprono. Questo nei primi due episodi, tra autoerotismi e toccamenti saffici. Molto di più si dovrebbe vedere nei prossimi quattro della serie.
Una professione di femminismo, una sorta di manifesto, come usava negli anni in cui Sapienza concepì la storia – usavano “manifesti” di castrazione maschile, etc.
Golino segue il romanzo, ma con una punta di perfidia, quasi sadica.
Una storia difficile, scritta e riscritta da Goliarda Sapienza negli anni 1960-1970, per una dozzina d’anni, pubblicata postuma trent’anni dopo, in edizione ridotta e alla macchia, da Stampa Alternativa, che non aveva distribuzione. Ritornata in Italia una quindicina d’anni dopo, dopo la traduzione e il successo in tedesco. Il femminismo sboccato della favola, in un convento di suore, ne ha a lungo pregiudicato la diffusione – tra i rifiuti c’è pure quello Feltrinelli. Il volumone Einaudi con cui si propone la rivalutazione della scrittrice non comprende questo racconto.
Valeria Golino, L’arte della gioia, Sky Cinema
UNA NUOVA YALTA: l' inimmaginabile alle porte
L'inimmaginabile è alle porte.
Non era pensabile, fino a pochi giorni fa che, l'inusuale idillio Usa-Russia, saltate tutte le regole della real politik e dell'etica umana, servisse a spartirsi il mondo. Dopo Yalta. Con la voce dell' Europa ridotta all'afasia.
Il sogno zarista dell'autocrate russo e quello imperialista del magnate americano hanno trovato possibilità di realizzazione: in una fitta nebbia di relativismo etico, in cui bene e male; giusto e sbagliato sono indistinguibili.
A Yalta, dopo un conflitto che costò la vita a milioni di persone:
Franklin Delano Roosevelt, Stalin e Winston Churchill in pochi giorni prenderanno decisioni cruciali sulla Germania e sul resto dell'Europa; per il nuovo equilibrio che si sarebbe ricostruito dopo la fine del conflitto
Ma, allora, ne avevano titolo.
Oggi, con il mondo sedato a sfogarsi- come ha acutamente espresso ieri il Card. Ravasi - sui social, altro che sommosse rivoluzionarie...
Il bello deve ancora venire...
27 febbraio 2025
G. VIALE, Non hanno visto arrivare i nuovi padroni
GUIDO VIALE *
NON HANNO VISTO ARRIVARE I NUOVI PADRONI
Tutti i commentatori che per anni si sono spesi in ogni modo per affermare, ribadire e confermare la “nostra” (cioè la “loro”) fedeltà atlantica adesso si stracciano le vesti perché “l’America” (cioè gli Usa; le Americhe sono un’altra cosa) non è più la stessa. Il colpo è stato forte, ma il loro sconcerto durerà poco. Presto li vedremo allineati con i nuovi padroni, perché una politica autonoma e indipendente non sanno nemmeno concepirla. Non ci hanno mai pensato. Balbettano. Non saprebbero da dove cominciare. Da un esercito comune? E giù a comprare armi: dagli Usa. Non ha funzionato con un mercato e una moneta comuni, figuriamoci con le armi! Da un’unione politica? Ma quale, senza un programma comune? E quale potrebbe mai essere quel programma?
Uno solo: la conversione ecologica. Ma loro non lo sanno. Non ce n’è nessun altro che racchiuda in sé tutte le questioni che il nostro tempo ci impone di affrontare: pace, ambiente, diritto alla vita, salute, sicurezza, redditi, istruzione, convivenza, solidarietà. Non è il Green Deal, che è invece uno strumento di distrazione di massa, fatto per eludere i nodi più importanti con misure parziali, derogabili, mai spiegate, spesso respingenti, a volte dannose.
Un programma comune richiede la partecipazione di tutti, o delle componenti più attive, alla sua elaborazione attraverso i tre passi sintetizzati da Extinction Rebellion: informare tutti, agire dove è possibile, deliberare in assemblee aperte. Utopia? Certo. Ma è il momento di rivalutare la parola e la sua pratica. Che cosa è successo invece?
Non li hanno visti arrivare. Sicuri di poter continuare nei modi di sempre, non hanno visto arrivare gli uomini, le donne, le forze politiche, le “visioni” (le tanto disprezzate “ideologie”) e soprattutto le pratiche che, in un Paese dietro l’altro, stanno conquistando il potere per trasformarlo in modo da non poterlo né doverlo più cedere per tutto il tempo a venire. Un passaggio che porta alla luce il vuoto di cui si sono alimentate per anni le politiche dell’”Occidente”, sia di destra che di sinistra.
Governavano – o fingevano di farlo, al servizio di personaggi assai più potenti – convinti che nessuno li avrebbe mai disturbati. E come? Con “l’austerità”, niente altro che il trasferimento di redditi, salute, sicurezza, cultura e dignità dal popolo che abita ai piani bassi della piramide sociale all’elite che ne occupa il vertice: un pugno sempre più ristretto di signori della finanza, dell’informazione, della guerra. Con la sottovalutazione sistematica della crisi climatica, trattando ogni evento meteo estremo, ogni disastro ambientale, come un caso a sé, abbandonando le vittime, o anche contrastandole quando cercavano di tirarsene fuori da sole. Con una convergenza sostanziale di intenti per “tener fuori” i migranti, costi quel che costi, dai confini di ogni nazione: gli uni facendosene un vanto e una bandiera, anche se le politiche adottate si traducono in nient’altro che in stragi, torture e massacri lontano dai nostri sguardi; gli altri cercando di sopire drammaticità e dimensioni della situazione, per nascondere che le loro non-politiche non ne sono che una replica.
Dunque, con la promozione di un cinismo diffuso, dell’indifferenza, vettore di fondo dell’irresistibile ascesa delle destre. E infine, con le guerre: scatenandole o adoperandosi per renderle comunque generali, insolubili, permanenti, sempre più atroci. Un’accelerazione, questa, della crisi climatica, della produzione di profughi, e della spoliazione dei poveri: armi invece di welfare, devastazione degli habitat invece di convivenza, spreco di beni e di vite invece di custodia della Terra.
Così i nuovi padroni del mondo possono continuare a fare quelle stesse cose (compresa la guerra: se non più qui, là) moltiplicandone gli effetti, ma presentandosi come gli unici in grado di inaugurare una nuova era: quella in cui si dice apertamente le cose come stanno e come si vuole che vadano. E poi le si fanno senza tentennamenti.
Tornare indietro non è più possibile: non c’è niente di attraente in quel passato che ci stanno mettendo dietro le spalle. È molto più seduttivo, invece, quello che promettono le nuove dittature, perché è facile da enunciare e impossibile da verificare. Il loro appeal non può più essere scalzato se non da una moltiplicazione di iniziative radicali che partano dalla base della piramide.
È quello che sostiene anche George Monbiot sul Guardian del 18 febbraio (There are many ways Trump could trigger a global collapse. Here’s how to survive if that happens): reti di vicinato, democrazia deliberativa, valorizzazione delle risorse locali. Una nuova politica che preveda, secondo la visione di Murray Bookchin, più diversità, più apertura alle diverse possibilità, più modularità, cioè replicabilità nei contesti più vari. Certo, sono necessarie anche politiche nazionali e globali, ma è ora di capire, sostiene Monbiot, che nessuno se ne occuperà, se non noi. Non c’è che da cominciare a mettersi insieme.
* GUIDO VIALE ha aderito alla campagna Partire dalla speranza e non dalla paura. Nell’archivio di Comune sono leggibili oltre duecento suoi articoli.
J. STEINBECK SPIEGA PERCHE' LE IDEE SOCIALISTE NON SONO MAI ATTECCHITE NEGLI U.S.A.
"Il socialismo non ha mai attecchito in America perché i poveri non si considerano proletariato sfruttato, ma milionari in temporanea difficoltà."
John Steinbeck.
ITALO CALVINO CONTRO LA LEGGEREZZA
ILARIA GASPARI, SALVIAMO CALVINO DALLA LEGGEREZZA
La Stampa, 27 febbraio 2025
Lo sento dire da tutte le parti, lo si ripete ovunque. La leggerezza è fondamentale!, Ci vuole un po’ di leggerezza, altrimenti… – non c’è nemmeno bisogno di finire la frase. Altrimenti soccombiamo, altrimenti non ci resta che l’orrore del presente. Altrimenti ci annoiamo, altrimenti ci arrabbiamo. Io della leggerezza sono una grande sostenitrice; sono stata una bambina mingherlina e malinconica, caratteristiche che mi hanno presto incoraggiata a scoprire il potere dell’allegria, lo scalpiccio che spinge verso l’alto chi conosce troppo bene ugge e paturnie, chi avverte il peso del mondo in forma di malumore e sa la forza attrattiva della gravità perché ogni tanto si sente scivolare verso pozzi invisibili in cui cadrebbe, se non fosse appunto per quello scarto imprevisto. È lo slancio della leggerezza, ginnastica dell’umore che non corregge la scoliosi ma aiuta a ridere anche di quella, e così ti costringe a sollevare le spalle un po’ curve e, ancora, a vincere la gravità. Non conoscerei questo slancio se non fossi attratta dalla pesantezza; non conoscerei l’allegria, se non sapessi essere triste. La parola allegria ordisce questo garbuglio dialettico nell’etimologia che l’annoda all’aggettivo alacer: alacre, come chi si premura di mantenersi in movimento, l’unico modo per stare in piedi fra le nuvole. Insomma, sono una fautrice e una praticante della leggerezza. Eppure, quando la sento invocare come qualità essenziale, necessaria, imprescindibile, per vivere, pensare, esistere nella maniera migliore, la più auspicabile (da chi, poi? Forse dalla generica estetica pubblicitaria che ammanta le nostre vite nel tempo che ci vuole fotogenici dentro e fuori)… ecco, di fronte a questi appelli, dentro di me scatta una dissonanza. Sottile, ma distinguibile. Mi sento a disagio: perché?
Sicuramente per via della mia abitudine a spaccare il capello in quattro. Prescrivere di essere leggeri è come prescrivere la spontaneità. Ovvero un atteggiamento che non si può imporre né simulare. Mi sembra un’indicazione ingenerosa nei confronti della grazia gentile della leggerezza: la grazia non si può falsificare. Ma c’è dell’altro. Per esempio, il fatto che prima di questo momento di gloria, la leggerezza è stata a lungo bistrattata da una reputazione discutibile: in una notevole convergenza fra pregiudizi misogini e diffidenze nei confronti di tutto ciò che, lieve, si contrappone alla gravitas più profonda e professorale, fino a non molto tempo fa accusare una donna di essere leggera era una forma di scherno, una contumelia tanto più volgare per via della forma elegante, tesa a mettere in luce comportamenti considerati poco virtuosi, volubilità capricciose che, grazie al cielo e a oltre un secolo di lotte femministe, oggi hanno cambiato segno e ci appaiono sintomo di carattere e di vitalità. Ma è ancora relativamente vicino il tempo in cui l’etichetta di leggera (o leggerina, o leggerotta), funzionava da congegno di controllo di condotte, corpi, desideri.
Non sarà dunque che l’urgenza di spennellare leggerezza a destra e a manca sia un tentativo di ammenda per i tanti torti che ha subito? Quella che conosce oggi è vera gloria, o nasconde un equivoco simile a quello che per troppo tempo l’ha confinata al rango d’ingiuria?
E qui vengo al malinteso che credo sia la vera causa della mia sensazione dissonante di fronte agli elogi di quest’adorabile qualità aerea. Al centro c’è una frase che compare con frequenza impressionante, quando si parla di leggerezza: sui social, nei monologhi televisivi, nelle recensioni di libri, nelle conversazioni. Una frase che si cita attribuendola a Calvino, addirittura situandola nelle sue Lezioni americane; solo che non compare nelle Lezioni americane, e non è nemmeno una frase di Calvino. La frase la conoscete: «Prendete la vita con leggerezza, che leggerezza non è superficialità, ma planare sulle cose dall’alto, non avere macigni sul cuore».
È una parafrasi della prima delle Lezioni americane - dedicata, in effetti, alla leggerezza - a opera di un’autrice di Cuneo, Mattea Rolfo, che non ha nessuna responsabilità nella mistificazione: semplicemente, quella sua glossa al testo calviniano, come una bottiglia dispersa nel mare della rete è finita nel vortice delle condivisioni sui social, che ne hanno decretato il successo trasfigurandone l’origine, senza che di controllare la fonte si prendesse la briga nessuno, o quasi. Giovanna Calvino, la figlia di Italo, aveva segnalato già anni fa, proprio via social, i suoi dubbi sull’autenticità della frase, e la vicenda della citazione apocrifa, ricostruita con divertita acribia filologica da Giuseppe Regalzi, è ricapitolata nei dettagli da Luigi Bruschi nel suo blog “La città invisibile”. Colpisce, però, che malgrado l’aforisma sia stato da più parti indicato come spurio, lo si continui a citare con entusiasmo e, senza dubbio, con molta leggerezza. Le ragioni del successo della massima coincidono, credo, con quelle della mia diffidenza. Laddove la riflessione di Calvino sulla leggerezza è una riflessione di poetica, la parafrasi trasferisce il discorso dal piano letterario a quello puramente esistenziale. Ma Calvino nelle Lezioni riflette sul lavoro autoriale, non dispensa consigli di vita: consigli di cui, come rivela il successo dell’apocrifo, oggi siamo tanto affamati da precipitarci a raccoglierli senza concedere alla letteratura la possibilità di rimanere un gioco che proceda non per prescrizioni, ma per sottrazioni di peso.
Soprattutto, penso che se fossimo davvero capaci di leggerezza, sapremmo distinguerla, senza bisogno di giustificazioni, dalla superficialità. Sapremmo che non esiste baritonale intonazione di profondità che valga quanto la magnifica, lieve sprezzatura del non prendersi sul serio, dell’osare essere gentili, aerei, lievi, anche guardando in faccia quello che ci spaventa.
26 febbraio 2025
IL SEME SACRO DELLE DONNE
IL SEME SACRO DELLE DONNE
Recensione di ROSELLA CORRADO
Il seme del fico sacro è un film coraggioso, necessario, forte di una forza disperata.
Ultima pellicola del regista iraniano Mohammad Rasoulof, vincitore dell’ Orso d’oro al festival di
Berlino del 2020 con Il male non esiste. Rasoulof, dissidente politico, già imprigionato nel carcere
di Evin, vive oggi esule in Germania, e per la Germania Il seme del fico sacro concorre all’ Oscar
come miglior film internazionale essendo entrato nella cinquina finalista. Presentato al Festival di
Cannes 2024 ha ricevuto il Premio Speciale della Giuria.
Il film, girato in clandestinità quasi tutto al chiuso, si compone di un prologo, due tempi e un
epilogo.
Nel prologo la scena di un’auto che percorre di notte un sentiero di campagna sino ad un tempio
dove l’autista entra per pregare. La preghiera è associata all’oscurità.
L’epilogo, che terrà col fiato sospeso sino all’ultimo istante, si svolge in piena luce, in un paesaggio
roccioso, in mezzo a rovine archeologiche, vestigia di un’antica grandezza.
Tra prologo ed epilogo due parti ben distinte.
La prima ripercorre la Storia delle manifestazioni di piazza seguite nel settembre 2022 al fermo e
all’uccisione della giovane Masha Amini colpevole di aver indossato troppo disinvoltamente il hijab
e la cui uccisione innescò il Movimento Donne, Vita, Libertà .
Rasoulof mostra gli arresti arbitrari della polizia morale, le violenze gratuite le uccisioni efferate,
servendosi di filmati amatoriali, girati con i telefoni cellulari dagli stessi manifestanti, che fanno
vedere quel che la televisione di Stato oscurava o distorceva nei suoi notiziari. Questa duplice
ottica su quanto accade nelle piazze è oggetto di discussione tra i componenti della famiglia
protagonista del film.
Il padre Iman (Missagh Zareh), già apparso nella prima scena, è da poco stato promosso Giudice
Istruttore della Guardia Rivoluzionaria e aspira a ulteriore progressione di carriera. Religioso
fervente e osservante della legge islamica, assorbito dal lavoro, si vede tuttavia marito e padre
autorevole e premuroso. La moglie, Najmeh (Soheila Golestani), devota al marito, cerca di
smorzare le intemperanze e le richieste (smalto rosso, capelli blu) delle giovani figlie Rezvan
(Mashsa Rostami) e Sana (Setareh Maleki) e tenere così unita la famiglia.
Nella seconda parte il campo si restringe all’interno delle mura domestiche dell’appartamento
abitato da questo nucleo familiare, dove il padre-giudice è convinto di aver costruito una famiglia
modello, serena e appagata dal benessere e dall’agiatezza assicurate dal suo ben remunerato
lavoro. Ma le giovani figlie che studiano, Sana alla scuola superiore, Rezvan all’Università, e
respirano l’aria della città e non il chiuso miasma del Palazzo di Giustizia, cominciano a contrastare
il padre, non sono più disposte a ubbidirgli passivamente e mentre più autoritario e dispotico, sino
alla paranoia, diventa il potere del padre, più coraggiosa e risoluta si fa la ribellione delle figlie. La
madre, inizialmente schierata con il marito, progressivamente si sposta dall’appoggio
incondizionato al ‘saggio capofamiglia’ verso le figlie che hanno compreso prima di lei quanto di
marcio e crudele ci fosse nel lavoro del padre. Il ritmo del racconto subisce un crescendo che
raggiuge lo Spannung nel momento in cui la pistola - data in dotazione al padre e segno del suo
alto ruolo professionale – sparisce e il padre accusa le figlie del furto (nella prima inquadratura,
premonitrice, era comparsa una rivoltella i cui proiettili rimbalzano su un tavolo e accanto un
foglio e una penna). In questa seconda parte del film il conflitto interno al microcosmo familiare è
metafora di un conflitto storico di giovani donne e uomini che lottano per la libertà e
l’affermazione dei propri diritti contro fanatici ayatollah prigionieri di un integralismo religioso che
ottunde il giudizio, proprio come succede al padre-giudice.
Nell’epilogo -di cui è bene tacere- il film vira da dramma storico a thriller sino ad un inatteso finale.
Il titolo viene spiegato in apertura dallo stesso regista in veloci didascalie. “Per molto tempo ho
vissuto in una delle isole meridionali dell’Iran. Su quest’isola ci sono alcuni vecchi alberi di fichi
sacri. Il ciclo di vita di questo albero ha attirato la mia attenzione. I suoi semi cadono sui rami di
altri alberi attraverso gli escrementi degli uccelli. I semi germogliano e le loro radici si muovono
verso il terreno. Quando le radici raggiungono il terreno, il fico sacro si regge sulle proprie gambe
e i suoi rami strangolano l’albero ospite.” Fuor di metafora i semi che germogliano e vanno a
radicarsi nel terreno rappresentano il coraggio delle donne che lottano e giungeranno ad
abbattere il potere teocratico di un Iran agonizzante come l’albero ospite che i semi del fico sacro
riescono a soffocare.
Le figure femminili de Il seme del fico sacro fanno pensare alla straordinaria protagonista del film
Io sono ancora qui di Walter Salles, Fernanda Torres, che dà vita sulla scena a una donna
eccezionale, Eunice Paiva, cui la dittatura militare del Brasile degli anni ’70 del Novecento rapì e
uccise il marito. Eunice dedicherà la sua vita non soltanto alla crescita dei cinque figli ma, divenuta
avvocato, alla difesa dei diritti umani e alla ricerca della verità. Comune ai due film è la lotta contro
un potere dispotico, la dittatura militare in Io sono ancora qui, il regime teocratico degli ayatollah
ne Il seme del fico sacro. In entrambi i film donne coraggiose, risolute a lottare contro il potere
costituito per costruire un mondo migliore.
I due film concorrono all’Oscar: a miglior film internazionale, come detto, Il seme del fico sacro;
alla migliore attrice protagonista Fernanda Torres con Io resto ancora qui. Sapremo il 3 marzo se il
massimo riconoscimento cinematografico americano vuole ancora premiare chi lotta per la libertà.
EUROPA SMIDOLLATA
Vertice per la difesa europea a Londra: come l’Unione a 27 anche la Brexit non conta più. Macron torna da Washington, Starmer ci andrà, tutti alzano le spese militari, il tedesco Merz anche prima di diventare cancelliere. Effetto Trump: l’Europa va nel panico
#26febbraio #primapagina
UNA MOSTRA DI FELICE CASORATI DA VEDERE
Chiara Gatti, Il caos calmo di Felice Casorati, la Repubblica, 26 febbraio 2025
Milano – Il tempo non esiste per la fisica teorica e neppure per Felice Casorati. Il tempo, per il grande pittore italiano, maestro assoluto dell’attesa e dell’oblio, è un’esperienza interiore, è la forma del nostro percepire il mondo e ciò che si agita nel cuore. Il resto è silenzio. Per questo le sue mele non marciscono, gli sguardi delle sue donne eteree si perdono nel vuoto, la polvere si ferma in sospensione e i bambini, sotto le frange sforbiciate, non invecchiano mai. «Quanta poesia nelle cose immobili!» confessa all’alba del 1912, stregato da portagioie celesti, collane di corallo e da quelle scodelle bianche che diventeranno l’icona muta e potente dei suoi enigmi quotidiani.
Si percorre così, in uno stato di rapimento vagamente sensuale, la mostra dal titolo nudo e puro Casorati, allestita al Palazzo Reale di Milano (fino al 29 giugno), prodotta da Marsilio e curata da Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli, massimi studiosi dell’artista di Novara, classe 1883, morto a Torino nel 1963 dopo aver attraversato mezzo secolo e i suoi stravolgimenti: il vortice delle avanguardie storiche dichiarandosi antifuturista; il primo conflitto combattendo sulla frontiera del Tirolo; poi il ventennio e il secondo conflitto aggrappandosi alla lezione del passato per sfuggire ai drammi del presente.
Davanti alla realtà di cristallo di oltre cento opere, tutti capolavori, fra dipinti, sculture e incisioni della stagione simbolista, si capisce come il suo tacere sia un caos calmo, una fuga non spostandosi di un metro e anche un atto di accusa che striscia in sottotraccia, rispondendo alla retorica di regime con «la dolente malinconia del nostro tempo», come dirà l’amico scrittore e pittore Carlo Levi in un articolo struggente all’indomani della sua scomparsa.
L’andamento cronologico accompagna lungo la sua ricerca, indagando nel dettaglio ogni passaggio e debito. Gli esordi dal gusto liberty di un ragazzo autodidatta cui scoppia nel petto «il demone della pittura», studiando Botticelli e Kandinskij, sono superati dall’attrazione fatale per l’estetica decadente dei “salottini in disuso” alla Gozzano. Ecco allora le figure allegoriche delle quattro Signorine, acquistate dal Comune di Venezia in Biennale per destinarle a Ca’ Pesaro, seminare oggetti come sciarade su un tappeto di fiori secessionisti, mentre stelle cupe e baci avvinghiati, eredi di Klimt, stillano uno spirito dannunziano e onirico in pezzi strepitosi della giovinezza come La via lattea del 1915, sintesi lirica di «notti popolate da “esseri invisibili”, “spiriti” e “allucinazioni”».
Frequentando le Biennali di Venezia, assorbe il succo delle novità in circolo, vivendole come luogo di dialogo e scoperta; la stessa cerchia di Ca’ Pesaro è densa di stimoli, visto il confronto coi colleghi Arturo Martini o Ubaldo Oppi. Muovendosi fra Verona (dove allestisce l’atelier in una sala da ballo), Torino (alla Promotrice) e Roma (in Quadriennale) la sua strada si intreccia a quelle di de Chirico e Carrà, i dioscuri della Metafisica, la poetica dell’eternità rappresa in un manichino, destinata a segnare il periodo maturo delle sue «nature morte artificiali», così definite da Lionello Fiumi nel 1919.
Le famose scodelle o le uova algide di Casorati – amatissime dall’amico antifascista Piero Gobetti – sono infatti solidi geometrici, architetture minime, tanto quanto le bottiglie di Morandi. Con la differenza che sulle bottiglie scorre il tempo scandito dalle ombre, mentre le uova che Felice ruba alla Pala di Brera di Piero della Francesca o alle ceste di Cézanne (ammirato in Laguna nel 1920), sono moduli per misurare e trasfigurare lo spazio.
Rinascimento e astrazione si toccano pure nei nudi fanciulleschi (La donna e l’armatura, visione erotica) ma, più che mai, nei ritratti ipnotici. Silvana Cenni è una madonna, una sfinge, un oracolo, una dea. È una figura immaginaria, custodita gelosamente nello studio di Torino e adesso allestita a due metri d’altezza per acuire la prospettiva del pavimento che s’arrampica verso un paesaggio ispirato al Quattrocento, come lo sono i davanzali memori di Antonello o di Bellini, nei mezzi busti di Cesarina e Riccardo Gualino.
Lui, imprenditore e mecenate, commissiona a Casorati il progetto per un teatrino nel suo palazzo torinese, prima di finire al confino per via delle critiche espresse alla politica economica di Mussolini. È il 1931: nello stesso anno il “suo” critico Lionello Venturi migra a Parigi per aver rifiutato il giuramento dei docenti al fascismo, mentre Casorati sposa l’allieva inglese Daphne Maugham (nipote del grande scrittore Somerset) giusto un mese dopo il rogo al Glaspalast di Monaco, sede dell’Esposizione internazionale, che riduce in cenere nove sue opere capitali, fra cui Lo studio, presentato alla Biennale del ’24 in una sala personale oggi ricostruita coi pezzi superstiti. Fra questi, spicca il Meriggio, dove tre corpi spogli sono assopiti fra coperte di panno. «L’immobilità delle figure ancora perfetta non è più assoluta...» spiega egli stesso in una conferenza del 1943 all’Università di Pisa.
La coscienza dell’epoca tragica sembra riattivare improvvisamente il tempo, che ora fluisce sulla pelle tradito dai raggi di sole.
Chiara Gatti, Il caos calmo di Felice Casorati, la Repubblica, 26 febbraio 2025
Milano – Il tempo non esiste per la fisica teorica e neppure per Felice Casorati. Il tempo, per il grande pittore italiano, maestro assoluto dell’attesa e dell’oblio, è un’esperienza interiore, è la forma del nostro percepire il mondo e ciò che si agita nel cuore. Il resto è silenzio. Per questo le sue mele non marciscono, gli sguardi delle sue donne eteree si perdono nel vuoto, la polvere si ferma in sospensione e i bambini, sotto le frange sforbiciate, non invecchiano mai. «Quanta poesia nelle cose immobili!» confessa all’alba del 1912, stregato da portagioie celesti, collane di corallo e da quelle scodelle bianche che diventeranno l’icona muta e potente dei suoi enigmi quotidiani.
Si percorre così, in uno stato di rapimento vagamente sensuale, la mostra dal titolo nudo e puro Casorati, allestita al Palazzo Reale di Milano (fino al 29 giugno), prodotta da Marsilio e curata da Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli, massimi studiosi dell’artista di Novara, classe 1883, morto a Torino nel 1963 dopo aver attraversato mezzo secolo e i suoi stravolgimenti: il vortice delle avanguardie storiche dichiarandosi antifuturista; il primo conflitto combattendo sulla frontiera del Tirolo; poi il ventennio e il secondo conflitto aggrappandosi alla lezione del passato per sfuggire ai drammi del presente.
Davanti alla realtà di cristallo di oltre cento opere, tutti capolavori, fra dipinti, sculture e incisioni della stagione simbolista, si capisce come il suo tacere sia un caos calmo, una fuga non spostandosi di un metro e anche un atto di accusa che striscia in sottotraccia, rispondendo alla retorica di regime con «la dolente malinconia del nostro tempo», come dirà l’amico scrittore e pittore Carlo Levi in un articolo struggente all’indomani della sua scomparsa.
L’andamento cronologico accompagna lungo la sua ricerca, indagando nel dettaglio ogni passaggio e debito. Gli esordi dal gusto liberty di un ragazzo autodidatta cui scoppia nel petto «il demone della pittura», studiando Botticelli e Kandinskij, sono superati dall’attrazione fatale per l’estetica decadente dei “salottini in disuso” alla Gozzano. Ecco allora le figure allegoriche delle quattro Signorine, acquistate dal Comune di Venezia in Biennale per destinarle a Ca’ Pesaro, seminare oggetti come sciarade su un tappeto di fiori secessionisti, mentre stelle cupe e baci avvinghiati, eredi di Klimt, stillano uno spirito dannunziano e onirico in pezzi strepitosi della giovinezza come La via lattea del 1915, sintesi lirica di «notti popolate da “esseri invisibili”, “spiriti” e “allucinazioni”».
Frequentando le Biennali di Venezia, assorbe il succo delle novità in circolo, vivendole come luogo di dialogo e scoperta; la stessa cerchia di Ca’ Pesaro è densa di stimoli, visto il confronto coi colleghi Arturo Martini o Ubaldo Oppi. Muovendosi fra Verona (dove allestisce l’atelier in una sala da ballo), Torino (alla Promotrice) e Roma (in Quadriennale) la sua strada si intreccia a quelle di de Chirico e Carrà, i dioscuri della Metafisica, la poetica dell’eternità rappresa in un manichino, destinata a segnare il periodo maturo delle sue «nature morte artificiali», così definite da Lionello Fiumi nel 1919.
Le famose scodelle o le uova algide di Casorati – amatissime dall’amico antifascista Piero Gobetti – sono infatti solidi geometrici, architetture minime, tanto quanto le bottiglie di Morandi. Con la differenza che sulle bottiglie scorre il tempo scandito dalle ombre, mentre le uova che Felice ruba alla Pala di Brera di Piero della Francesca o alle ceste di Cézanne (ammirato in Laguna nel 1920), sono moduli per misurare e trasfigurare lo spazio.
Rinascimento e astrazione si toccano pure nei nudi fanciulleschi (La donna e l’armatura, visione erotica) ma, più che mai, nei ritratti ipnotici. Silvana Cenni è una madonna, una sfinge, un oracolo, una dea. È una figura immaginaria, custodita gelosamente nello studio di Torino e adesso allestita a due metri d’altezza per acuire la prospettiva del pavimento che s’arrampica verso un paesaggio ispirato al Quattrocento, come lo sono i davanzali memori di Antonello o di Bellini, nei mezzi busti di Cesarina e Riccardo Gualino.
Lui, imprenditore e mecenate, commissiona a Casorati il progetto per un teatrino nel suo palazzo torinese, prima di finire al confino per via delle critiche espresse alla politica economica di Mussolini. È il 1931: nello stesso anno il “suo” critico Lionello Venturi migra a Parigi per aver rifiutato il giuramento dei docenti al fascismo, mentre Casorati sposa l’allieva inglese Daphne Maugham (nipote del grande scrittore Somerset) giusto un mese dopo il rogo al Glaspalast di Monaco, sede dell’Esposizione internazionale, che riduce in cenere nove sue opere capitali, fra cui Lo studio, presentato alla Biennale del ’24 in una sala personale oggi ricostruita coi pezzi superstiti. Fra questi, spicca il Meriggio, dove tre corpi spogli sono assopiti fra coperte di panno. «L’immobilità delle figure ancora perfetta non è più assoluta...» spiega egli stesso in una conferenza del 1943 all’Università di Pisa.
La coscienza dell’epoca tragica sembra riattivare improvvisamente il tempo, che ora fluisce sulla pelle tradito dai raggi di sole.
INVITO A LEGGERE L' ULTIMO LIBRO di NICOLA LO BIANCO
Attraverso i profili di grandi maestri spirituali del Novecento, come
Gandhi, Martin Luther King, Aldo Capitini e altri, il testo offre al
lettore una sintesi essenziale e accessibile delle loro vite e del loro
pensiero, evidenziando il filo conduttore che li unisce: la ricerca della pace, della giustizia e della dignità umana. Ogni ritratto è un invito a esplorare il significato più profondo di queste vite esemplari, a riscoprire l’importanza della resistenza morale e della nonviolenza come risposte a un mondo spesso dominato dalla violenza e dalla sopraffazione.(NICOLA LO BIANCO)
25 febbraio 2025
MARINEO (PA), 2 SETTEMBRE 1991: LA DENUNCIA DEL SISTEMA DI POTERE CLIENTELARE-MAFIOSO
A COSA SERVE RICORDARE?
"Ricordare, raccontare, testimoniare, vale la pena. Bisogna ricordare, se non altro per quelli che hanno pagato di persona."
Il promemoria di Giuliana Saladino, scritto in Terra di rapina (1977), mi è tornato alla mente stamattina. La grande giornalista, colonna de L'ORA di Palermo, aveva preso spunto da una notizia si cronaca nera per scrivere un libro prezioso che aiuta a comprendere la storia della nostra isola meglio di tanti saggi e studi accademici.
Ma non è del libro della Saladino che voglio parlare oggi, quanto piuttosto di un altro fatto, di cui sono stato protagonista e testimone, realmente accaduto a Marineo più di 30 anni fa.
Riassumo per sommi capi i fatti ricordando che il Sindaco democristiano e limiano del tempo, CIRO SPATARO, sollecitato dal Prefetto di Palermo, aveva invitato tutti i Consiglieri Comunali a partecipare alla fiaccolata che si sarebbe svolta la sera a Palermo per ricordare l'assassinio del Generale Dalla Chiesa. Lo scrivente allora era un Consigliere Comunale del PCI. Appena ricevuto l' invito, sorprendendo tutti (anche i suoi compagni di Partito!!!), rispose al Sindaco con la lettera riprodotta sopra integralmente.
Di seguito riprendo alcuni passi di essa:
"Per liberare la nostra terra dalla mafia e dal clientelismo, che è uno dei suoi terreni di coltura, è necessario che tutti i cittadini siano messi nelle condizioni di operare quotidianamente nel pieno rispetto delle leggi e del diritto. Senza questa basilare condizione, cortei e parole rischiano di apparire riti inconcludenti, utili solo a gettare fumo negli occhi della gente.
I rappresentanti delle Istituzioni, a tutti i livelli, devono essere i primi ad osservare le leggi che regolano ogni civile convivenza. Gli Amministratori Locali, in specie, sono tenuti ad assicurare in ogni loro atto efficienza, imparzialità e trasparenza, se vogliono apparire credibili.
Le Sue parole, Signor Sindaco, non sono più credibili, perché da tempo sono contraddette dal Suo quotidiano operare nella gestione della res pubblica.
La mafia che esiste in Sicilia, come scriveva tanti anni fa un alto Magistrato, non è pericolosa, non è invincibile per sè, ma perché è strumento del governo locale.
La cosa più triste e scoraggiante che ci tocca costatare oggi è che, dopo più di cent'anni, risultano ancora terribilmente attuali le parole di Napoleone Colajanni:
"Si può restituire nei cittadini colla iniquità sistematica, colla illegalità fatta regola, la fede nella giustizia e nella legge? No, mille volte no; perciò la mafia del Governo ha rigenerato la mafia dei cittadini".
Questa lettera il Consigliere Virga la inviò per Racc. ta anche al Prefettto di Palermo e al Ministro degli Interni a Roma. Dopo un mese il Sindaco Spataro venne destituito.
Lascio ai curiosi il compito di andare a cercare il testo originale di questo documento presso l'Archivio della Prefettura di Palermo, dal momento che la copia della lettera inviata al Sindaco di Marineo ( Prot. n. 10862 del 2 settembre 1991) risulta scomparsa dall'Archivio Comunale. (fv)
24 febbraio 2025
F. SCIANNA RACCONTA H. CARTIER-BRESSON
𝗜𝗹 𝗺𝗮𝗲𝘀𝘁𝗿𝗼 𝗱𝗲𝗶 𝗺𝗮𝗲𝘀𝘁𝗿𝗶. 𝗙𝗲𝗿𝗱𝗶𝗻𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗦𝗰𝗶𝗮𝗻𝗻𝗮 𝗿𝗮𝗰𝗰𝗼𝗻𝘁𝗮 𝗛𝗲𝗻𝗿𝗶 𝗖𝗮𝗿𝘁𝗶𝗲𝗿-𝗕𝗿𝗲𝘀𝘀𝗼𝗻
❗ 𝗨𝗹𝘁𝗶𝗺𝗶 𝗽𝗼𝘀𝘁𝗶 𝗽𝗲𝗿 𝗾𝘂𝗲𝘀𝘁𝗼 𝘀𝗽𝗲𝗰𝗶𝗮𝗹𝗲 con cui apriamo il public program delle nuove mostre ➡️ 𝗚𝗶𝗼𝘃𝗲𝗱𝗶̀ 𝟮𝟳 𝗳𝗲𝗯𝗯𝗿𝗮𝗶𝗼 𝟮𝟬𝟮𝟱, 𝗮𝗹𝗹𝗲 𝗼𝗿𝗲 𝟭𝟴.𝟯𝟬, siamo felici di avere con noi 𝗙𝗲𝗿𝗱𝗶𝗻𝗮𝗻𝗱𝗼 𝗦𝗰𝗶𝗮𝗻𝗻𝗮, primo fotografo italiano membro di Magnum Photos per approfondire lo sguardo e la storia di Henri Cartier-Bresson, definito l’occhio del secolo.
In dialogo con 𝗪𝗮𝗹𝘁𝗲𝗿 𝗚𝘂𝗮𝗱𝗮𝗴𝗻𝗶𝗻𝗶, Ferdinando 𝗦𝗰𝗶𝗮𝗻𝗻𝗮 𝗿𝗶𝗽𝗲𝗿𝗰𝗼𝗿𝗿𝗲𝗿𝗮̀ 𝗹𝗮 𝗰𝗮𝗿𝗿𝗶𝗲𝗿𝗮 𝗱𝗲𝗹 𝘀𝘂𝗼 𝗺𝗲𝗻𝘁𝗼𝗿𝗲 𝗲 𝗺𝗮𝗲𝘀𝘁𝗿𝗼, con cui instaurò negli anni non solo una collaborazione professionale, ma anche un 𝗹𝗲𝗴𝗮𝗺𝗲 𝗱𝗶 𝗽𝗿𝗼𝗳𝗼𝗻𝗱𝗮 𝗮𝗺𝗺𝗶𝗿𝗮𝘇𝗶𝗼𝗻𝗲 𝗲 𝗮𝗺𝗶𝗰𝗶𝘇𝗶𝗮. Un’occasione unica per approfondire la figura centrale di Cartier-Bresson nel panorama della fotografia internazionale e il suo rapporto con l’Italia, attraverso la voce di un altro grande maestro della fotografia che lo ha conosciuto da vicino.
Non vediamo l'ora di ascoltarlo!
𝗜𝗻𝗴𝗿𝗲𝘀𝘀𝗼 𝟯,𝟬𝟬€
𝗣𝗿𝗲𝗻𝗼𝘁𝗮𝘁𝗲𝘃𝗶 𝗾𝘂𝗶 👉 www.camera.to/agenda
📷 Henri Cartier-Bresson and Ferdinando Scianna, Bagheria, Italy, 1986
© Martine Franck / Magnum Photos
ITALO CALVINO ED ERMANNO OLMI
ALIENAZIONE E SENTIMENTI NELL'OPERA DI ITALO CALVINO
La condizione sociale dei personaggi nell'opera narrativa di Italo Calvino merita un esame più attento. Colpisce la scarsa presenza degli operai. Marcovaldo è un impiegato e un operaio al tempo stesso, una figura intermedia, essendo di fatto magazziniere. Non ci sono operai nella trilogia dei Nostri antenati. Medardo di Terralba, Cosimo Piovasco di Rondò e Agilulfo vivono in epoche lontane, in un mondo che non è stato ancora toccato dalla Rivoluzione industriale. Agilulfo, il cavaliere inesistente, è addirittura uno tra i paladini che si trovano alla corte di Carlomagno. Medardo di Terralba, il visconte dimezzato, aveva per compagno un medico inglese che aveva esercitato la sua professione sulle navi del capitano Cook; questo permette di collocare la vicenda narrata intorno agli anni 1770. Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, è già in movimento al tempo di Voltaire e dell'Enciclopedia, ma fa in tempo a conoscere la Rivoluzione e l'Impero, parla con Napoleone in persona, incrocia il principe Andrej di Guerra e pace e da ultimo sperimenta l'avvio della Restaurazione. Se poi andiamo a vedere i racconti inclusi in Ultimo viene il corvo troviamo personaggi in genere molto pittoreschi, tutti collocabili in una posizione sociale lontana dall'universo del capitale e del lavoro salariato in una fabbrica o manifattura che sia. Ci sono un giardiniere, dei ragazzi ancora adolescenti, due bambini, due o tre coltivatori diretti, dei lavoranti, dei contadini poveri, un pastore, dei proprietari terrieri un po' agiati, un apicultore, degli studenti, diversi partigiani, dei trasportatori dotati di un animale - bue in un caso, mulo nell'altro -, degli animali tra i quali un gatto, dei trafficanti in dollari, delle prostitute, il cavalier servente di una vedova, un fante, un giudice, un poliziotto, un finanziere, un giornalista, un deputato, un generale, un contrabbandiere e un pescivendolo (più esattamente uno che vende frutti di mare).
La novità si produce nel 1957, quando a Torino si forma un gruppo di artisti decisi a introdurre un nuovo repertorio nel campo della musica leggera. Non più le canzoni stucchevoli presentate al Festival di Sanremo ma dei pezzi ispirati a tematiche di rilievo sul piano civile, sociale o politico: i cantacronache. Per loro Calvino nel maggio 1958 scrisse in particolare un testo sulla vita di due sposi la cui vita affettiva e sessuale era devastata dalla necessità di rispettare i turni di lavoro in fabbrica. Niente più amore, cuore e fiore disposti alla fine di ogni verso per fare rima, ma una pesante routine in un quadro fatto di nebbia e sguardi tristi. Concessioni al sentimento: un bacio in fretta e il tepore del letto. Canzone triste si intitolava il brano, fu musicato da Sergio Liberovici e portato in scena dalla moglie di lui, Margherita Galante Garrone, detta Margot.
Erano sposi. Lei s'alzava all'alba
prendeva il tram, correva al suo lavoro.
Lui aveva il turno che finisce all'alba
entrava in letto e lei n'era già fuori.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
Dopo il lavoro lei faceva spesa
- buio era già - le scale risaliva.
Lui in cucina con la stufa accesa,
fanno da cena e poi già lui partiva.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
Mattina e sera i tram degli operai
portano gente dagli sguardi tetri;
fissar la nebbia non si stancan mai
cercando invano il sol, fuori dai vetri.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
Poco tempo dopo, in novembre, Calvino pubblicò una nuova edizione dei suoi racconti, aggiungendo a quelli già pubblicati in precedenza dei nuovi pezzi e, tra questi, inserì una versione narrativa della vicenda trattata nella canzone. Invece dei versi allineati in uno spazio ristretto alcune pagine dense di nuovi particolari altrettanto significativi e realistici. Umberto Massola era l'operaio comunista che aveva scritto un resoconto emblematico degli scioperi in tempo di guerra. E Arturo Massolari si chiama il protagonista del racconto. La moglie è nota solo con il nome di Elide. Il risveglio di lei al mattino è descritto con minuzia. Perfino i rumori sono codificati e si ripetono uguali da una volta all'altra. C'è l'imbarazzo di lei nel mostrarsi spettinata e ancora piena di sonno. Le cose vanno meglio quando lui fa in tempo a svegliare Elide portandole il caffè. Un abbraccio suggella l'incontro. Il cappotto umido di nebbia evocato nella canzone diventa un giaccone impermeabile che funziona da rilevatore del tempo atmosferico. Qualche parola su ciò che era successo nelle ore precedenti, la prossimità dei corpi in bagno, lei che si veste, lui che la guarda con un certo imbarazzo, arriva il momento del bacio e lei è già proiettata fuori. Lui la segue con l'udito e con il pensiero. Poi Arturo si mette a letto e, quando si alza cerca di sbrigare, e sbriga malamente, qualche faccenda domestica. La cena viene consumata a spese di una tenerezza che non riesce a trovare il suo spazio. Alla fine con perfetta simmetria rispetto al mattino è Elide a ritrovarsi da sola nel letto e a cercare una traccia del calore lasciato dal suo sposo.
L’avventura di due sposi
L’operaio Arturo Massolari faceva il turno della notte, quello che finisce alle sei. Per rincasare aveva un lungo tragitto, che compiva in bicicletta nella bella stagione, in tram nei mesi piovosi e invernali. Arrivava a casa tra le sei e tre quarti e le sette, cioè alle volte un po’ prima alle volte un po’ dopo che suonasse la sveglia della moglie, Elide. Spesso i due rumori: il suono della sveglia e il passo di lui che entrava si sovrapponevano nella mente di Elide, raggiungendola in fondo al sonno, il sonno compatto della mattina presto che lei cercava di spremere ancora per qualche secondo col viso affondato nel guanciale. Poi si tirava su dal letto di strappo e già infilava le braccia alla cieca nella vestaglia, coi capelli sugli occhi. Gli appariva così, in cucina, dove Arturo stava tirando fuori i recipienti vuoti dalla borsa che si portava con sé sul lavoro: il portavivande, il termos, e li posava sull'acquaio. Aveva già acceso il fornello e aveva messo su il caffè. Appena lui la guardava, a Elide veniva da passarsi una mano sui capelli, da spalancare a forza gli occhi, come se ogni volta si vergognasse un po' di questa prima immagine che il marito aveva di lei entrando in casa, sempre così in disordine, con la faccia mezz’addormentata. Quando due hanno dormito insieme è un’altra cosa, ci si ritrova al mattino a riaffiorare entrambi dallo stesso sonno, si è pari. Alle volte invece era lui che entrava in camera a destarla, con la tazzina del caffè, un minuto prima che la sveglia suonasse; allora tutto era più naturale, la smorfia per uscire dal sonno prendeva una specie di dolcezza pigra, le braccia che s’alzavano per stirarsi, nude, finivano per cingere il collo di lui. S’abbracciavano. Arturo aveva indosso il giaccone impermeabile; a sentirselo vicino lei capiva il tempo che faceva: se pioveva o faceva nebbia o c’era neve, a secondo di com’era umido e freddo. Ma gli diceva lo stesso: – Che tempo fa? – e lui attaccava il suo solito brontolamento mezzo ironico, passando in rassegna gli inconvenienti che gli erano occorsi, cominciando dalla fine: il percorso in bici, il tempo trovato uscendo di fabbrica, diverso da quello di quando c’era entrato la sera prima, e le grane sul lavoro, le voci che correvano nel reparto, e così via. A quell’ora, la casa era sempre poco scaldata, ma Elide s’era tutta spogliata, un po’ rabbrividendo, e si lavava, nello stanzino da bagno. Dietro veniva lui, più con calma, si spogliava e si lavava anche lui, lentamente, si toglieva di dosso la polvere e l’unto dell’officina. Così stando tutti e due intorno allo stesso lavabo, mezzo nudi, un po’ intirizziti, ogni tanto dandosi delle spinte, togliendosi di mano il sapone, il dentifricio, e continuando a dire le cose che avevano da dirsi, veniva il momento della confidenza, e alle volte, magari aiutandosi a vicenda a strofinarsi la schiena, s’insinuava una carezza, e si trovavano abbracciati. Ma tutt’a un tratto Elide: – Dio! Che ora è già! – e correva a infilarsi il reggicalze, la gonna, tutto in fretta, in piedi, e con la spazzola già andava su e giù per i capelli, e sporgeva il viso allo specchio del comò, con le mollette strette tra le labbra. Arturo le veniva dietro, aveva acceso una sigaretta, e la guardava stando in piedi, fumando, e ogni volta pareva un po' impacciato, di dover stare lì senza poter fare nulla. Elide era pronta, infilava il cappotto nel corridoio, si davano un bacio, apriva la porta e già la si sentiva correre giù per le scale. Arturo restava solo. Seguiva il rumore dei tacchi di Elide giù per i gradini, e quando non la sentiva più continuava a seguirla col pensiero, quel trotterellare veloce per il cortile, il portone, il marciapiede, fino alla fermata del tram. Il tram lo sentiva bene, invece: stridere, fermarsi, e lo sbattere della pedana a ogni persona che saliva. “Ecco, l’ha preso”, pensava, e vedeva sua moglie aggrappata in mezzo alla folla d’operai e operaie sull’”undici”, che la portava in fabbrica come tutti i giorni. Spegneva la cicca, chiudeva gli sportelli alla finestra, faceva buio, entrava in letto. Il letto era come l’aveva lasciato Elide alzandosi, ma dalla parte sua, di Arturo, era quasi intatto, come fosse stato rifatto allora. Lui si coricava dalla propria parte, per bene, ma dopo allungava una gamba in là, dov’era rimasto il calore di sua moglie, poi ci allungava anche l’altra gamba, e così a poco a poco si spostava tutto dalla parte di Elide, in quella nicchia di tepore che conservava ancora la forma del corpo di lei, e affondava il viso nel suo guanciale, nel suo profumo, e s’addormentava. Quando Elide tornava, alla sera, Arturo già da un po’ girava per le stanze: aveva acceso la stufa, messo qualcosa a cuocere. Certi lavori li faceva lui, in quelle ore prima di cena, come rifare il letto, spazzare un po’, anche mettere a bagno la roba da lavare. Elide poi trovava tutto malfatto, ma lui a dir la verità non ci metteva nessun impegno in più: quello che lui faceva era solo una specie di rituale per aspettare lei, quasi un venirle incontro pur restando tra le pareti di casa, mentre fuori s’accendevano le luci e lei passava per le botteghe in mezzo a quell’animazione fuori tempo dei quartieri dove ci sono tante donne che fanno la spesa alla sera. Alla fine sentiva il passo per la scala, tutto diverso da quello della mattina, adesso appesantito, perché Elide saliva stanca dalla giornata di lavoro e carica della spesa. Arturo usciva sul pianerottolo, le prendeva di mano la sporta, entravano parlando. Lei si buttava su una sedia in cucina, senza togliersi il cappotto, intanto che lui levava la roba dalla sporta. Poi: – Su, diamoci un addrizzo, – lei diceva, e s’alzava, si toglieva il cappotto, si metteva in veste da casa. Cominciavano a preparare da mangiare: cena per tutt’e due, poi la merenda che si portava lui in fabbrica per l’intervallo dell’una di notte, la colazione che doveva portarsi in fabbrica lei l’indomani, e quella da lasciare pronta per quando lui l’indomani si sarebbe svegliato. Lei un po’ sfaccendava un po’ si sedeva sulla seggiola di paglia e diceva a lui cosa doveva fare. Lui invece era l’ora in cui era riposato, si dava attorno, anzi voleva far tutto lui, ma sempre un po’ distratto, con la testa già ad altro. In quei momenti lì, alle volte arrivavano sul punto di urtarsi, di dirsi qualche parola brutta, perché lei lo avrebbe voluto più attento a quello che faceva, che ci mettesse più impegno, oppure che fosse più attaccato a lei, le stesse più vicino, le desse più consolazione. Invece lui, dopo il primo entusiasmo perché lei era tornata, stava già con la testa fuori di casa, fissato nel pensiero di far presto perché doveva andare. Apparecchiata tavola, messa tutta la roba pronta a portata di mano per non doversi più alzare, allora c’era il momento dello struggimento che li pigliava tutti e due d'avere così poco tempo per stare insieme, e quasi non riuscivano a portarsi il cucchiaio alla bocca, dalla voglia che avevano di star lì a tenersi per mano. Ma non era ancora passato tutto il caffè e già lui era dietro la bicicletta a vedere se ogni cosa era in ordine. S’abbracciavano. Arturo sembrava che solo allora capisse com’era morbida e tiepida la sua sposa. Ma si caricava sulla spalla la canna della bici e scendeva attento le scale. Elide lavava i piatti, riguardava la casa da cima a fondo, le cose che aveva fatto il marito, scuotendo il capo. Ora lui correva le strade buie, tra i radi fanali, forse era già dopo il gasometro. Elide andava a letto, spegneva la luce. Dalla propria parte, coricata, strisciava un piede verso il posto di suo marito, per cercare il calore di lui, ma ogni volta s’accorgeva che dove dormiva lei era più caldo, segno che anche Arturo aveva dormito lì, e ne provava una grande tenerezza.
Pubblicato da Giovanni Carpinelli
ITALO CALVINO PAROLIERE
Calvino paroliere
La condizione sociale dei personaggi nell'opera narrativa di Italo Calvino merita un esame più attento. Colpisce la scarsa presenza degli operai. Marcovaldo è un impiegato e un operaio al tempo stesso, una figura intermedia, essendo di fatto magazziniere. Non ci sono operai nella trilogia dei Nostri antenati. Medardo di Terralba, Cosimo Piovasco di Rondò e Agilulfo vivono in epoche lontane, in un mondo che non è stato ancora toccato dalla Rivoluzione industriale. Agilulfo, il cavaliere inesistente, è addirittura uno tra i paladini che si trovano alla corte di Carlomagno. Medardo di Terralba, il visconte dimezzato, aveva per compagno un medico inglese che aveva esercitato la sua professione sulle navi del capitano Cook; questo permette di collocare la vicenda narrata intorno agli anni 1770. Cosimo Piovasco di Rondò, il barone rampante, è già in movimento al tempo di Voltaire e dell'Enciclopedia, ma fa in tempo a conoscere la Rivoluzione e l'Impero, parla con Napoleone in persona, incrocia il principe Andrej di Guerra e pace e da ultimo sperimenta l'avvio della Restaurazione. Se poi andiamo a vedere i racconti inclusi in Ultimo viene il corvo troviamo personaggi in genere molto pittoreschi, tutti collocabili in una posizione sociale lontana dall'universo del capitale e del lavoro salariato in una fabbrica o manifattura che sia. Ci sono un giardiniere, dei ragazzi ancora adolescenti, due bambini,
due o tre coltivatori diretti, dei lavoranti, dei contadini poveri, un pastore, dei proprietari terrieri un po' agiati, un apicultore, degli studenti, diversi partigiani, dei trasportatori dotati di un animale, bue in un caso, mulo nell'altro, degli animali tra i quali particolare rilievo assume in un certo racconto un gatto, dei trafficanti in dollari, delle prostitute, il cavalier servente di una vedova, un fante, un giudice, un poliziotto, un finanziere, un giornalista, un deputato, un generale, un contrabbandiere e un pescivendolo (più esattamente uno che vende frutti di mare).
Sorpresa una coppia di operai che lavorano in fabbrica 1958
Canzone triste
Erano sposi. Lei s'alzava all'alba
prendeva il tram, correva al suo lavoro.
Lui aveva il turno che finisce all'alba
entrava in letto e lei n'era già fuori.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
Dopo il lavoro lei faceva spesa
- buio era già - le scale risaliva.
Lui in cucina con la stufa accesa,
fanno da cena e poi già lui partiva.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
Mattina e sera i tram degli operai
portano gente dagli sguardi tetri;
fissar la nebbia non si stancan mai
cercando invano il sol, fuori dai vetri.
Soltanto un bacio in fretta posso darti
bere un caffè tenendoti per mano.
Il tuo cappotto è umido di nebbia.
Il nostro letto serba il tuo tepor.
LE RADICI PROFONDE DEL REGIME FASCISTA
"Mi colpisce questa foto di oggi, perché contiene due errori evidenti e una notevole semplificazione di un grosso problema storico.
Cominciamo dagli errori, uno grossolano - manca un apostrofo - che possiamo perdonare, e l'altro più insidioso, perché accoglie un classico depistaggio revisionista che a quanto pare ha avuto molta fortuna. Matteotti fu ucciso perché aveva denunciato in parlamento le violenze esercitate dai fascisti durante le elezioni e ne aveva chiesto l'invalidazione in blocco. Per negare l'evidenza si sono messi in molti a ipotizzare le "vere" ragioni dell'assassinio, inventando piste improbabili e improbabili "rivelazioni" di scandali e ruberie che avrebbero coinvolto ambienti particolari del fascismo e Casa Savoia. Il tutto per allontanare da Mussolini la responsabilità del delitto, il Duce che sarebbe stato "danneggiato" dal cadavere di Matteotti, "gettatogli tra i piedi" come sostenuto da notissimi storici.
Ma è inutile negare che la questione più spinosa riguarda la frase famosa che a Matteotti viene abitualmente attribuita anche da chi non ne ha mai letto un rigo. Era giustissimo affermare negli anni dell'ascesa squadrista - che Matteotti fu quasi l'unico a percepire nella sua gravità - che il fascismo fosse essenzialmente un fenomeno criminale. Dopo la morte di Matteotti il fascismo però diviene regime, impone un totalitarismo, imperfetto quanto si vuole, ma pervadente e duraturo, che forma le coscienze di molti giovani e di una parte larghissima della popolazione.
Alla data del gennaio 1943 più di metà della popolazione italiana era iscritta a organizzazioni a vario titolo riconducibili al PNF. Raffigurare dopo la Liberazione il fascismo come tirannide esercitata da pochi violenti contro un popolo "naturalmente" antifascista è un autoinganno esercitato nel difficile processo di metabolizzazione dell'eredità fascista.
Gli storici nel frattempo hanno largamente documentato tanto la violenza fascista, in Italia e all'estero, quanto le forme di costruzione di un regime reazionario di massa che conseguì risultati non trascurabili di organizzazione del consenso, anche popolare. Nulla da stupire che il fascismo fosse diventato anche "opinione" per molti, operante sottotraccia anche nella realtà repubblicana nella quale rimase pur sempre fenomeno molto minoritario. Da questa consapevolezza bisognerebbe partire anche per definire i contorni del nuovo richiamo al fascismo che sembra profilarsi, senza indulgere nelle banalità giornalistiche care all'establishment come "populismo" e "sovranismo". E senza dimenticare che accanto a una tradizione antifascista retorica e moralistica c'è stata anche una tradizione che ha posto lo studio e l'analisi del fascismo al centro della sua attività, in maniera inscindibile dalla lotta politica contro il fascismo stesso. Anche questo manca, drammaticamente, oggi. Senza capire i motivi, non banali, del richiamo che il fascismo oggi può esercitare è impossibile combatterlo, a meno di volersi limitare, come spesso accade, a invocare una scorciatoia giudiziaria, che potrà anche rivelarsi controproducente rispetto al ribellismo che serpeggia in Italia e in Europa contro gli assetti del potere costituito".
GIANPASQUALE SANTOMASSIMO
23 febbraio 2025
"LIBERA NOS A MALO"
"Libera nos a Malo" è molto più di un semplice racconto autobiografico: è un viaggio intimo e insieme corale dentro la memoria, un caleidoscopio di ricordi che restituisce la vita di una comunità veneta a cavallo tra gli anni Trenta e Sessanta. Meneghello realizza un'opera unica nel panorama letterario italiano, dove l'autobiografia si fonde con l'analisi sociologica e la riflessione filosofica in una prosa che è essa stessa poesia.
Al centro del racconto c'è Malo, piccolo paese veneto che diventa metafora di un'Italia in profonda trasformazione. Meneghello osserva con uno sguardo insieme tenero e disincantato il mondo della sua infanzia: il fascismo, la famiglia, la religione cattolica. Particolarmente efficace è la sua capacità di restituire la prospettiva del bambino, con i suoi ragionamenti "assurdi" che l'adulto rievoca con ironia intelligente, senza mai cadere nel sentimentalismo.
L'ironia è, del resto, l'elemento stilistico dominante. Sin dal titolo, che gioca magistralmente tra l'invocazione evangelica e il nome del paese, Meneghello usa la lingua come strumento di osservazione e dissacrazione. Il dialetto veneto si intreccia con l'italiano, creando un linguaggio originale che cattura l'essenza di un mondo destinato a scomparire.
Non è un libro nostalgico, tuttavia. Meneghello non rimpiange un passato idealizzato, ma lo osserva con lucidità, mettendo a confronto due epoche,quella della sua infanzia e il boom economico degli anni Sessanta, per riflettere sui cambiamenti antropologici della società italiana. La felicità, i valori, i modi di pensare vengono analizzati con uno sguardo insieme critico e compassionevole.
Un libro che diventa un affresco universale, un prezioso documento antropologico e insieme un'opera letteraria di straordinaria originalità.
Luigi Meneghello, nato a Malo nel 1922 e scomparso a Thiene nel 2007, è uno degli scrittori più influenti della letteratura italiana ed europea contemporanea. Le sue opere, tra cui “Libera nos a malo", “I piccoli maestri" e “Il Dispatrio", narrano l'educazione culturale e scolastica, l'esperienza partigiana durante la Resistenza, e il suo trasferimento in Inghilterra nel 1947. Insegnante nel mondo accademico inglese dal 1948 al 1980, Meneghello ha esplorato le potenzialità della lingua e della scrittura.
Nonostante il tardivo riconoscimento in Italia, ha vinto numerosi premi letterari, tra cui il Bagutta e il Premio Strega, e ottenuto lauree ad honorem da prestigiose università. Le sue opere sono tradotte in diverse lingue europee e hanno ispirato adattamenti teatrali e cinematografici.
Meneghello è inserito nei programmi scolastici ministeriali per la narrativa del Novecento, confermando il suo impatto duraturo nella cultura letteraria.
ALTRE FOTO, TESTIMONIANZE E DOCUMENTI DI COMUNISTI SICILIANI DEL SECOLO SCORSO 1 e 2
RICORDI COMUNISTI DI MARINEO (PA)
Ogni tanto ricordo le battaglie combattute nel mio paese natale dagli anni settanta agli anni novanta del secolo scorso. Oggi le cose sono talmente cambiate che sembra di parlare di fatti avvenuti in un'altra epoca. Per quelle battaglie, dove rischiai tanto, trassi energia dall'indimenticabile collaborazione col Centro Studi e Iniziative di DANILO DOLCI. Nel Blog che si richiama a quella fondamentale esperienza potete trovare tanti documenti e spunti per scriverne la storia. E' certo che DANILO ha lasciato il segno dentro di me e che devo tanto a lui. (fv)
COMUNISTI IN SICILIA NEL SECOLO SCORSO
COMUNISTI IN SICILIA NEL SECOLO SCORSO.
STORIE REALMENTE ACCADUTE CHE NON TROVERETE IN ALCUN LIBRO
«Disgraziatamente per noi la storia si è sempre scritta dai dotti pei dotti, e si è sempre occupata di grandi imprese più o meno vere, senza dir mai nulla di quel che faceva, di quel che pensava, di quel che credeva la grande massa del popolo.» Queste parole non sono state scritte da un rivoluzionario, ma da un medico palermitano della seconda metà dell’800 piuttosto conservatore. Questo medico si chiamava Giuseppe Pitrè . Il rapporto quotidiano che aveva con la povera gente della sua città lo spinse , fin da giovane, a raccogliere una mole enorme di documentazione sulla vita di quello che allora si chiamava “popolino”: canti, fiabe, proverbi, usi e costumi, ecc. ecc. – Diede vita così, oltre ai numerosi volumi che costituiscono quella che lui stesso denominò “Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane”, al Museo che oggi a Palermo porta il suo nome.
Le parole del Pitrè diventano ancora più vere se si affiancano a quelle scritte, decenni prima, da un autentico rivoluzionario:«Le idee dominanti, in ogni epoca , non sono altro che le idee delle classi dominanti.» (K.Marx)
Le parole non è vero che non contano. Le parole, specialmente quando rivelano la verità dei fatti, sono importanti. Per questa ragione tanti anni fa, avevo cominciato a raccogliere le testimonianze dei vecchi contadini marinesi, ultimi testimoni di un mondo che oggi non esiste più, e di cui trovavo poche tracce persino nei libri di storia studiati all’Università.
Ma per la verità, ad aprirmi per primo gli occhi sulle menzogne che si trovano nei libri, non sono stati nè Marx né Pitrè, ma bensì il mio nonno materno, Francesco Arnone, con cui condividevo la casa del Corso dei Mille in cui sono nato e cresciuto.
Ricordo ancora che un giorno, trovandomi a leggere nella sua stanza la storia della prima guerra mondiale, mi invitò a leggere ad alta voce quello che c'era scritto nel mio sussidiario di quinta elementare del 1960. Dopo qualche riga in cui, in modo retorico, si raccontava la cosiddetta "IV Guerra d'Indipendenza", mio nonno mi fermò dicendomi: nel tuo libro si trovano solo menzogne, in nessun fronte di guerra si è mai visto un Enrico Toti! Adesso te la racconto io la vera storia del macello che è stata la guerra del 15/18 perchè io l'ho fatta quella guerra e ho visto coi miei occhi quello che ti racconto..
Da allora non mi sono più fidato ciecamente dei libri. Anche per questo ne ho letti ed accumulati tanti: di ogni fatto, di ogni autore, infatti, ho cercato sempre di sapere il più possibile , ascoltando tutte le voci e tutte le campane. Non fermandomi mai nella ricerca della verità.
Oltre ai libri, poi, mi è sempre piaciuto ascoltare le testimonianze di vita delle persone anziane. Per tutte queste ragioni una decina di anni fa ho cominciato a raccogliere, insieme ad un amico, alcune di queste testimonianze.
Oggi mi è tornata in mente una storia che di seguito riprendo, dopo aver verificato che si tratta di una storia realmente accaduta. Protagonisti l'Arciprete Raineri, il compagno Ciro Bivona e la madre di un bambino da battezzare
Naturalmente è talmente complessa la vita e la storia di ogni uomo che sarebbe stupido pensare di inchiodarla ad un atto sia pur significativo o a un dato di fatto. Peraltro i giovani d'oggi per comprendere bene l'operato di un Parroco nell'ultimo dopoguerra devono tenere presente il contesto storico in cui la Chiesa del tempo si trovò ad operare.
Ora, anche se sono trascorsi poco più di mezzo secolo da quanto accaduto, la realtà odierna non ha nulla a che vedere con quella di 50 anni fa. Anche per questo non è affatto semplice comprendere le trasformazioni profonde avvenute. Allora il mondo era diviso in due blocchi, dominati rispettivamente dagli USA e dall'URSS. L'Italia apparteneva al mondo dominato dagli USA ma in Italia operava anche il più grande e forte partito comunista dell'Occidente. La propaganda degli uni e degli altri rappresentava la realtà in modo deformato: ciò che per gli uni era inferno, per gli altri era paradiso. Era il tempo delle scomuniche e delle invettive reciproche. La Chiesa siciliana era dominata dalla figura del Cardinale Ruffini, di cui ci ha lasciato un ritratto indimenticabile Leonardo Sciascia. Il Cardinale Ruffini, a cui l’arciprete marinese era molto legato, in Sicilia allora contava più del Presidente della Regione. E così come era il Cardinale a Palermo a fare la lista del partito democristiano, a Marineo era Mons. Raineri a fare la lista dello scudo crociato per il Consiglio Comunale. (fv)
QUANDO I COMUNISTI NON POTEVANO BATTEZZARE I BAMBINI
La storia si svolge nel periodo in cui (1945-1955) i braccianti e i contadini poveri in Italia, e soprattutto in Sicilia e nel Meridione, occupano i feudi e le terre incolte, portando in corteo insieme la bandiera rossa e un immagine del Santo Patrono del paese. La Chiesa Cattolica di quegli anni considerava i “socialcomunisti” (uniti allora nel FRONTE POPOLARE che verrà sconfitto nel 1948) molto più pericolosi dei mafiosi. Anche per questo vennero “scomunicati” dal Papa del tempo (PIO XII) e dal Cardinale Ruffini che regnava in Sicilia e che contava più del Presidente della Regione.
Ho raccolto un giorno la testimonianza di uno di questi contadini, Ciro Bivona, che a Marineo tutti conoscevano e rispettavano, soprannominato, per il suo impegno politico, CIRU BATTAGGHIA . Ciro era stato invitato a fare da padrino ad un neonato da battezzare. I genitori del bambino vennero convocati nella sacrestia della Chiesa dall’Arciprete Raineri il giorno prima del battesimo con l’invito pressante a cercare un altro padrino perché, disse loro, non poteva permettere ad un comunista “scomunicato” come Ciro Bivona di battezzare il loro figliolo. A questo punto la madre del bambino reagì con molta energia all'invito del Parroco e, con parole colorite, rispose così: “ Si Vossia dumani nun fa battiari me figghiu a Ciru Bivona, io stessa davanti la Chiesa ci scippu li cugghiuna!”
Soltanto grazie a queste parole Ciru Battagghia, il comunista scomunicato, riuscì a battezzare quel bambino.
A futura memoria, se la memoria ha un futuro. (fv)
PS: Pubblico di seguito la testimonianza inviatami da un caro amico di Delia (CL), il paese del grande critico letterario Luigi Russo e del poeta Stefano Vilardo, che serve a mostrare come quanto accaduto a Marineo non costituisca un’ eccezione o un fatto isolato:
Caro Francesco, ricordavo che nel libro di Stefano Vilardo, Una sorte di violenza ci fosse un episodio che avesse a che fare con l'argomento, ma si parla di scontri senza andare nello specifico. Queste notizie riferite a episodi realmente accaduti nelle chiese e nelle processioni le ho apprese da fonti testimoniali da anziani e compagni in sezione la sera quando discutevamo degli anni passati. Era il 1967 e molti testimoni di allora erano in piena attività, all'incirca con età dai 50 anni ai 60 circa. In effetti i compagni comunisti e molti dirigenti e donne e minatori contadini e braccianti erano stufi di una chiesa asservita alla dc di allora che difendeva gli agrari e in combutta con elementi mafiosi ( ma non era tutta la dc, vi erano anche coltivatori onesti e lavoratori di orientamento cattolico etc). Si recarono in chiesa in massa per contestare le prediche propaganda a favore della dc. Quando il prete o arciprete che fosse si mise a inveire contro i comunisti lanciando scomuniche e minacciando di non battezzare i figli di coloro che si professavano e avevano la tessera del pci, molti dei presenti chiaramente organizzati, si misero a protestare che la chiesa non dovesse intervenire nella politica, ma dovesse badare alle anime e alle messe. Si scatenò una gazzarra grida urla e spintoni fino a che uscirono fuori e si interruppe la funzione religiosa. Un altro fatto accadde durante la processione del Corpus Domini. Anche qui erano presenti in prima fila dirigenti dc e tutto l'apparato dando alla processione un tono di propaganda con preghiere innalzate contro il comunismo etc. Allora molti compagni e donne e dirigenti de pci presenti alla processione si sono inseriti con le bandiere rosse, ma i carabinieri presenti li hanno fatti allontanare senza denunziare nessuno. Invece per i fatti accaduti in chiesa l'Arciprete denunziò ai carabinieri tutti i dirigenti comunisti presenti in chiesa con testimonianze, guarda caso, tutte di dirigenti dc. Ps- ho copia della denunzia dell'arciprete di allora con i nomi e cognomi delle persone accusate.
Ciao , Angelo Pitruzzella.
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