10 settembre 2024

IL COLONIALISMO ODIERNO RACCONTATO DA BIFO

 


Iper-colonialismo e semio-capitale


Franco Berardi Bifo
10 Settembre 2024

Il colonialismo storico si è nutrito di estrattivismo di risorse fisiche, il colonialismo di oggi non solo privilegia quello di risorse mentali, potendo contare su un gran numero di lavoratori digitali poco visibili da sfruttare ovunque, ma pretende anche di controllare con violenza i flussi di immigrazione che conseguono alla circolazione illimitata dei flussi di informazione. Bifo in realtà preferisce chiamarlo iper-colonialismo perché impedisce anche che si creino legami di solidarietà tra chi viene oppresso. Di certo “i colonialisti di ieri, coloro che nei secoli scorsi si spingevano oltre i mari per invadere i territori-preda – scrive Bifo – ora gridano all’invasione perché milioni di persone premono ai confini della fortezza. È questo il principale fronte di guerra che dura dall’inizio del secolo e si va ampliando, e assume dovunque i contorni delle sterminio…”


Guatemala. Rifugiati in un campo profughi. Foto di Massimo Tennenini

“Caliban: you taught me language and my profit on it is,
I know how to curse. The red plague rid you
for learning me your language”
(Shakespeare, The tempest)

La storia del colonialismo è storia di predazione sistematica del territorio. Oggetto della colonizzazione sono i luoghi fisici ricchi di risorse di cui l’occidente colonialista aveva bisogno per l’accumulazione. L’altro oggetto della colonizzazione è la vita di milioni di uomini e donne che vengono sfruttati in condizioni schiavistiche nel territorio sottomesso al dominio coloniale, oppure deportati nel territorio della potenza colonizzatrice. Non si può descrivere la formazione del sistema capitalistico industriale in Europa senza tener conto del fatto che questo processo è stato preceduto e accompagnato dalla violenta sottomissione di territori extra-europei e dallo sfruttamento schiavistico della forza lavoro assoggettata nei paesi colonizzati o deportata nei paesi dominatori. Il modo di produzione capitalistico non avrebbe potuto mai affermarsi senza lo sterminio, la deportazione e la schiavitù.

Non vi sarebbe stato sviluppo capitalistico nell’Inghilterra dell’epoca industriale se la Compagnia delle Indie Orientali non avesse sfruttato le risorse e il lavoro delle popolazioni del continente indiano e dell’Asia meridionale, come racconta William Dalrymple in The Anarchy, The relentless rise of the East India Company (2019).

Non vi sarebbe stato sviluppo industriale in Francia senza lo sfruttamento violento dell’Africa occidentale e del Maghreb, per tacere degli altri territori assoggettati al colonialismo francese ottocentesco e novecentesco.

Non vi sarebbe stato sviluppo industriale del capitalismo statunitense senza il genocidio delle popolazioni native e senza lo sfruttamento schiavistico di dieci milioni di africani deportati tra il diciassettesimo e il diciannovesimo secolo.

Anche il Belgio ha costruito il suo sviluppo sulla colonizzazione del territorio congolese che si è accompagnato con un genocidio di efferatezza inimmaginabile. Scrive in proposito Martin Meredit:

“La fortuna di Leopoldo venne dalla gomma grezza. Con l’invenzione degli pneumatici, per le biciclette poi per le automobili negli anni ’90 del secolo diciannovesimo, la domanda di gomma crebbe enormemente. Usando un sistema di lavoro schiavistico le compagnie che avevano le concessioni dividendo il loro profitto con Leopoldo depredarono le foreste equatoriali del Congo di tutta la gomma grezza che trovarono, imponendo quote di produzione agli abitanti dei villaggi e prendendo ostaggi quando era necessario. Coloro che non riuscivano a rispettare le loro quote venivano frustati, imprigionati e anche mutilati con il taglio delle mani. Migliaia furono uccisi perché resistevano al regime della gomma di Leopoldo. Ancor di più dovettero lasciare i loro villaggi….“.
(Martin Meredit, The State of Africa, Simon & Schuster, 2005, pag. 96)

Molti autori contemporanei sottolineano questa priorità logica e cronologica del colonialismo rispetto al capitalismo.

“L’era delle conquiste militari ha preceduto di secoli l’emergere del capitalismo. Proprio tali conquiste e i sistemi imperiali che ne sono derivati hanno promosso l’ascesa inarrestabile del capitalismo”.
(Amitav Gosh, La maledizione della noce moscata, pag. 129).

E secondo Cedric Robinson:

“La relazione tra manodopera schiavistica, tratta degli schiavi e formarsi delle prime economie capitaliste è palese”.
(C.B., Black Marxism)

Pochi però hanno osservato come le tecniche usate dai paesi liberali per sottomettere i popoli del sud del mondo sono esattamente le stesse che il Nazismo hitleriano usa negli anni Trenta e Quaranta del Ventesimo secolo, con la sola differenza che Hitler esercita le tecniche dello sterminio contro la popolazione europea, e contro gli ebrei che della popolazione europea erano parte integrante. Uno di questi pochi è, sorprendentemente, Zbigniew Brzeziński che in un articolo del 2016 dal titolo Toward a global realignment, ebbe l’onestà intellettuale di scrivere:

“Massacri periodici hanno provocato negli ultimi secoli stermini comparabili a quelli nazisti durante la seconda guerra mondiale”.

L’articolo di Brzezinski si conclude con queste parole:

“Quanto è impressionante la scala di queste atrocità altrettanto impressionante è la rapidità con cui l’occidente se ne dimentica”.

Infatti la memoria storica è molto selettiva, quando si tratta dei crimini della civiltà bianca. In particolare la memoria dello sterminio di popolazioni non europee non è oggetto di una particolare attenzione e non costituisce parte della memoria collettiva, mentre alla Shoah è dedicato un culto obbligatorio in tutti i paesi occidentali. La civiltà bianca considera Hitler come il Male assoluto, mentre gli inglesi Warren Hastings e Cecil Rhodes, il tedesco Lothar von Trotha, sterminatore del popolo Herrero, o Leopoldo II del Belgio sono dimenticati, se non perdonati dalla memoria bianca. Come il generale Rodolfo Graziani, aguzzino di Libia e di Etiopia, che fu gravemente ferito in un attentato a Addis Abeba, ma purtroppo ebbe salva la vita, e nel dopoguerra fu graziato dal governo italiano così che poté divenire presidente onorario del Movimento sociale italiano, il partito di assassini che oggi governa nuovamente a Roma. Costoro sterminarono intere popolazioni per imporre il dominio economico della Gran Bretagna del Belgio della Germania o della Francia per tacere dell’Italia. Eppure di loro non ci si ricorda, perché Hitler è il solo che merita di essere esecrato per sempre, dal momento che le sue vittime non avevano la pelle nera.

Per quanto riguarda gli sterminatori dei popoli delle praterie nordamericane, essi sono addirittura oggetto di un culto eroico che Hollywood ha provveduto a celebrare.

La colonizzazione ha agito in modo irreversibile non solo sul piano materiale, ma anche sul piano sociale e su quello psicologico.

La principale eredità del colonialismo è comunque la povertà endemica di aree geografiche che sono state depredate e devastate a tal punto da non riuscire ad uscire dalla condizione di dipendenza. La devastazione ecologica di molte zone africane o asiatiche spinge oggi milioni di persone a cercare rifugio attraverso la migrazione, e incontrano allora il nuovo volto del razzismo bianco: il respingimento, o lo schiavismo di nuovo genere, come accade nella produzione agricola o nel settore edilizio e logistico dei paesi europei.

Poiché il processo di de-colonizzazione non seppe trasformare la sovranità politica in autonomia economica, culturale, e militare, il colonialismo si presenta nel nuovo secolo con tecniche e modalità nuove, essenzialmente deterritorializzate, anche se le forme territoriali di colonialismo non sono cancellate dalla sovranità formale di cui godono (si fa per dire) i paesi del sud globale. Col termine iper-colonialismo mi riferisco proprio a queste tecniche nuove, che non aboliscono le vecchie tecniche basate sull’estrattivismo e la rapina (di petrolio, o di materiali indispensabili per l’industria elettronica come il coltan), ma danno luogo a una forma nuova di estrattivismo, che ha come strumento la rete digitale e come oggetto sia le risorse del lavoro fisico di manodopera catturata digitalmente, sia le risorse mentali di lavoratori che rimangono nel sud del mondo ma producono valore in maniera deterritorializzata, frammentaria, e coordinata tecnicamente.


Madrid, Museo de las mapas

Da quando il capitalismo globale si è deterritorializzato grazie alla rete digitale e alla finanziarizzazione, il rapporto tra il nord e il sud del mondo è entrato in una fase di iper-colonizzazione. L’estrazione di valore dal sud del mondo si svolge in parte nella sfera semiotica: cattura digitale di lavoro a bassissimo costo, schiavismo digitale, creazione di un circuito di lavoro schiavistico in settori come la logistica e l’agricoltura: queste sono alcune modalità di sfruttamento iper-coloniale integrato nel circuito del semio-capitale.

Lo schiavismo – che a lungo abbiamo considerato un fenomeno pre-capitalistico, e che è stato funzione indispensabile dell’accumulazione originaria di capitale – si ripresenta oggi in forma estesa e pervasiva grazie alla penetrazione del comando digitale, e al coordinamento deterritorializzato. La linea di montaggio del lavoro si è ristrutturata in forma geograficamente dislocata: i lavoratori che mandano avanti la rete globale vivono in luoghi distanti migliaia di chilometri, e per questo sono incapaci di mettere in moto un processo di organizzazione e di autonomia.

La formazione delle piattaforme digitali ha messo in moto soggetti produttivi che non esistevano prima degli anni Ottanta: forza lavoro digitale che non può riconoscersi come soggetto sociale per la sua interna composizione.

Questo capitalismo delle piattaforme funziona su due livelli: una minoranza della forza lavoro si occupa della progettazione e commercializzazione dei prodotti immateriali. Costoro percepiscono alti salari e si identificano con l’azienda e con i valori liberali. Un gran numero di operatori dislocati geograficamente è adibita invece a compiti di manutenzione, controllo, tagging, ripulitura ecc. Questi lavorano online per salari bassissimi, e non hanno nessuna forma di rappresentanza sindacale né politica. Al limite non possono neppure pensare a se stessi come lavoratori, perché le modalità dello sfruttamento non sono riconosciute in nessuna maniera, e il loro magrissimo salario viene pagato in forme invisibili, attraverso la rete cellulare. Ciononostante le condizioni di lavoro sono generalmente brutali, senza limiti di orario senza diritti di nessun genere.

Il film di Hans Block e Moritz Riesewick Cleaners (2019) racconta le condizioni di sfruttamento e logoramento materiale e psichico cui è sottoposta questa massa di semio-lavoratori precari che vengono reclutati online secondo il principio del Mechanical Turk creato e gestito da Amazon.

Tra gli anni Novanta e il primo decennio del nuovo secolo si è formata questa nuova forza lavoro digitale che agisce in condizioni che rendono quasi impossibile l’autonomia e la solidarietà. Ci sono stati isolati tentativi di lavoratori digitali di organizzarsi sindacalmente o di contestare le scelte delle loro aziende: penso ad esempio alla rivolta di ottomila lavoratori Google contro la subordinazione al sistema militare (articolo del New York Times). Queste prime manifestazioni di solidarietà si sono verificate però dove la forza lavoro digitale è riunita in gran numero, e percepisce salari alti. Ma in generale il lavoro in rete appare inorganizzabile perché è lavoro precario, decentrato, e in buona parte si svolge in condizioni di tipo schiavistico.

Nel libro I sommersi e i salvati Primo Levi scrive che, quando fu internato nel campo di sterminio

“aveva sperato almeno nella solidarietà tra compagni di sventura”, ma aveva poi dovuto riconoscere che gli internati erano “mille monadi sigillate, e fra queste una lotta disperata, nascosta e continua”. Si tratta della “zona grigia” in cui “la rete dei rapporti umani “non era riducibile ai due blocchi delle vittime e dei persecutori, perché il nemico era intorno ma anche dentro”.

Nelle condizioni di estrema violenza e di terrore permanente ogni individuo è costretto a pensare continuamente alla sua sopravvivenza, e non riesce a creare legami di solidarietà con gli altri sfruttati. Come nei campi di sterminio, come nelle piantagioni di cotone degli stati schiavisti della Land of freedomanche nel circuito schiavistico immateriale e materiale che la globalizzazione digitale ha contribuito a creare, sembrano interdette le condizioni per la solidarietà. È questo che io chiamerei Iper-colonialismo, funzione dipendente dal semio-capitalismo: estrazione violenta di risorse mentali e di tempo di attenzione in condizioni di deterritorializzazione.

Ma l’Iper-colonialismo non è soltanto estrazione di tempo mentale, bensì anche controllo violento dei flussi di immigrazione che conseguono alla circolazione illimitata dei flussi di informazione.

Poiché il Semio-capitalismo ha creato le condizioni per la circolazione globale dell’informazione, in territori lontani dalle metropoli si possono ricevere tutte le informazioni necessarie per sentirsi parte del ciclo di consumo e dello stesso ciclo di produzione. Si può ricevere prima di tutto la pubblicità, poi la massa di immagini e parole che mirano a convincere ogni essere umano della superiorità della civiltà bianca, della straordinaria esperienza che la libertà di consumo rappresenta, e della facilità con cui ogni essere umano può avere accesso all’universo delle merci e delle opportunità. Naturalmente tutto questo è falso, ma miliardi di giovani che non hanno accesso al paradiso pubblicitario aspirano a poterne godere i frutti. Contemporaneamente le condizioni di vita nei territori del sud del mondo sono diventate sempre più intollerabili, perché sono effettivamente peggiorate dal cambio climatico, ma anche perché sono inevitabilmente confrontate con le illusorie opportunità che il ciclo immaginario proietta sulla mente collettiva. Ecco allora che, per necessità e per desiderio, una massa crescente di persone, soprattutto giovani, si muovono fisicamente verso l’occidente, che reagisce a questo assedio con una reazione spaventata, aggressiva, razzista. Da un lato l’Info-macchina invia messaggi seducenti, e chiama verso il centro da cui emanano flussi di attrazione. D’altro lato però chi ci crede e si avvicina alla fonte dell’illusione finisce in un processo massacrante.

La popolazione del nord del mondo, sempre più infertile, senescente, economicamente declinante, e culturalmente depressa, vede la massa migrante come un pericolo. Teme che i poveri della terra portino la loro miseria nelle metropoli ricche.

I migranti sono descritti come la causa delle disgrazie di cui soffre la minoranza privilegiata: un ceto di politici specializzati in seminare odio razziale illude i vecchi bianchi che, se qualcuno riuscisse a cancellare quella inquietante massa di giovani che premono alle porte della fortezza, se qualcuno riuscisse a eliminarla, distruggerla, annientarla, allora ecco che tornerebbe il bel tempo, l’America sarebbe great again, e la moribonda patria bianca riconquisterebbe la sua giovinezza.

Nell’ultimo decennio la linea che divide il nord dal sud del mondo, la linea, che va dalla frontiera tra Messico e Texas al Mar Mediterraneo alle foreste dell’Europa centro-orientale, è diventata zona in cui si svolge una guerra infame: il cuore nero della guerra civile globale. Una guerra contro persone disarmate, stremate dalla fame e dalla fatica, aggredite da poliziotti armati, cani lupo, fascisti sadici, e soprattutto dalle forze della natura.

Nonostante la pubblicità delle merci luminose che rallegrano gli idioti consumisti e nonostante la propaganda dei porci neoliberali, la logica del Semio-capitale funziona a senso unico: il nord del mondo infiltra il sud attraverso i tentacoli innumerevoli della rete, strumento di cattura di frammenti di lavoro deterritorializzato. Ma viene respinta con la forza e con il genocidio la penetrazione fisica del sud che preme per accedere ai territori dove il clima è ancora tollerabile, dove c’è l’acqua, dove la guerra non è ancora arrivata con tutto la sua forza distruttiva.

Una parte rilevante se non maggioritaria della popolazione bianca ha deciso di asserragliarsi nella fortezza e di usare qualsiasi mezzo per respingere l’onda migrante.

I colonialisti di ieri, coloro che nei secoli scorsi si spingevano oltre i mari per invadere i territori-preda, ora gridano all’invasione perché milioni di persone premono ai confini della fortezza. È questo il principale fronte di guerra che dura dall’inizio del secolo e si va ampliando, e assume dovunque i contorni delle sterminio. Non è l’unico fronte di guerra, perché un altro fronte della guerra caotica globale è il fronte inter-bianco che contrappone liberal-democrazia imperialista e sovranismo autoritario fascista.

La disintegrazione dell’Occidente, e particolarmente dell’Unione europea in seguito alla guerra inter-bianca, e la guerra genocidaria alla frontiera sono due processi distinti che si intrecciano sulla scena del decennio Venti al quale non è detto che la civiltà umana sopravviverà.

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