09 febbraio 2025

UN FILM DA VEDERE: "Io sono ancora quì"

UN FILM DA VEDERE: IO SONO ANCORA QUI È UN'OPERA PREZIOSA. DOVE IL SORRISO DIVENTA UN GRANDE GESTO POLITICO CONTRO LA FEROCIA giovedì 30 gennaio 2025 Giovanni Bogani I desaparecidos, sì. Vecchia storia, ti viene da dire. Li abbiamo già conosciuti, al cinema, con Garage Olimpo di Marco Bechis, film straordinario, feroce e asciutto. Perché dovremmo tornare a occuparcene? Sappiamo che cosa è successo, immaginiamo il dolore che possa aver causato. Da qualche parte, lontano. In America latina, mica qui da noi. E invece, doppio sbaglio. Perché Io sono ancora qui ti fa stare attaccato agli occhi di Fernanda Torres, ti fa stringere in un abbraccio il suo dolore composto, mai esibito, per tutti i minuti del film. E perché Io sono ancora qui parla di un mondo lontano che è maledettamente vicino al nostro. Poteva esser capitato a noi. Siamo in Brasile, nel 1970. Per noi, il Brasile del 1970 è quello di Pelé. E con lui, la nazionale verdeoro più forte di tutti i tempi: Rivelino, Jairzinho, Tostao, Clodoaldo. Il Brasile del 1970 è l’Everest della civiltà, per chi ama il calcio. E anche per i brasiliani, economicamente, era la “epoca boa”, quella del boom. Non riesci facilmente a pensare che potessero esserci prigioni, grida sorde di torturati dietro le porte chiuse, persone portate via da casa e fatte scomparire in un buco nero della Storia. Non riesci a pensare che il Brasile fosse un mattatoio come, pochi anni più tardi, il Cile di Pinochet, e poco dopo l’Argentina del generale Videla. Altri corridoi, altre torture, altri desaparecidos. E, nell’Argentina del ’78, altri campioni di calcio, Passarella e Kempes, ad alzare la coppa del mondo, a fare miracoli con la palla fra i piedi, mentre a pochi metri di distanza altri giovani come loro morivano. Su quest’altra pagina, meno conosciuta forse, quella delle violenze del regime brasiliano, delle repressioni, dei desaparecidos di Rio de Janeiro, Walter Salles fa un film prezioso, non solo e non tanto per l’assunto storico/politico, ma per la vita che ci sta dentro, per l’attenzione che pone a ricostruire il mondo che racconta. E per come, senza far alzare mai la voce ai suoi protagonisti, sa incidere quel dramma nella nostra pelle di spettatori. Fernanda Torres, madre e matriarca di una famiglia a cui viene strappato il padre, non alza mai la voce, non si fa mai vedere mentre piange, non cede mai alla disperazione. Un’interpretazione da brividi, ripensandoci non capisci come non abbia vinto la Coppa Volpi a Venezia, lo scorso settembre. Agli Oscar sarà ancora più dura (anche se ha già vinto il Golden Globe): ma lo meriterebbe. Intorno, un Brasile che Walter Salles costruisce in modo che sembra quasi di sentirne i sapori, gli odori, la temperatura dell’aria. Le spiagge di Rio luminose davanti al Pan de Azucar, cagnolini che corrono e ragazze che si versano la Coca cola sulle gambe, per abbronzarsi. La casa borghese spaziosa – nell’avenida Delfim Moreira, nella Rio de Janeiro più residenziale – casa piena di libri, dove le figlie entrano a piedi scalzi, e la figlia maggiore è un po’ hippie alla europea, pazza per il cinema e la musica. Una realtà mangiata a morsi con una cinepresa super8, la figlia maggiore Veroca ha la passione di filmare. E noi spettatori vediamo i suoi home movies, con la grana giusta della pellicola, i colori smerigliati, da caleidoscopio, che avevano quelle riprese. Walter Salles sa bene che, di quegli anni ’70, oggi abbiamo soltanto qualche fotografia e qualche home video, oltre ai grigi telegiornali di Stato. E mescola bene le sue carte, ci fa entrare – insieme al direttore della fotografia Adrian Tejido – davvero in quel mondo. È una fotografia luminosa, un mondo che vien quasi da toccarlo. E quei rapidi tocchi che annunciano il buio: un elicottero che passa troppo basso sulla spiaggia, i camion dei soldati che passano vicino alle case. E i ragazzi fermati, mentre vanno in macchina, un posto di blocco in un tunnel. La brutalità dei militari, le armi che appaiono. Lo spavento dei ragazzi. Non ha nessuna fretta di fare accadere l’Inevitabile, però, Salles. Non ha fretta di fare bussare qualcuno alla porta, i militari in borghese, per dire al padre che deve seguirli. Perché il centro del film è nella forza, nella coesione, nella dignità della famiglia che il film racconta: non nella ferocia lugubre e burocratica degli aguzzini di Stato.

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