IL CUORE DEL MONDO
di Luca Alerci
da https://www.nazioneindiana.com/2024/09/30/il-cuore-del-mondo/
Vincenzo
Consolo lo incontrai, viandante, nei miei paesi sui contrafforti dell’Appennino
siciliano. Andava alla ricerca della Sicilia fredda, austera e progressista del
Gran Lombardo, sulle tracce di quel mito rivoluzionario del Vittorini di Conversazione
in Sicilia. Era un pomeriggio d’inverno, freddo e livido: solo al tramonto,
le nuvole divennero ocra e rosse sfiorate dal sole. Stavamo visitando un
piccolo borgo, Villadoro d’Altesina. Parlava molto dei suoi anni milanesi, i
primi, dei suoi studi di giurisprudenza. Discuteva con Liborio che non
rinunciava neanche in quelle occasioni alle sue iperboli: “Vicì – gli diceva –
la mia casa è il centro del mondo.” Lo guardavamo tutti un po’ stupiti, ed era
quello che voleva. “Ma è naturale” continuava. “Il Mediterraneo è il centro del
mondo, la Sicilia è al centro del Mediterraneo, la nostra città è al centro
della Sicilia, la mia casa è al centro della città. Mi pare ovvio, no?”
Consolo sorrideva, con il suo sguardo troppo simile a quello dei suoi
personaggi: insinuante ma aperto, acuto ma ingenuo, forte ma delicato.
“Sa avvocato?” Così si rivolgeva al mio amico Rino: “Io la invidio. Anch’io
avrei voluto continuare sulla strada della legge. Si impara molto nei
tribunali, e ancor di più quando si ascoltano le confessioni dei clienti.”
Rino rispose con la consueta arguzia: “si imparano troppe cose, troppe per
continuare a voler imparare.”
C’era una grande sintonia tra Rino e il nostro Consolo, la condivisione della
passione per la giurisprudenza. Il crepuscolo, intanto, si stendeva lieve sulle
strade solitarie: era tardi, bisognava rincasare e accompagnarlo all’albergo.
Ma Liborio non voleva, era abituato ad uscire la notte, ad ascoltarla. Io
dovevo rincasare per forza. Si decise di rientrare, per quella sera. C’eravamo
tutti al rientro: Danila ci aveva raggiunti e con la sua consueta delicata
premura, aveva portato il mio piccolo registratore e la macchina fotografica.
Avremmo voluto e dovuto realizzare un’intervista, lei che scriveva per Il
giornale di Sicilia, ma non so perché la rimandavamo continuamente, forse
perché non volevamo in verità fermare sul foglio le emozioni di quelle sere,
dei lunghi pomeriggi a spasso tra i monti. Eppure, una cosa Danila riuscì a
chiedergli delle tante domande che si era preparata: cosa resta del laboratorio
della letteratura siciliana? Consolo ci pensò su e poi le disse: “dipende da
voi, dalla vostra generazione”. “Non granché allora – rispose amara Danila –
non granché”.
Il giorno
dopo quella passeggiata, lo andammo a prendere di buon mattino: ci aveva
chiesto di salvarlo da non so quale conferenza o cenacolo organizzato per lui.
Troppe parole, troppo rumorose soprattutto. A me dispiaceva in realtà
assecondarlo e non perché non volessi continuare a chiacchierare con lui, da
soli. Mi dispiaceva però tradire il nostro amico professore che tanto aveva
desiderato questi incontri. Alla fine restammo, ma non mancò la possibilità di
un’ultima discussione tra noi, all’ombra del duomo. Consolo mi disse: “anch’io
sono nato nel Val Dèmone, eppure qui c’è aria di montagna, siete fortunati.” Io
gli citai naturalmente Le città del mondo, le descrizioni
oniriche di questi borghi osservati dai silenzi della vita nomade di Rosario e
del padre, le scene delle fanfare nelle campagne, quasi metafisiche, ma che
parlavano invece di lotte dure, di sacrifici, di emancipazione negate o tradite
o mai raccontate.
“Questa è la mia città – dissi. Mi dispiacerebbe andare via.”
Consolo mi rispose che non c’era più bisogno di andare, non era più come ai
suoi tempi. Poi mi disse, a proposito dei discorsi che aveva ascoltato tra noi
su Tomasi di Lampedusa: “ho di recente riletto ancora tutto il carteggio di
Vittorini e Mondadori. Le sue parole sul Gattopardo sono state sempre travisate
o forse neanche mai lette veramente. È piaciuto creare questa contrapposizione.
E te lo dice uno che secondo molti ha scritto l’anti Gattopardo (si riferiva
ovviamente a Il sorriso dell’ignoto marinaio).”
Nella
primavera di quello stesso anno, nonostante mille problemi, decidemmo di
andarlo a trovare per invitarlo a settembre in vista di un premio che la mia
scuola voleva consegnarli. Era a Siracusa. Faceva già caldo, sulle coste, quel
caldo denso che non capirò mai come si riesca a sopportare per cinque mesi
all’anno.
Aveva poco tempo, e ci fu solo l’occasione di prendere un tè nel piccolo
salottino dell’albergo, a Ortigia.
“Ciao Vicì” gli disse Liborio. “A settembre, quando ci vedremo di nuovo da noi,
ricordami che ti devo fare avere il bellissimo libro di Michele Anzalone,
Favole a Castroforte. Ne parlavamo l’altra volta. Ci sono i protagonisti della
nostra città, una città che non è però stata protagonista di nulla…”
“Con piacere, certo che mi ricordo”, rispose. “Sai Liborio, c’è una cosa che
volevo dirti. Non l’avere a male, ma devo confutare la tua teoria sulla non
necessità dell’arte, ma forse ne parleremo a settembre, sei troppo attento
ora.” Rise, e noi con lui, perché aveva ripreso una delle illuminazioni di
Liborio quando voleva spostare il livello del discorso. Liborio era un grande
artefice, creava racconti con la terracotta, la ceramica, il metallo, il legno,
piccole increspature sopra la fronte di una statuetta che diventavano
narrazioni: qua, qua è il racconto, ammoniva. Era la nostra guida, quando ci
raccontava di Guttuso, delle manifestazioni a Roma dove lo chiamavano il
Ciciliano, dell’avventura bella e dannata del PSIUP, “dell’acqua d’acqua” a
proposito dei suoi esperimenti creativi nelle campagne di Piazza, dei suoi
tormenti, ben nascosti tra i sorrisi beffardi.
“Non bisogna mai guardare le cose troppo da vicino” continuò Consolo. “Bisogna
osservare la vita, raramente parteciparvi.” Diceva così in quei momenti di
fronte al livido scirocco sul mare dei Greci.
Doveva andare, e noi rientrare. “Allora, ci vediamo a settembre” disse. “Magari
prima venite a Sant’Agata, da me. Voglio farvi vedere il mio mare del Val
Dèmone, e poi ce ne saliamo sui monti, a guardare il cielo da vicino.” Furono
strane parole.
Ma quel settembre non arrivò mai: quando lui tornò, noi non potemmo andare.
Impegni di lavoro, per lo più.
Eppure ci sarebbe bastato, come ci aveva suggerito, valicare i Nebrodi tra
Cesarò e San Fratello, nel cuore della faggeta di Sollazzo verde, solenne sotto
Monte Soro, sino al mare di Sant’Agata. Un breve viaggio, due ore, nella
Sicilia che era stata al centro della sua descrizione del Risorgimento degli
ultimi.
Ma no, non ci andammo né allora né più mai.
Ricordo
ancora una delle sue illuminazioni, la prima volta che ci incontrammo: sapeva
cosa pensavamo prima che lo pensassimo (non dovrebbero fare questo gli
scrittori?).
“La letteratura in Sicilia”, ci disse con tranquilla fermezza, “ha perduto la
propria visione unitaria, non segue più la ricerca degli ‘altri doveri’ di
Vittorini. Non è per forza un male, anche se sembrano prevalere delle
letterature di solo intrattenimento, neo rusticane. Ma capisco la vostra
amarezza. Eppure non voglio pensarci ora, portatemi in giro tra queste nuvole
basse accagliate tra le rocche.”
Era felice, quella sera, aveva trovato forse ciò che era venuto a cercare,
chissà. Camminammo a lungo, a braccetto. Ad un certo punto, la nebbia ce li
nascose, lui e Liborio, scomparsi. Riapparvero dopo qualche minuto, ma sono
sicuro che per loro erano passati anni, all’indietro, tanto felici e vivi erano
i loro sguardi.
“C’era Vittorini appoggiato ad un portone” ci disse Consolo guardando Liborio.
“Era lì che si stava accarezzando i baffi e io gli ho detto se voleva venire a
conoscervi, giovani e affiatati come i Dioscuri. Ma era impegnato, doveva
raggiungere altri amici. Ci ha detto che tornerà. Aspettatelo, tornerà.”
Liborio e Consolo ripresero la passeggiata.
Noi guardavamo lontano, nonostante la nebbia. O forse proprio grazie a lei.
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