“Odio gli indifferenti. Credo che vivere voglia dire essere partigiani. Chi vive veramente non può non essere cittadino e partigiano. L’indifferenza è abulia, è parassitismo, è vigliaccheria, non è vita. Perciò odio gli indifferenti.” Antonio Gramsci
13 febbraio 2025
LINGUE DELLA CLASSE MORTA E VIVA
PROVOCAZIONI DI MASSIMO PALMA
La verità non salva
Nel 2001, in La politica fuori dalla storia, Wendy Brown, prendendosela con le teorie della fine della storia e col paradigma vittimario che sempre più prendeva piede per parlare di giustizia, affermava che «il complesso problema politico del rapporto tra passato e presente, e di entrambi con il futuro, non è risolto né dai fatti né dalla verità»[i]. Brown attaccava in questa chiave la “storiografia egemonica delle metropoli” che ancora prendeva l’oggettività come una forma di salvezza storico-politica. Scrivere la storia degli oppressi, la storia della classe sfruttata – spiegava – vuol dire interagire con forme diverse da quelle fattuali –, significa maneggiare i fantasmi, e «imparare a vivere con questo carattere impadroneggiabile, non categorizzabile e irriducibile dell’influsso del passato sul presente»[ii].
Incrociando la propria analisi con quella allora recente di Derrida in Spettri di Marx, Brown si richiamava all’atteggiamento anti-empatico di Walter Benjamin nelle tesi Sul concetto di storia, alla necessità di rendere la classe un soggetto di conoscenza storica che non si balocchi con la finta oggettività del “com’è andata veramente”, ma consenta di mettere il passato di sconfitta e oppressione in connessione con un presente di azione. La classe oppressa può così andare verso una redenzione delle sue sconfitte, «una redenzione che sarebbe forclusa dagli attaccamenti convenzionalmente malinconici a queste perdite»[iii]. L’indicazione di Brown andava dunque verso un metodo di scrittura della storia e insieme di prassi politica che non si limiti all’identificazione malinconica con la sconfitta passata, fino all’elogio o alla pratica del sacrificio come esito testimoniale.
Critica degli interni
Di malinconia e sinistra trattano vari testi che negli anni hanno avuto una discreta fortuna ricostruttiva e “fotografica”, da Spartakus di Jesi (riesumato dagli archivi[iv]) a Malinconia di sinistra di Enzo Traverso[v], fino al più recente Melanconia di classe di Cynthia Cruz[vi]. Proprio il libro di Cruz è un banco di prova per chi si chieda come si parla da esclusi e da sfruttati. Melanconia di classe, che reca il sottotitolo-revenant di Manifesto per la working class, definisce la classe lavoratrice appunto come spettro, come «uno zombie che infesta il mondo»[vii]. A prescindere dalla problematicità e dagli echi di una definizione così evocativa, come parla lo spettro? In tutto il testo si mostra come chi non accetta il mondo neoliberale venga ridotto ai margini, a ricorrere all’autolesionismo o alle sostanze per guadagnare uno spazio interiore altro. Nel suggestivo caos di riferimenti disparati che Melanconia di classe accumula, ogni tassello restituisce l’impressione di un racconto in cui la melanconia non è solo il tratto definitorio dei tanti e tante protagoniste (da Ian Curtis a Clarice Lispector, da Mark Linkous a Amy Winehouse) che indagano i margini esterni della propria classe per smarrirsi in modo spesso suicidario, ma anche dello sguardo ricostruttivo che li convoca come esempi.
Ma c’è un punto che pare pregnante – nell’intorpidimento diffuso che pure genera l’uso della ‘malinconia’ per definire la voce della classe: la definizione degli spazi attraversabili. Osserva Cruz: «coloro che vivono all’interno della working class non hanno necessariamente accesso alla distanza di cui dispone la classe media, una distanza che permette di frapporre uno spazio tra sé e il mondo»[viii]. Invece «per i poveri e la working class, che non hanno accesso alle automobili né al capitale economico necessario per viaggiare, e che si ritrovano intrappolati in luoghi ristretti (piccoli appartamenti, prigioni, rifugi per senzatetto o altre istituzioni), quegli spazi selvaggi sono essenziali»[ix]. Gli spazi selvaggi sono zone o quartieri di una città che sembrano accogliere il pensiero nomade di chi vuole dimenticare sé e la sua vita, di chi vuole perdersi. Nel testo di Cruz questi luoghi sono ormai smarriti: sono riflessi e introiettati in un’interiorità scivolosa. La New York che pianifica la fine delle chances di evasione urbana dà il via a un’esperienza di isolamento «dietro la porta chiusa di uno spazio abitativo privato» in cui internet e la chimica sono l’ultima ratio.
Eppure ciò che da Cruz viene definito selvaggio – qui lo spazio urbano vivibile – era già perfettamente interno al dominio delle forme di vita capitalistiche, da questo era determinato nelle aree salve, nel suo carattere di bolla. Solo che adesso il dominante tiranneggia senza freni. Ma la nostalgia dei freni non è una risposta collettiva – è solo un riflesso sentimentale che regna nei nostri appartamenti, nelle nostre prigioni o rifugi. La narrazione di Cruz delinea l’esperienza di disgregazione di quel precariato strutturale al capitalismo cognitivo rimasto vulnerato dal trionfo senza appello del neoliberismo. Un precariato che si frantuma – racconta la propria sconfitta – in una miriade di narrazioni culturali, musicali, letterarie della propria messa al bando.
Dall’individuo nulla
In realtà Benjamin, il responsabile della formula perfetta della “malinconia di sinistra”, nel 1931 se la prendeva brutalmente contro Erich Kästner e i suoi versi, perché vi leggeva «il fatalismo di coloro che sono lontanissimi dal processo di produzione e il cui oscuro lavoro ai fianchi delle congiunture è paragonabile all’atteggiamento di un uomo che si affidi interamente agli imperscrutabili chiari di luna della propria digestione. Sicuramente il brontolio in questi versi ha più della flatulenza che della sovversione»[x].
Nella feroce lettura di Benjamin viene toccato, al netto della chiusa acida, un punto decisivo: la lingua che deve parlare la lotta di classe non può essere fatalista né ridursi all’espressione, per quanto sintomatica, di un vissuto individuale. Benjamin riprende la lirica di Brecht, naturalmente, come esempio di unione feconda tra consapevolezza e azione, come “coazione a decidere” – ma ha dietro di sé le pagine limpide di Storia e coscienza di classe, quando Lukács afferma che «l’individuo non potrà mai diventare misura di tutte le cose». E dove ribadisce che ogni tentativo di aprirsi un varco verso la libertà partendo dall’individuo «non può non fallire»[xi].
L’ultimo segno
Alla fine del suo libro Cruz trova il tempo di una domanda: «Abbiamo imparato a sopravvivere, a stento, negli spazi intermedi – tra i mondi, tra le morti – in un’attesa infinita. Non è possibile invece navigare insieme, con un atto di resistenza, contro un sistema che ci vorrebbe morti, o a malapena vivi?»[xii]. Come si resiste insieme, con quale lingua si parla? Forse la navigazione comune si dà se il commercio coi morti si ha da vivi che insieme ai morti crescono. Forse, come diceva Di Ruscio istruendo al “buon uso della repressione”, la soluzione è «scrivere poesie schifosissime senza speranza / quando non ci sarà più nessuna speranza inizieranno a funzionare» – e trovare le parole della disperazione collettiva nel momento in cui se ne scrive anche il godimento («la nostra gioia è l’ultimo segno»)[xiii]. Qui, al di qua di ogni malinconia per l’esilio dai processi di produzione, può radicarsi quell’esteriorità al racconto fatalista che fa parlare il soggetto working class come un’Antigone abitante del mondo di mezzo.
Delle indicazioni interessanti in questa chiave di lingua collettiva arrivano dall’ultimo libro di Nadia Agustoni, Avrei voluto da giovane solo vivere[xiv]. Dalla domanda che pone alla metà esatta del testo: «nelle lingue dei corpi chi parla?»[xv]. Che proprio dall’intrico di vivi e morti parte, ma che incrocia le generazioni per lasciarle parlare.
In un componimento della prima parte, Agustoni usa il noi, il plurale per raccontare «un sussurro / diventato una storia / di ascoltarsi». Indica che l’ascolto delle ombre che restano ai margini di chi lavora, per le quali – questo l’explicit – «[non ci sarà oblio]», questo ascolto si produce «vivi tra i vivi / con guanti di amianto / sfidiamo / le fornaci»[xvi].
Agustoni prosegue nella prosa successiva, paratassi metapoetica.
«La lotta di classe è pura. comincia dove i poveri e gli esclusi sono negli elenchi di chi li uccide. scrivo perché nessuno dica: consentirono. eravamo il silenzio nelle pietre, nei lapidari. lì dove la vita era cancellazione siamo cresciuti. siamo in ogni domanda.»[xvii].
Pulsione di crescita
Ad aggiungere purezza laddove c’è cancellazione è la crescita. Se Cynthia Cruz indaga la pulsione di morte nella scrittura e cinematografia working class, se «la malinconia porta […] all’incapacità di soffrire per il lutto: attraverso il transfert freudiano, l’oggetto d’amore perduto si manifesta allora come una ferita»[xviii], Agustoni descrive una zona, una residenza negli elenchi degli uccisi (i morti sul lavoro, i morti verso il lavoro) che non si sostituisca, che non replichi la cancellazione.
La crescita è costruzione nel silenzio, come reazione alla forza nichilista di chi cancella vite operaie e migranti:
ci hanno dato
la storia del nulla
la genealogia
delle lapidi
ma abbiamo costruito il mondo la vita […][xix].
Gli esclusi dal grande progetto non hanno «nessun segreto, nessuna paura, non provate a spiegarci. c’è una realtà non prevista dal dominio.»[xx]. Proprio la consapevolezza di una zona trasparente “non prevista dal dominio”, di una vita estranea al realismo capitalista che resiste, rende il libro di Agustoni, i suoi versi brevissimi e le prose nervose di clausole e chiose, un esempio performativo di quella purezza di classe in lotta. In un’altra prosa troviamo la formula ripetuta: «la lotta di classe è pura, sono i corpi che ricordano cos’erano prima del dolore, i tempi della fatica portati nel presente sono il male sugli inermi»[xxi].
Purezza – un attributo urticante – è nella traccia di materia non soggiogata che incrementa: ma non è utopia, infanzia irripetuta eppure evocata. È precisamente nel ricordo che contamina, nella morte che apre i cordoni della classe per tramutarla in vita conflittuale («i corpi di ognuno / nel corpo dei caduti / (ogni morte / ci viveva)»[xxii]), che la lotta è generativa – modifica la realtà, è storica e mai arresa alle casematte di chi sta dominando.
Gli scarti puri
In questa lingua l’individuo è apparente. Neanche il morto esiste da individuo, ma da solidale coi vivi. Il morto di lavoro – mille morti in meno di un anno, quest’anno in Italia – è appunto numero, come numero era, da merce, la sua forza-lavoro quando viene contrattualizzata. Agustoni vede i morti – già nell’esergo, il secondo dopo quello fulminante di Mandel’štam («Senza forbici sarà nostra la rosa») – come assilli, forze occupanti «i campi di forza del presente», forze esauste ma tenere. Ripete: «La lotta di classe è nei corpi graffiati. è il lungo campo della storia, la dolcezza spossata dei morti andati via. ora aprono i segreti, vegliano i sepolcri dove il tempo non li confonde»[xxiii].
Pensare la classe oppressa come soggetto che ricorda nei suoi tempi di lavoro, includere i morti tra gli oggetti e le gioie della vita di tutti i giorni, fare della memoria una massa che sa indicare il nemico, essere più consapevoli di ogni nemico che ogni realtà è un prodotto storico e non necessario, portare questa dialettica allo stato di coscienza.
sappiamo ogni guerra
il saluto di un sangue nuovo
l’orizzonte di chi è vivo
la domanda che ci cancella[xxiv].
E farlo attraverso i corpi. Lo dice Agustoni in un brano lungo, costellato di versi e citazioni di Monique Wittig come voce in dialogo: «I corpi sanno l’incerto, lo scarto». Incertezza – il margine di possibilità inevase che si apre, anche nella disperazione. Scarto – tutto ciò che è a “sinistra”, oltre la destra della legge, della retta che astrae, tutto ciò che è concreto e impastato di contraddizioni. È il “nadir” della rinominazione dell’autrice sin dalla seconda poesia del libro («anch’io sono un nome nuovo: Nadir»[xxv]), un «qualcosa nell’interiorità toccato per sempre», a dire l’altra vita oltre i nomi di lui e di lei[xxvi]. È il punto basso e invisibile eppure presente, l’ombra di un riferimento che sta lì a sopprimere l’isolamento, a dire che ogni atto è sociale, che ogni memoria mira a trasformare tutto. «Nell’intero non c’è frattura non c’è pornografia»[xxvii]: per questo la lotta è pura.
Note
[i] W. Brown, Politics Out of History, Princeton University Press 2001; trad. it. a cura di P. Rudan, La politica fuori dalla storia, Laterza, Roma-Bari 2012, p. 149.
[ii] Ivi, p. 154.
[iii] Ivi, p. 151.
[iv] F. Jesi, Spartakus. Simbologia della rivolta, a cura di A. Cavalletti, Bollati Boringhieri, Torino 2022 (2000).
[v] E. Traverso, Malinconia di sinistra. Una tradizione nascosta, Feltrinelli, Milano 2016.
[vi] C. Cruz, The Melancholia of Class. A Manifesto for the Working Class, Repeater 2021; trad. it. di P. De Angelis, Melanconia di classe. Un manifesto per la working class, Atlantide, Roma 2022.
[vii] Ivi, p. 183.
[viii] Ivi, p. 133.
[ix] Ivi, p. 219.
[x] W. Benjamin, Linke Melancholie (1931), trad. it. in Senza scopo finale. Scritti politici 1919-1940, Castelvecchi, Roma 2017, pp. 132-137: 137.
[xi] G. Lukács, Geschichte und Klassenbewusstsein, Malick, Berlin 1923; trad. it. di G. Piana, Storia e coscienza di classe, Sugarco, Milano 1967, p. 254.
[xii] C. Cruz, Melanconia di classe, p. 229.
[xiii] L. Di Ruscio, “ho scelto di esprimere il massimo…”, da Istruzioni per l’uso della repressione (1980), ora in Id., Poesie scelte. 1953-2010, a cura di M. Gezzi, pref. di M. Raffaeli, Marcos y Marcos, Milano 2019, p. 195.
[xiv] Nadia Agustoni, Avrei voluto da giovane solo vivere, Aragno, Torino 2024.
[xv] “muti – nudi”, ivi, p. 41.
[xvi] “nell’ombra sopra”, ivi, p. 18.
[xvii] “negli elenchi di chi li uccide”, ivi, p. 19.
[xviii] C. Cruz, Melanconia di classe, p. 205.
[xix] N. Agustoni, “ci hanno dato”, in Avrei voluto da giovane solo vivere, p. 16.
[xx] “nessun segreto, nessuna paura”, ivi, p. 55.
[xxi] “prima del dolore”, ivi, p. 44.
[xxii] “i corpi di ognuno, ivi, p. 20.
[xxiii] “il lungo cammino della storia”, ivi, p. 22.
[xxiv] “siamo i volti scampati di chi frugò negli incendi”, ivi, p. 11.
[xxv] Ivi, p. 10.
[xxvi] Ivi, p. 67.
[xxvii] “Nell’intero”, ivi, p. 31.
Pezzo ripreso da: leparolelecose
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