“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
17 febbraio 2025
DONNE PIPISTRELLO e UOMINI ANGUILLE
Donne pipistrello, uomini anguilla
di Lorenzo Barberis
Nel mare ci sono le anguille; nella notte i sonnambuli. Le due specie sono del tutto simili per quanto riguarda la difficoltà nell’acciuffarne i singoli individui. I sonnambuli e le anguille non si sa dove vadano a morire. Io mi ero svegliato molto presto, lei invece sembrava in piedi già da un po’. Stava appoggiata allo schienale imbottito del letto matrimoniale e mi guardava preoccupata.
«Stai meglio?».
«Buon compleanno, tesoro».
«Vuoi dell’acqua?».
«Non sarei dovuto tornare così tardi».
«Ho provato a fermarti, e a toglierti i pantaloni».
«Bastava chiedere».
«Te l’ho chiesto».
«Quando?».
«Te lo ha chiesto anche il tuo amico».
«Benno è sveglio?».
«Lo hai svegliato con il casino che hai fatto».
«Che casino?».
«Non ricordi nulla?».
«Niente».
«Zero?».
«Meno di».
«Sei tornato alle cinque e mi hai abbracciata».
«Eri calda…».
«Puzzavi».
«E poi?».
«Poi dopo un paio d’ore ti sei alzato e ti sei messo lì».
«Lì dove?».
«Davanti alla cassettiera».
«Cercavo qualcosa?».
«Mi hai fissata come un gatto, ti sei abbassato i pantaloni e hai pisciato per terra».
«Come un gatto?».
«Per terra. E contro la cassettiera».
«I pantaloni…».
«Poi ti sei fermato e hai urlato è inutile che me lo chiedete, non ho il passaporto israeliano. Lasciatemi tornare a casa».
«Per terra?».
«Va tutto bene adesso. Vieni qui».
«Posso piangere?».
«Certo. E togliti i pantaloni».
Il sonno e la vita di coppia sono comportamenti tipici degli organismi destinati a una fine. Ogni individuo che muore deve aver dormito, o desiderato un corpo altrui, almeno una volta nella vita. Dormire molto e fare tanto amore fanno vivere meno. Io avevo fatto poco di entrambe le cose, quindi sentivo di avere abbastanza tempo per una vendetta, prima che tutto fosse concluso. Quando smisi di piangere andai in salotto da Benno. Lo trovai che richiudeva il divano-letto con un calcio potente. Gli dissi che dovevamo trovare il responsabile di quel gesto vergognoso.
«Quale gesto vergognoso?».
«Ho pisciato sulla cassettiera di Jennifer. Ho rovinato il suo trentesimo compleanno».
«Sai già dove cercare?».
«Seguimi».
Jennifer era sotto la doccia da troppo tempo. Intuivo la sua disposizione a pagare una bolletta esorbitante, pur di non dovermi ancora guardare in faccia quella mattina. Io ne approfittai per mostrare a Benno il nascondiglio dell’infame. Su quella stessa cassettiera era posata la confezione di latta di un panettone. Aveva un rivestimento dorato e un disegno di maioliche con la scritta in Parisine. Appena trasferito nel suo appartamento, un anno prima, le avevo subito chiesto dove avrei potuto mettere l’action figure del mio personaggio preferito di One Piece. Sanji Gambanera.
«Dove lo metto Sanji?»
«Per ora appoggialo vicino allo scrigno. Poi vedremo».
«Intendi dalla scatola del panettone?».
«Dallo scrigno» aveva concluso Jennifer.
Una volta che era uscita a prendere i porri per il minestrone io avevo aperto lo scrigno. Avevo scoperto tutto. C’era stato un momento, all’inizio della nostra relazione, in cui era estate e ci sdraiavamo di notte a Parco Sempione per confidarci le avventure del passato. Aveva ventun anni e lavorava in un fast food a tema tirolese o americano. Un collega tedesco le aveva insegnato a schiacciare gli smash burger e a montare la panna dei milkshake. Sognava di lavorare per le Nazioni Unite, di vivere in Medioriente. Avevano scopato un paio di volte a casa di lui, e almeno una volta nel fast food a tema tirolese o americano, poi lui si è laureato, ha coronato il suo sogno di vivere sulla Striscia di Gaza, e infine hanno scopato ancora una volta per salutarsi. Mi piaceva quella concausalità di eventi, perché mi sembrava che Jennifer non fosse libera di scegliere. Mente gli annaffiatoi automatici del parco le inumidivano la maglietta, io avevo occhi altrettanto acquosi che lei guardava dicendo che era contenta, contenta di non dover più tornare a quelle cose insensate e prive d’amore.
«È questo?»
«Proprio lui»
Benno aveva in una mano la sua lunga barba, e nell’altra una lettera datata nove anni prima che faceva così:
Caro Jacob,
sospetto che Dio abbia impiegato il doppio del tempo nel creare l’universo, perché almeno una settimana deve averla dedicata a te, alle tue nocche come nodi marinari, al tuo sorriso di quercia. Di certo per lo zelo che lo ha travolto nella tua creazione ha inaugurato, per sbaglio, anche le metafore: tutte le cose riportano a te, si collegano a te!
Il vento è come i talloni di Jacob quando corre verso di me, il fuoco è come il suo ventre quando mi abbraccia, la notte è come il mondo quando non è vicino a me. Ho conosciuto persone straordinarie che non hanno paragoni. Tu li hai tutti.
Mi basterebbe fissare nella mente ogni centimetro – già così familiare – della tua pelle per dire di aver visto tutto il mondo. E quindi cosa dovrò guardare ora che te ne vai?
Probabilmente, come una donna-pipistrello, dovrò dondolarmi in un mondo al contrario, con gli occhi appannati dalla distanza. Mi orienterò nello spazio con queste urla di aiuto che ti lancerò nel vuoto: torna da me, torna da me, torna da me!
Amore mio!
Tua – per sempre -J.
«Donna pipistrello»
«Sorriso di quercia»
«Smash burger, milkshake!»
«Senza senso, prive d’amore!»
«Crucco!»
Uscendo dal bagno, Jennifer ci aveva sorpresi davanti alla cassettiera. Benno ed io stavamo entrambi in canottiera, con i calzini tirati su fino al ginocchio. Cercavo di esibirle con orgoglio i miei pantaloncini puliti. Lei sorrideva immobile, chiusa nell’accappatoio, e indicando due vestiti quasi identici gettati sul letto ci domandava quale avrebbe dovuto mettere per la festa.
Benno aveva muggito verso quello un po’ più nero.
«Tu si che hai gusto, Benno! Sappi che qui c’è sempre un divano per te, quando vuoi venirci a trovare».
Poi la festa del suo compleanno è finita, gli invitati sono tornati a casa, anche Benno è tornato a casa, un uomo grosso dentro una Smart piccola, e Jennifer mi ha lasciato. Sul divano ci sono finito io. C’era una strana sincronia nel modo in cui, senza dirci una parola, riuscivamo a organizzare le uscite a serate alterne. Quando lei faceva tardi, io fingevo di dormire beatamente. Quando tornavo a notte fonda la sentivo russare in camera. Russava in una lingua straniera. Sapevo di non svegliarla quando mi rifugiavo in bagno e piangevo seduto sul water. Il cuore di un sonnambulo è quel tribunale che emette verso di sé le proprie ordinanze restrittive. Di giorno cercavo un appartamento dove trasferirmi. Di notte cercavo di scovare Jacob. Dovevo fargliela pagare per avermi posseduto nel sonno. E per essere stato amato da Jennifer. Ma soprattutto per la questione della possessione. Una notte finalmente rintracciai il suo indirizzo e mi addormentai in pace.
Lo incontrai in un luogo che era tutto buio attorno. Immaginai che si trattasse di lui dal naso piatto e dai capelli color miele. Ebbi la spiacevole certezza guardandogli i talloni. Tu, rango inferiore d’amore. Spregevole tresca professionale. Avventura postprandiale e gradevole fine-turno. Esotico invasore di sogni altrui. Piscialetto per terzi. Vedendolo avevo tutte queste cose sulla punta della lingua, ma mi limitai a chiedergli spiegazioni. Forse tu non sai, così gli ho detto, che ho ereditato dei poteri. Mio padre ha sognato la morte di Papa Luciani due giorni prima che schiattasse davvero. Che lo ammazzassero, s’intende. Mia madre, da novella sonnambula, ha tirato una testata in faccia a mio padre la sera stessa che hanno condiviso il letto. Era un po’ nervosa perché si erano appena sposati. Il sonno nella mia famiglia è un luogo delicato come le interiora di un agnellino. Un nido di vespe. Quando mia nonna sognava serpenti, con precisione sibillina entrava dal macellaio e sorprendeva le signore del quartiere a parlare male di lei. Invece il mio caro nonno si alzava nel cuore della notte, e faceva un po’ ridere con quelle due mutande indossate una sopra l’altra, piangeva e urlava, totalmente fuori di sé, convinto di essere rinchiuso in un ospizio. Allora le infermiere lo rassicuravano e gli dicevano «stia tranquillo, signor Giuseppe, questa è casa sua!». Poi, la mattina, tornava in sé ed era sicuro di trovarsi in uno chalet di montagna. Le infermiere erano molto contente. Comunque mai, in nessun caso, ci siamo concessi di invadere sogni di altri dormienti, né abbiamo mai permesso che qualcuno interferisse con i nostri (se si escludono i morti). E poi arrivi tu, e ti prendi gioco del mio corpo. Parli con la mia voce. Mi hai chiesto il passaporto per passare i miei stessi sogni. L’ho capito, che c’eri tu lì dietro. Come quella volta che, pensando alla lettera, vi ho spiati dietro al bancone del fast-food. Perché sei stato presentato come una passione subordinata, se ti ritrovo in una lettera d’amore? Come ci sei finito? Tu non sai cosa abbiamo passato io e Jennifer. Non hai comprato tu il ficus, non hai accarezzato con lei i delfini rosa d’acqua dolce, non hai testato tu la ricetta della pita libanese, non hai costruito una simpatica scala a pioli che in realtà è un porta-piante da appoggiare al muro, non hai ascoltato un ensemble di percussionisti somali eseguire un’orrenda sinfonia tribale sulle sponde del Lago Maggiore alle quattro del mattino, tu non c’eri, perché tu eri retrocesso nella lega delle passioni fugaci, eri una creatura effimera, una scoria del passato che magari qualche volta mi ha fatto vibrare, mi ha dato un tremito, sì, come quando, dopo aver aperto la lettera, mentre Jennifer già saliva le scale con i porri sotto braccio, e il suono dei suoi passi mi dava il batticuore, io seduto sul divano spiavo te e Jennifer dietro al bancone di un fast-food, rimanevo lì vicino, e poi niente più, perché tu non c’eri, Jennifer nemmeno, ma io sì. Ti avverto: stai al tuo posto. E adesso me ne torno a casa.
«Non puoi tornare a casa».
«Ci torno eccome»
«Non si esce di qui»
«Dove mi trovo?»
«Qui è dove si retrocede nelle passione fugaci»
«Tu…»
«Qui è dove vanno a morire i sonnambuli»
«…anche tu?»
«Adesso sto fissando la misera libreria dell’area comune dentro al container-studio che condivido con altri due diplomatici francesi, sto per prendere un libro che leggerò aprendolo contrario, poi accarezzerò il cartellino del ONG che non abbandono mai, neanche quando indosso il pigiama, mentre recito la ricetta del mettigel che faceva la mia amata Oma».
«E io?»
«Tu ti sei alzato dal divano di Jennifer, hai un’erezione approssimativa, ti sei diretto verso la cucina, ma senza accendere la luce, e adesso stai per mettere una grossa lumaca di burro dentro un wok che non hai lavato molto bene prima di coricarti, ieri sera».
«Che posto è questo?».
«Spalanca bene le narici: non lo senti questo odore di uvetta e di canditi?».
La luce era accesa e Jennifer indossava il suo pigiama invernale color prugna. Era il contrario della Jennifer di prima; era Jennifer a testa in giù.
A giudicare dalla consistenza del burro, e dalla minuscola scia di bava bianca – appena visibile – lasciata sulla parete nera del wok, dovevo averlo appena gettato nella padella. Il fornello era ancora spento, perché è difettoso e mi da’ noie accenderlo anche quando sono sveglio. Mi dice che posso dormire nel letto, se voglio. Le dico che non ci torno in quel luogo di cose insensate e prive d’amore. Io non ci entro nello scrigno. Come le anguille, torno da dove sono venuto. Quando devono morire, i sonnambuli si dirigono tutti verso gli occhi spalancati di chi la ha sorpresi nel cuore della notte.
Pezzo ripreso da: https://www.nazioneindiana.com/2025/02/17/donne-pipistrello-uomini-anguilla/
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